Figure della mitteleuropa

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Marco Pozzetto

Figure della Mitteleuropa Scritti d’architettura e d’arte

a cura di Maurizio Giufrè

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Tutti i diritti riservati © 2008, Emanuela Zandonai Editore, Rovereto (TN) ISBN: 978-88-95538-03-7 È vietata la riproduzione non autorizzata, anche parziale, a semplice uso interno o a fini didattici, con qualsiasi mezzo. Le riproduzioni potranno essere concesse dall’editore con specifica autorizzazione e soltanto per un numero di pagine non superiori al 15% del volume. Per informazioni info@zandonaieditore.it Progetto grafico Studio Norma, Parma In copertina: Otto Wagner, particolare della decorazione dei pilastri interni della Cassa di risparmio postale di Vienna, 1904 (stilizzazione grafica di Francesca Ameglio Pulselli) © Tutti i diritti riservati www.zandonaieditore.it


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Indice

Premessa di Damjan Prelovsˇek

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Introduzione di Maurizio Giufrè

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Ringraziamenti

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Nota biografica a cura di Luca Pozzetto

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1. Vienna e l’architettura nella Mitteleuropa Pietro Nobile e il principe di Metternich, una ricetta per l’architettura dell’Europa di mezzo Pietro Nobile docente Contributi filosofici di Gottfried Semper e il linguaggio nella Mitteleuropa Appunti sulla cultura filosofica dei praktischen Ästhetiker Karl König e gli architetti del Politecnico Teatro come ambiente architettonico nella Mitteleuropa degli ultimi due secoli La Scuola di Wagner Architettura a Vienna alla fine dell’impero La Secessione e l’Europa centro-orientale. Sviluppi e conseguenze Max Fabiani - Marginalia Max Fabiani e altri europei “non capiti” Plecˇnik e la Scuola di Otto Wagner Zˇale: obitorio giardino. Jozˇe Plecˇnik, Lubiana 1938-1940 La Scuola di Architettura di Lubiana Il momento boemo nella storia dell’architettura moderna Otto Prutscher e l’arte della casa Edoardo Gellner: dal mobile all’architettura degli interni

3 10 17 23 27 31 33 67 76 85 88 93 156 161 168 174 180

2. Architetti italiani della modernità Annibale Rigotti architetto dall’altera modestia Ottorino Aloisio un architetto futurista? Equilibrio d’un gusto. Umberto Cuzzi, architetto Alberto Sartoris e il teatrino privato di casa Gualino La parte di Sartoris Gino Levi Montalcini (1902-1974) Gruppo torinese del MIAR. Via Roma, Torino. Significati di una proposta Le radici della pittura di Luciano Baldessari architetto

211 219 223 229 233 251 262 268 Indice

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3. Architetti e città del Friuli-Venezia Giulia Appunti sul problema della configurazione delle basiliche eliane di Grado Storicismo romantico schinkeliano negli anni Ottocentocinquanta a Trieste: l’Arsenale del Lloyd e il Castello di Miramar Heinrich Ferstel e il Palazzo del Lloyd a Trieste Il “Volta”, la Scuola dell’Impero La formazione degli ingegneri-architetti triestini nella seconda metà dell’Ottocento: il caso di Giovanni Berlam Sui contributi di Ruggero e di Arduino Berlam nei lavori firmati da entrambi Canciani e l’architettura Angiolo Mazzoni. Progetto per la stazione di Trieste, 1935-1939 Romano Boico e l’architettura Annotazioni per una storia dell’architettura moderna a Trieste Udine o della “friulanità” Pietro Zanini e l’architettura del suo tempo in Friuli Tentativo di valutazione dell’opera architettonica di Marcello D’Olivo

301 308 320 324 328 342 367 379 392

Bibliografia degli scritti di Marco Pozzetto

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Indice dei nomi

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Indice

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Premessa di Damjan Prelovsˇek

