L'educazione del giovane Tjaž

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L’ educazione del giovane Tjaž



Capitolo della malerba

E così, alla fine, stai attraversando il paese. Per tutte le vacanze non hai mai camminato tanto quanto oggi. Non è il tuo paese natale, no, questa è un’insinuazione da rigettare fermamente, ma un gruppo di abitazioni situato tra la stazione ferroviaria e la casa di famiglia, niente di che, quanto basta però da permettergli di stare nel mezzo, di esserti d’intralcio sulla strada verso la stazione. Ogni volta che percorri quel tragitto – fa lo stesso in quale direzione – fischietti, tieni il broncio e fischietti a tutto spiano perché i paesani ti possano riconoscere, e perché tu possa riconoscere il tuo paese e distinguerlo da tutti gli altri, in modo che rimanga un punto fermo nella tua memoria. Hai imparato a fischiettare appositamente per il tuo paese, per amore di quell’ammuffita sequenza di case. Di paesi così ce ne sono a migliaia, ma tu percorri fischiettando soltanto il tuo, che ha il merito di averti insegnato a fischiettare, prima non avevi mai mostrato alcuna attitudine, ciononostante lui ti ha dato lo stimolo, ti ha messo a disposizione lo spazio e il tempo per esercitarti, ti ha concesso innumerevoli possibilità di arricciare le labbra fino a emettere un suono, perché qui il fischiettare rende allegri e ha un suo significato, qui ogni fischio si giustifica da sé, qui il tuo fischiettare inebria gli abitanti, che non amano gli striduli grumi sonori, qui sei diventato un abile fischiettatore, ormai ti sei fatto una reputazione, d’ora in poi il nome del paese potrai pronunciarlo fischiettando. E mentre cammini per le sue strade lo dividi in due, il lato sinistro e quello destro, distingui gli abitanti del lato sinistro da quelli del lato destro, li “sinistrizzi” e “destrizzi”, ti guardi intorno, ora in una direzione, ora nell’altra, cerchi di incrociare lo 9


sguardo delle persone prima a destra e poi a sinistra, dando loro l’occasione per salutarti, la possibilità quindi di formulare le prime frasi della giornata, di mettere in circolazione il primo soggetto e il primo predicato – solitamente hanno a che fare col tempo –, così loro, per merito tuo, ancora a stomaco vuoto si accertano delle condizioni climatiche, e costringono anche te a prendere atto della bella o della cattiva stagione, tu che per simili questioni mostri un’autentica ispirazione, d’altronde l’esercizio assiduo e l’esperienza hanno affinato il tuo orecchio, e ogni volta che ci sono liti o discussioni in proposito ti fai valere come un autorevole meteorologo. Nel frattempo le galline fanno coccodé, i buoi muggiscono, abbaia il cane – e tu ti fidi dei cani, sono sempre stati dalla tua parte. Non appena sarai salito sul treno, il primo compito che attende il paese è ricomporre i propri pezzi, sarà la prima preoccupazione dopo la tua partenza, in effetti comincia già a brulicare, la gente spunta da ogni parte e si raccoglie dove capita – qui c’è poco da fare i difficili, per giunta si va sempre di fretta. Il paese è diviso, sottosopra, ci si ritrova sulla soglia di casa o a metà strada con il vicino, agli incroci, da una parte o dall’altra degli steccati, ovunque insomma – su queste cose i paesani non fanno i difficili, né sono scrupolosi, non lo sono mai stati, né è necessario esserlo –, ogni luogo è quello giusto per una buona parola, un covile qualunque può bastare per sussurrarsi a vicenda e confidenzialmente i motivi della tua partenza, perché sei tu che stai prendendo il treno, sei tu dunque il colpevole. Nascondono sempre qualcosa, oggi questo, domani quell’altro, quando vogliono sono maledettamente precisi, si accertano di quante volte hai usato la parola “culo” anziché “didietro” o “popò”, sono convinti che culo sia una parola disgustosa, didietro e popò invece suonano bene alle loro orecchie, e suddividono così i compaesani in due classi sociali, la classe con i didietro e i popò, e la classe con i culi, non dev’esserti difficile indovinare in quale delle due ti hanno collocato, tu che ti stai dirigendo verso la stazione. È arrivato di giorno – si sa, arriva sempre di giorno – e scompare nella notte, scivola via nella notte, per ripresentarsi il giorno dopo L’educazione del giovane Tjaž