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Marco Pozzetto proviene, per parte di madre, dalla nota famiglia slovena degli Hribar, il padre invece era un italiano della Dalmazia. Pur essendo i miei genitori amici degli Hribar, noi di Marco non sapevamo granché, perché frequentò il ginnasio presso i domenicani in Dalmazia e dopo la guerra seguì il padre in Italia. Solo più tardi venimmo a sapere che da ragazzo era stato assiduo frequentatore della piscina Ilirija di Lubiana, dove amava andare a nuotare. Lo conobbi alla fine degli anni sessanta a Gorizia, in occasione di uno degli Incontri Culturali Mitteleuropei. Nonostante i molti anni vissuti nell’ambiente italiano, non aveva difficoltà con la lingua materna. Veniva spesso a Lubiana, dove aveva ancora alcuni parenti. Dopo un po’ diventammo amici. Mi raccontò delle sue peripezie all’arrivo in Italia e di come fosse riuscito a sopravvivere grazie all’insegnamento del nuoto a Grado. Per studiare non gli rimaneva molto tempo. Solo quando si trasferì a Torino riuscì a concludere gli studi di architettura presso il Politecnico. A causa di problemi con la vista, decise di rinunciare alla progettazione e si dedicò alla storia dell’architettura e alla conservazione di monumenti. Fino all’ultimo conflitto balcanico, Pozzetto amava venire d’estate, con la moglie, nella nostra casa di vacanze sull’isola di Cres. Negli anni settanta abbiamo fatto insieme molti viaggi a Praga e nella Slovacchia, essendo entrambi interessati all’architettura di quella parte d’Europa. Bisogna poi ricordare che a Vienna abitava la sorella Lucia; ciò permise a Pozzetto di studiare in modo approfondito la letteratura e le fonti riguardanti Otto Wagner e la sua Scuola. Divenne poi uno dei principali studiosi della moderna architettura nella vicina Italia, cosa che i colleghi italiani faticavano a riconoscergli tanto che non gli permisero di conseguire il meritato titolo di professore. E lui era troppo onesto e coerente per cercare scorciatoie nella carriera accademica. Di Marco Pozzetto ci rimane un insieme rilevante di opere, che ha influenzato in maniera profonda la nostra comprensione del processo architettonico della cosiddetta Mitteleuropa. Poiché sentiva vicini sia il mondo slavo che quello germanico e latino, ebbe la capacità di giudicare in modo obiettivo e senza alcun pregiudizio i risultati ottenuti dalle singole realtà nazionali. Spesso ci sorprese con idee Premessa

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che oggi sembrano condivisibili da tutti, ma che furono invece molto provocatorie negli anni sessanta e settanta, quando sull’Europa pesava ancora la cortina di ferro. Pozzetto badava all’essenziale e non si lasciò condizionare dalla storiografia italiana che, preccupata della gloria nazionale e nell’attesa che tutto il mondo la seguisse nella “scoperta” di architetture sottovalutate o ignorate in altre parti d’Europa, lanciava sempre nuove mode culturali. Da studioso serio, Pozzetto non volle mai adeguarsi alle mode, e in questo sta la sua grandezza. Se lasciamo da parte i suoi fondamentali scritti su alcuni protagonisti dell’architettura friulana e triestina (Ottorino Aloisio, Umberto Cuzzi, Raimondo D’Aronco, Alberto Sartoris, Romano Boico, la famiglia Berlam ecc.), che nella loro Italia divennero noti soprattutto grazie al suo apporto, e le innumerevoli iniziative per la conservazione di monumenti in Piemonte intraprese durante la sua docenza torinese, gli sforzi principali di Pozzetto si volsero a indagare il fenomeno secessionistico viennese. Il centro della monarchia danubiana lo attirò per la sua plurietnicità, che era anche il tratto della sua personalità. A metà degli anni settanta tradusse in italiano il noto manifesto di Otto Wagner sull’architettura moderna. Questa traduzione, da lui curata con grande competenza, i nostri vicini non amano citarla e preferiscono fare riferimento ad una successiva di altro autore. Pozzetto del resto fu molto in anticipo sui tempi, perché i nomi più brillanti della critica architettonica italiana si stavano ancora confrontando con gli inizi del Movimento Moderno dell’Europa occidentale. Quando in seguito anche nella penisola prevalse un generale acritico entusiasmo nei confronti della Vienna del 1900, Pozzetto fu messo in disparte, anche se non fu possibile ignorare completamente le sue opere sulla Scuola di Wagner e su alcuni dei suoi protagonisti slavi. Basti ricordare che non scese mai a patti con l’élite intellettuale che si arrogava il diritto di primeggiare. Da Venezia a Roma erano in molti a leggere le sue opere, pur stentando a riconoscere il vantaggio che ne traevano. Nonostante questo, Pozzetto fu infaticabile promotore di numerose mostre e convegni di studio e, negli stati che si formarono dopo il crollo della monarchia asburgica, insostituibile presenza in tutti i simposi internazionali. VIII

Premessa

L’Università tecnica di Vienna gli conferì nel 1985 il prestigioso premio Prechtl. A Trieste o a Gorizia non ci fu importante avvenimento a cavallo tra il XIX e il XX secolo al quale non abbia collaborato, che si trattasse di comunità greca, ebrea o ortodossa, del Castello di Miramar o di un importante Incontro Culturale Mitteleuropeo. In alcuni casi si dedicò anche all’analisi compositiva dei monumenti più antichi. Altrettanto significativo è il contributo di Pozzetto alla storiografia slovena, giacché collocò con convinzione Max Fabiani e Jozˇe Plecˇnik nella mappa dell’architettura europea. Nel 1966 a Gorizia fu pubblicato – in un’edizione non particolarmente prestigiosa per quegli anni – il suo libro su Fabiani, che ancora oggi è ritenuto un caposaldo degli studi architettonici. Allora al di fuori del confine sloveno pochi conoscevano Fabiani. Pozzetto, con un approfondito studio degli scritti e dei documenti, illustrò il percorso culturale e la poetica architettonica di Fabiani. Alla pubblicazione fece seguito una mostra negli spazi della Galleria Nazionale di Lubiana. Fabiani rimase una grande passione di Pozzetto e nello stesso tempo l’impegno di una vita. Con grande gioia ci raccontava del suo lavoro ogni volta che riusciva a trovare qualche nuovo dato o un nuovo documento su di lui. Il punto più alto delle sue ricerche fu in ogni caso la mostra su Fabiani allestita nelle Scuderie del Castello di Miramar, nel 1988, che più tardi potemmo ammirare anche a Lubiana. In quell’occasione Pozzetto curò la traduzione slovena di tutti gli scritti di Fabiani sull’architettura. Nel 1997 coronò il suo impegno con una ricca monografia uscita in Slovenia, mentre l’originale in italiano è ancora inedito. Pozzetto si rese presto conto anche dell’importanza dell’architetto Jozˇe Plecˇnik. Quando Lojze Gostisˇa, a dieci anni dalla morte dell’artista, organizzò a Lubiana una mostra su Plecˇnik, Pozzetto sorprese tutti dedicandogli una monografia pubblicata a Torino nel 1968, quasi mezzo secolo dopo quella di Kosta Strajnic´. In essa Pozzetto raccolse molto materiale con il quale dimostrò l’assoluto valore dell’architettura di Plecˇnik. In un periodo in cui l’Europa traboccava di entusiasmo per il cosiddetto stile internazionale ed erano in auge ideali completamente differenti, il libro su Plecˇnik parve qualcosa di superato. Gli anni ottanta dimostrarono che Pozzetto era stato


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ancora una volta molto in anticipo sui tempi. Nonostante l’accoglienza tiepida che trovò allora in Italia, la monografia su Plecˇnik fu una grande prova e soprattutto la testimonianza dell’innegabile appartenenza dell’autore anche alla cultura slovena. Nell’ambiente triestino Marco Pozzetto, le cui ricerche evidenziavano il contributo friulano e sloveno allo spazio mitteleuropeo, fu considerato troppo poco italiano, e venne quindi emarginato. Quando verso la metà degli anni sessanta si trasferì definitivamente a Trieste, dove teneva lezioni all’università, in realtà non fece altro che abbattere tenacemente il mito della sua esclusività italiana. Non mancò di

pagarne pegno. L’amico Vladimir Vremec ricorda che a Palermo preferirono assegnare una cattedra a una giovane e inesperta allieva di Pozzetto piuttosto che pensare a lui. Ciò nonostante, Pozzetto favorì e sostenne sempre la collaborazione internazionale a livello universitario, dando il suo apporto, in questo senso, anche agli Sloveni. Non va dimenticata inoltre la Fondazione Fabiani che ha sede a Sˇtanjel, della quale fu promotore e membro onorario. Fino a che la salute glielo permise, rispose con gioia alle chiamate dalla Slovenia e fu sempre graditissimo ospite nelle manifestazioni sull’architettura.