all’altro capo, novità chiama novità, da queste parti le novità le spremono, si accostano l’uno all’altro e le spremono, le teste a un palmo di distanza, non di più, più vicini non si può, e l’appressamento dura sino a che non ne hanno abbastanza. Così ora non sei seduto nel treno, anche se nel frattempo vi sei salito sopra, ma stai bighellonando tra le bocche dei tuoi compaesani, sei la ragione dei loro appressamenti. Pur se non sono parte di te, e tu non sei parte di loro, loro sono tuoi e tu sei loro, poiché ti considerano uno di loro, tu e nessun altro, per te hanno avuto compassione e per un po’ sarai la persona giusta, sei bravo e ti sei dimostrato utile, basta solo che attraversi fischiettando il loro paese, quante volte l’hai attraversato tagliandolo fino fino, quante volte a piccoli passi hai sgambettato per le strade asfaltate e i sentieri polverosi, per questo ti hanno accolto come uno di loro. Si preoccupano per te, sei entrato nei loro cuori, chi lo sa cosa diventerai, non è ancora chiaro, ma non importa, sarai ciò che potrai diventare, e quando sarà possibile diventerai questo, quello probabilmente no, quest’altro forse, solo se si potrà, un signore, già, se nel frattempo non succede nulla di particolare, diventerai un signore, non si sa ancora chi, ma non fa nulla, l’importante è che non sarai costretto a rimanere lì, a sfacchinare come loro. Eh no, ti hanno concesso il potere e ora lo stringi tra le mani, non ti sfugge, con loro hai contratto un debito, lo sai, d’altronde eri l’unico, così ti hanno spalancato davanti il mondo intero perché tu possa camminare liberamente per il loro paese durante le vacanze, e una volta concluse salire di nuovo sul treno. Hai girato attorno agli angoli gialli delle case, delle pergole e delle cantine che i cani hanno schizzato con il loro piscio, sei passato accanto alle case e hai attraversato più di un cortile. Più di una porta, aprendosi di soppiatto, ha cigolato, più di una cortina, in gran segreto, si è animata al tuo passaggio, tuo era il controllo sui pertugi e sulle cortine e sugli occhi nascosti, tua la sensazione di essere stimato, non era quindi senza un motivo se procedevi a passi spediti e a testa alta per il paese. Il treno si avvicina ansimando, irrompe nella stazione e conclude un capitolo del tuo periodo studentesco, mai pri10 11


ma di quest’anno avevi vissuto situazioni simili, qualcosa sta nascendo dentro di te, stanno prendendo forma cose inaspettate, le vacanze sono ormai alle spalle, ne hai respirato l’aria, ne hai assorbito il sole che risplendeva sul tuo volto, hai annaspato nei primi amori, hai destato i tuoi istinti e li hai lasciati sprofondare in esperienze indimenticabili. Dal collegio ti sei portato il regolamento per le vacanze estive, là vi avevano radunato nella sala delle cerimonie con il vestito della domenica e le scarpe dei giorni di festa, e sommersi di istruzioni e precetti, di consigli, ammonimenti e raccomandazioni, così si deve e così no, così si fa e così non si fa, per questa e quest’altra ragione, le teste formicolavano di profilattici, i cuori si rabbuiavano. Ma tu non eri lì: respinto l’assalto delle frecce avvelenate, al momento giusto te la sei filata, sei salito nella stanza di sopra dove c’è una macchina per scrivere, quella fiammante battola piena di caratteri in cui ti sei rifugiato spesso, e che più di una volta ti ha tolto dai guai. Quale testo Tjaž abbia affidato per la prima volta alla macchina e come sia venuto alla luce non si può più stabilire, hanno trovato soltanto alcune lettere di quel periodo che ne testimoniano l’esistenza. In tutti quegli anni gli è riuscito di tener nascosta una simile attività senza che nessuno nutrisse mai il minimo sospetto, scriveva infatti regolarmente, in un orario prestabilito, per esempio la domenica, quando erano previste le passeggiate di gruppo, il sabato durante le funzioni pomeridiane, oppure durante gli esercizi spirituali, nelle ore dedicate alla confessione o in altre occasioni. Che l’uso della macchina per scrivere fosse vietato e dunque soggetto a punizione, Tjaž nemmeno lo sapeva, su questo aspetto il regolamento interno misteriosamente taceva. Mentre in chiesa cantavano ad alta voce perché i popoli del mondo si liberassero una volta per tutte dal giogo comunista e perché si riuscisse a far passare da qualche apertura nella cortina di ferro una dolce e gustosa caramellina cristiana, Tjaž inseguiva i caratteri sulla tastiera – una simile caramellina prima o poi perde di sapore, ma tu non te ne sei ancora sbarazzato, continua a rigirarsi nella tua bocca anche se da tempo l’hai consumata, digerita L’educazione del giovane Tjaž