Premessa

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Introduzione di Maurizio Giufrè

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Se un giorno dovessimo scrivere una storia della critica architettonica in Italia, Marco Pozzetto vi occuperebbe una posizione di assoluto rilievo. Nel tracciarne il carattere, potremmo riferire a Pozzetto le considerazioni che lo storico dell’arte Otto Kurz – allievo di Julius von Schlosser – espresse riguardo al suo maestro: «Era un gentleman con vastissimi interessi culturali, una razza quasi estinta in un’epoca di specialisti e di specializzazioni»1. Inoltre, come «Schlosser si sarebbe sentito perfettamente a suo agio nel Settecento», Pozzetto avrebbe trovato più comodo il secolo a lui precedente, l’Ottocento. Al lettore non sembrino casuali i riferimenti alla Scuola Viennese di storia dell’arte creata da Franz Wickoff e della quale fece parte Schlosser. Nel 1986, a Gorizia, Pozzetto dedicò il XX Convegno dell’Istituto per gli Incontri Culturali Mitteleuropei proprio alla Scuola viennese2. In quella occasione lo storico dichiarò di essere stato fortunato ad avere vissuto i suoi anni formativi con Izidor Cankar, fondatore della Scuola Lubianese di storia dell’arte3. «Ritengo di aver appreso – riferì Pozzetto – nei sette anni di convivenza con Cankar alcuni atteggiamenti mentali difficilmente precisabili che mi hanno facilitato l’impostazione di studi che hanno avuto qualche risonanza nell’ambito della storia dell’architettura»4. Oltre a sottolineare il suo debito verso il metodo storiografico della Scuola viennese, Pozzetto si proponeva di estendere l’indagine storiografica all’influenza che la seconda generazione di storici di quella scuola esercitò nei confronti di quelle nazionali, applicando così lo stesso metodo che in seguito riguardò i protagonisti della Wagnerschule. Risulta, quindi, essenziale partire dalla Scuola viennese per comprendere alcune delle sue posizioni, che sono riconducibili alla stessa volontà di quegli storici dell’arte di contrastare l’estetica formalista per istituire lo studio analitico, l’iconografia comparata, l’analisi meticolosa e critica della «scrittura» degli artisti «contro le nebulosità mistico-romantiche»5. Dieci anni dopo la data di quel convegno, quando Pozzetto mise mano alla pubblicazione degli atti con «un ritardo che normalmente sarebbe stato intollerabile»6, la geopolitica dei Balcani era mutata, dilaniata dal tragico conflitto che vide combattersi i suoi “piccoli popoli”. Nel 1987, un anno dopo quel convegno, morì Carlo Ludovico Ragghianti, il tramite Introduzione

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più diretto della Kultur espressa dalla Scuola viennese in Italia e ideatore insieme a Pozzetto del convegno goriziano. Per lo storico toscano fu l’ultima volta che riuscì a denunciare i ritardi culturali della nostra critica e le responsabilità dell’industria culturale nell’avere dimenticato il primato italiano – a partire da Benedetto Croce – nella ricezione del pensiero sull’arte dei viennesi, «progressivamente ignorato nella cultura d’origine e in quella europea»7. È quindi comprensibile pensare alla soddisfazione di Pozzetto quando anni prima, nel 1979 a Trieste, Ragghianti, aprendo il colloquio internazionale sulla Scuola di Wagner8 fece menzione di Julius von Schlosser e di Alois Riegl. Quell'«ideale scolaro» – come si definiva Ragghianti – condivideva la tesi dell’esposizione triestina9: quegli storici furono per l’arte – al pari di Wagner per l’architettura – dei “demolitori”. Ragghianti, nel debito di riconoscenza verso quei «grandi viennesi» – che un filo rosso, volle ricordare, congiungeva all’azione del suo maestro, Gaetano Salvemini – dichiarò che lo spirito europeista che nutriva quegli intellettuali, come i protagonisti della Scuola di Wagner, fu la più alta espressione culturale di quella grande convinzione eticopolitica rappresentata dall’“universalismo” e dal “cosmopolitismo”. Nel segno del cosmopolitismo – inteso quale superamento di qualsiasi vincolo nazionale – è da leggersi l’intero lavoro storico di Pozzetto: un percorso naturale per chi abbia avuto in sorte di dover transitare per molti paesi, apprendendo la lingua di quei popoli e avvicinandosi da poliglotta ad ascoltarne le storie. La Wagnerschule, luogo di scambio di molteplici esperienze e originale manifestazione di «unificazione linguistica», fu l’ambito privilegiato dal quale si sarebbero originati per forza centrifuga tutti i suoi studi successivi. D’altronde, fu lui stesso a scrivere che dallo «shaker dell’imperial-regia cultura artistica degli anni ’80 e ’90 [...] Vienna restituì all’Europa tutto ciò che per secoli aveva ricevuto dal Continente»10. Fino agli anni settanta quel terreno d’indagine fu assai poco frequentato, in particolare dagli storici austriaci, se si esclude la parziale indagine di Otto Antonia Graf11. Nel 1964 la mostra Wien um 1900, che approdò nel 1971 alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma con il titolo, L’architettura a Vienna intorno al 900 12, risultava ancora carente per quanto riguardava XII

Introduzione

il contributo di idee e proposte dei singoli allievi di Wagner. Quella mostra presentò però alla cultura internazionale il tema dell’architettura viennese generando una notevole mole di studi che tuttavia non esaurirono l’indagine storiografica intorno ai protagonisti della Wagnerschule. Prima di allora, infatti, l’attenzione degli storici riguardava generalmente Otto Wagner: dagli studi coevi di Josef August Lux, Hans Tietze, Josef Strzygowski o Ludwig Hevesi13, a quelli contemporanei, concentrati negli anni sessanta, di Ernst Köller, Peter Haiko o Heinz Geretsegger14. Nel 1980, negli anni più accesi del dibattito sul postmodernismo architettonico, l’incarico affidato a Pozzetto di curare la sezione dell’architettura nella mostra Le arti a Vienna durante la XLI edizione della Biennale di Venezia15 fu una seconda straordinaria prova grazie alla quale fissò ancora meglio i capisaldi della sua critica. Il suo contributo sul significato del “ritorno alla storia” si espresse lì in modo esplicito rivelando quanto i confini dello storicismo fossero «ancor più vaghi» di quelli del modernismo e che non c’era alcuna ragione critica per definire «involuti» quella schiera di architetti che all’inizio del XX secolo progettarono secondo le regole dell’Altkunst. Pozzetto dimostrò in quell’occasione, in dissenso con ogni riproposta di linguaggi e modelli ereditati dalla storia, quanto fosse arduo distinguere i contributi delle culture nazionali e regionali nella Grande Vienna: diciassette nazionalità a confronto incluse le culture delle «Berliner-, Pariser-, LondonerBauten»16. Il rischio insito nella semplificazione storiografica lo espresse con la sua solita ironia: «A questo punto, l’uomo di media cultura, turbato dall’inestricabile groviglio tra gli storicisti moderni, i moderni eclettici, i secessionisti, gli storici puri e spuri e i modernisti, viene invogliato ad affrontare, quasi in fuga, la fatica dell’assurdo, bellissimo, smisurato scalone semperiano del Kunsthistorisches Museum, per godersi in pace la bellezza dei Bruegel»17. Per evitare di confondersi nel pastiche storiografico, Pozzetto si dedicò con impegno a distinguere l’autentico significato della tradizione a confronto con le trasformazioni in atto nella società viennese. Definì, così, il valore di «modernità» in architettura, che andava ben oltre le «forme geometrizzanti» Secession entro le quali fu spesso assimilata. «La rivoluzio-