ed espulsa. Una volta hai trasgredito questo e quest’altro punto del regolamento interno e il direttore ti ha convocato per discuterne a quattr’occhi, incluse, per così dire, le virgole e i punti, tu però non ti sei presentato, hai declinato l’invito, non hai dato loro l’occasione di dimostrarti la loro bontà e di illuminarti con la loro magnanimità, per questa volta ti sia perdonato, tutto sia dimenticato, la punizione ti sia risparmiata, solo stai attento a non cadere di nuovo in tentazione e a non inebriarti ancora di malvagità. Non eri presente quando avrebbero voluto darti quanto avevano preparato apposta per te, lì, a portata di mano, bastava solo tendere il braccio, staccarne un pezzo e nasconderselo in grembo, non serve entrare nei dettagli, la faccenda si sarebbe sistemata con le buone, a tutti sarebbe parso un atto generoso, un gesto che avrebbe rivelato il volto nobile del collegio e concesso a Tjaž di cavarsela senza una punizione, questa volta, beninteso, la prossima non più, d’altronde a ciascuno sono stati accordati comprensione e aiuto, e tutti si sarebbero illuminati nella perfezione cristiana e in uno sfibrante autocompiacimento se Tjaž fosse sceso a patti, ma Tjaž a patti non è sceso, non ha permesso che lo prendessero sottobraccio e al contempo gli stringessero il cappio intorno al collo. Mentre i popoli della terra si stavano liberando dal giogo comunista, oppure cercavano di far passare dall’altra parte le caramelle, mentre qualcosa si muoveva oltre la cortina di ferro, grazie al profumo dei dolciumi che si spandeva tutt’intorno, quell’anima buona di Tjaž picchiettava sulle lettere. Altre volte il comunismo cedeva il passo a preoccupazioni più vicine, più familiari, a tal fine in chiesa proliferavano le litanie, lauretane credo, chiamando in causa Regine e Vergini per diffondere la gioia, e in quelle occasioni i tasti sferravano colpi sull’Arca dell’Alleanza e sul Tempio dello Spirito Santo, sulla Casa d’Oro e sulla Porta del Cielo, sulla Torre d’Avorio, crollata dopo quella di Davide, colpi che rimbombavano per tutto il collegio, e il ticchettio scivolava sulla Rosa mistica e la Stella del Mattino, in breve, l’inizio della nostra felicità, per i santi invece l’inizio di tempi duri, il tutto mentre Tjaž faticava sulla sua macchina per scrive12 13