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ne viennese – scrisse – rimase sostanzialmente agnostica davanti al problema della forma»18, e riferendosi alla lezione wagneriana spiegò che ciò che essa etichettò come «storicismo di ritorno» era un madornale errore, visto che mai il maestro viennese suggerì di copiare dallo «scrigno della tradizione». Al contrario Pozzetto spiegò che Wagner indirizzò l’«architetto moderno» verso l’invenzione delle forme storiche attraverso un processo nuovo di assemblaggio dei loro elementi. Un esempio di questa sintesi formale è ben espresso dall’Urania (1910) di Max Fabiani: analogo, con il suo cornicione, a un edificio barocco ma per nulla riconducibile all’uso del canone classico. A tal proposito torna forse utile richiamare il concetto hegeliano di “superamento”. Il termine tedesco, aufheben – come ha scritto Hans Mayer19 – ha il triplice significato di conservare, portare a compimento, innalzare. «La tradizione – ha scritto lo storico tedesco – deve subire ad un tempo un triplice processo: deve essere conservata, negata e trasfigurata»20. Crediamo che non dissimile fu la convinzione di Wagner nel considerare gli artisti quali produttori di «forme nuove, diverse da quelle trasmesse o pervenute loro»21, in grado di esprimere lo Zeitgeist non imitando «l’antico più esattamente possibile», ma per successivi aggiustamenti della forma. Prima dell’esordio triestino con la sua “scoperta” della Wagnerschule, Pozzetto compì un progressivo avvicinamento al tema dell’architettura viennese diversificando i suoi interventi e fissando alcuni punti fermi. In ordine cronologico questi sono il saggio su Max Fabiani (1966), quello su Jozˇe Plecˇnik (1969) e la traduzione della Moderne Architektur di Otto Wagner (1976)22. La novità di quelle pubblicazioni coincideva con un periodo felice di studi che trovarono soprattutto nei convegni goriziani dell’Istituto per gli Incontri Culturali Mitteleuropei un importante momento di confronto e verifica23. Attraverso Fabiani e Plecˇnik, Pozzetto intuì che per comprendere quella schiera di «architetti quasi sconosciuti all’Ovest della churchilliana cortina di ferro»24 era necessario affrontare le scuole di architettura dell’impero asburgico, in primis la Wagnerschule; un’operazione che di conseguenza imponeva di transitare per quel «libro dei precetti» che Wagner scrisse per i suoi allievi e la cui fortuna critica dimostrò essere uno strumento teorico indispensabile per le genera-

zioni intenzionate ad affrancarsi dall’architettura dell’eclettismo ottocentesco. Se dopo la sua prima “indagine” Pozzetto ritornerà a più riprese sull’opera di Fabiani nel corso degli anni, fino all’importante mostra triestina del 1988 e alla monografia di dieci anni dopo25, su Plecˇnik l’interesse di Pozzetto si concentrò negli anni del suo insegnamento al Politecnico di Torino. Nella collana diretta da Paolo Verzone – lo storico medievalista che lo ammise alla libera docenza nel 1969 e al quale dedicò il saggio sulla Wagnerschule26 – comparirà la prima monografia in italiano sul «padre dell’architettura jugoslava», anche se «per partito preso» questa riguarderà gli anni della sua formazione a Vienna tra il 1899 e il 1911, poiché dopo la prima guerra mondiale, «come avvenne anche per altri maestri dell’architettura europea, da Van de Velde a Hoffmann, da Behrens a Mackintosh, da Fabiani a D’Aronco ecc., [Plecˇnik] abbandonò il rigore compositivo dei primi anni per dare una forma moderna agli stili classici, senza voler imboccare decisamente la strada dell’arte moderna»27. Molti anni dopo, in un breve articolo28, ribadirà con coerenza, dinanzi alle «correnti dei post-modernisti», il limite di un’architettura parlante, nella sostanza troppo «astratta» – come la giudicò anche Fabiani – e formalista per essere da queste compresa. Fu il chiaro tentativo di sottrarre l’architettura di Plecˇnik a un uso operativo a cui questa si prestava negli anni ottanta del secolo scorso da parte di architetti con la passione per gli archi e le colonne. In proposito citò il giudizio che Pavel Janák nel 1928 diede del maestro sloveno: «Il suo non è un classicismo italico di ieri o di oggi – è un classicismo nuovo. Egli non si basa su convenzioni spaziali o forme acquisite, le sue colonne, semicolonne, materiali estremamente semplici e tuttavia nuovi, intimamente giustificati, determinano uno spazio straordinariamente nuovo, eppure definitivo»29. Consapevole che la storia del Movimento Moderno viennese si sarebbe potuta scrivere solo quando fosse stata disponibile quella dei suoi singoli protagonisti, Pozzetto, nella prefazione al saggio su Plecˇnik, ne chiarì il programma: «Spero di illustrare nell’avvenire altre figure di artisti, come quelle dei fratelli Gessner, uno di essi, Hubert, è tuttora attivo nella natia Vienna, e di chiarire anche il problema di certi contributi teorici di Wagner»30. La storia della Moderne Architektur era ammisIntroduzione