re. È comprensibile quindi che non avessero voglia di intromettersi in questioni private, esaudire quella o quell’altra preghiera od occultare Dio sa cosa, non si sono mai abbassati alle molestie del popolo eletto, intonse sono rimaste le provviste del paradiso, dunque a maggior ragione hanno sprecato le loro parole nell’atmosfera prevacanziera della sala delle cerimonie, le loro istruzioni e i loro consigli perché gli allievi crescessero e maturassero in un certo modo non erano serviti a nulla. Il direttore quel giorno era di pessimo umore, preoccupato dalle imminenti vacanze, prudentemente aveva dosato i momenti di svago dei convittori, lasciato che le vacanze arrivassero a poco a poco, acconsentito non senza indugi alle richieste di riposo e tempo libero, era una lotta cerebrale quella che aveva luogo dentro di sé, poiché in ogni convittore il male e il bene bramavano cambiamenti e reclamavano aria nuova, ormai era palpabile, e in una simile condizione i loro desideri potevano prender forma ancor più facilmente. Nel collegio tutto era rimasto come un tempo e tutto era sempre al solito posto, per dire, non avevano mai trasformato uno studio in una cantina, o una biblioteca in una camera da letto, non che servisse granché, sarebbe bastato riorganizzare un po’ l’arredamento, spostare qualcosa, rivoltare, girare, dislocare la vita in uno spazio diverso, lasciar cadere l’acqua su un altro mulino, un minimo cambiamento avrebbe scongiurato più di una caduta e frenato più di un’intenzione. Anche a casa di Tjaž nulla cambiava, la cucina era sempre la cucina, la camera da letto sempre la vecchia camera da letto, il porticato rimaneva il porticato, la cantina la cantina e l’isba l’isba, niente si distingueva dalla camera da letto, dalla cucina, dal porticato e dalla cantina di cinquant’anni prima, tutto aveva una sua irremovibile collocazione come i versi del Padre Nostro, impossibile sostiuirli con altri, rivoltarli o tralasciarli senza rischiare un’accusa di eresia. Solo Tjaž ribaltava la propria stanza a suo piacimento, l’armadio e la scrivania e il letto non avevano pace, ora spingeva la scrivania sotto la finestra e il letto verso la porta, ora era la parete più lunga a doversi sobbarcare il peso dell’armadio, ora faceva ruotare L’educazione del giovane Tjaž


l’intero arredamento lungo le pareti, e così via, in breve, metteva spesso in ordine e spolverava a dovere la sua stanza. Non è l’unica cosa che ti porti appresso in collegio al ritorno dalle vacanze, hai un bagaglio di esperienze avventurose, te ne stai ritto come un sacco pieno, ti sei saziato di dolciumi e foraggiato di cibi inusuali e freschi, e ora che sei rientrato devi fare i conti con te stesso, con il modo in cui hai gestito le istruzioni, le direttive e i precetti, devi mostrarne i frutti, e già senti i rimproveri sibilare, qualcosa è certamente emerso dalla relazione del parroco riguardo al tuo comportamento durante le vacanze, tuttavia non hai nulla da temere, il parroco ti vuole bene e sta dalla tua parte, va male invece con le colpe che nascondi dentro di te, anzi, di male in peggio. Hai fatto visita al parroco e alle benefattrici, mostrando loro la pagella con i voti, ti sei un poco lamentato confidando le tue preoccupazioni e guarda, è stato d’aiuto, ti è servito, ti ha fatto bene, già sai cosa ti comprerai con il denaro che ti hanno dato, pensi, mentre ringrazi sinceramente, ti viene dal cuore, l’unica moneta che ti resta sempre e che abbia un qualche valore. Hai trascorso buona parte del tuo tempo tra faccende quotidiane, non sono riusciti a persuaderti a dissipare la tua già miserabile vita – non è ancora una vecchia corda –, hai vissuto e lasciato vivere, sei stato presente, per così dire, alla nascita della prima foglia di filodendro, attento e con l’arco teso stavi lì, però non hai prestato ascolto alle sue singole fibre, diciamo all’allentamento delle tenaglie, allo strappo e allo svitamento, un lavoro – e che lavoro! –, e le convulsioni del parto non ti hanno nemmeno sfiorato, nemmeno il più flebile pensiero per simili cose ti è passato per la testa, semplicemente hai vissuto la foglia di filodendro e ancora la vivi, finché non ne morirai, insomma, hai preso la vita come veniva, questo è quanto. Non è stato granché ciò che hai vissuto, ma qualcosa lo è pur stato, hai lasciato un pezzetto qua, un pezzetto là, che sono seccati e presto dissolti, come volati via, anche questo è accaduto, e solo con fatica hai ricavato dalle doghe contorte un recipiente appropriato. Un giorno ti sei avvicinato alla chiesa del paese, ci sei passato accanto per andare alla stazione. 14 15


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