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sibile solo attraverso la conoscenza dei reciproci influssi dei singoli protagonisti. Purtroppo per alcuni di loro non fu facile seguirne le vicende dopo la dissoluzione dell’impero austroungarico. Solo con Ivan Vurnik e Rudolf Weiss – tra gli allievi più longevi, incontrati prima della mostra triestina – Pozzetto poté verificare le sue tesi sul carattere sperimentale e corale della Wagnerschule. A tal riguardo egli tenne sempre un’accorta “prudenza ideologica” condividendo l’avvertenza che Marc Bloch fece in merito al metodo critico che lo storico deve adottare: la «critica delle testimonianze, che lavora su realtà psichiche, sarà sempre un’arte fondata sulla discrezione»31. Pozzetto fu sempre consapevole dell’evidente unità culturale della Mitteleuropa, attendendo che un «novello Burckhardt» si affacciasse per confermare i «raggiungimenti culturali del periodo preagonico dell’impero danubiano»32. Le sue “provocazioni” coglievano, però, nell’essenza le questioni emerse dal progressivo studio della finis Austriae. Nell’incontro dei polimorfi linguaggi degli allievi della Wagnerschule egli si dimostrò in sintonia con altre analoghe ricerche che intorno agli anni ottanta l’Università di Trieste intraprese riguardo al rapporto tra scienza e letteratura. Fu così che quasi parallelamente alla scoperta del «mondo del numero, del ragionamento logico, del rigore sperimentale»33 in Robert Musil, Hermann Broch o Arthur Schnitzler, vale a dire alla scoperta dell’importanza del mondo tecnico-scientifico nella creazione letteraria austriaca, Pozzetto indirizzò la sua riflessione verso quella «scienza empirica dell’arte» praticata dal «cosmopolita Semper» che Wagner e la sua scuola seppero per primi tradurre in «linguaggio operativo». Di Gottfried Semper Pozzetto colse l’autentico significato prima ancora che da noi fosse tradotta e meglio conosciuta la sua opera teorica34. Assegnò a Semper un ruolo centrale nell’ambito della riflessione sulle arti nel XIX secolo comprendendo la novità filosofica e metodologica che il pensiero semperiano ebbe per la teoria architettonica e per la funzione che i valori tecnici, funzionali e utilitari assumevano all’interno del progetto. In due brevi interventi durante i goriziani Incontri Culturali Mitteleuropei35, Pozzetto chiarì, oltre all’influenza esercitata da Semper nei riguardi della «simpatia simbolica» dell’estetica psicologica dell’Einfühlung, delle teorie puro-visibiliste XIV

Introduzione

(Sichtbarkeit) e dei Problemi di stile di Alois Riegl, il debito che con l’architetto svizzero-tedesco contrasse la Moderne Architektur. Definì Semper un praktischer Ästhetiker, come lo fu Wagner: entrambi «estetici pratici» – come lo furono Viollet-Le-Duc, Van de Velde, Berlage – perché «la conoscenza non è mai fine a se stessa, ma è sempre volta ad un possibile uso interpretativo, applicativo o propositivo»36. Mentre questi ultimi, però, non portarono contributi filosofici particolarmente originali, al contrario Wagner per Pozzetto espresse con il suo pensiero delle «idee-forza» che si sarebbero trasmesse «nel futurismo e nel cubismo boemo, nel costruttivismo e nel razionalismo, persino nel suprematismo»37. Lo storico aveva già espresso questa sua tesi al VI convegno degli Incontri Culturali Mitteleuropei (Gorizia 1971) e la riprese ancora nell’edizione critica della Moderne Architektur (Torino 1976). Ciò che volle anticipare è che la semperiana «scienza empirica dell’arte» (Stillehre), che trent’anni dopo fu sviluppata solo da Wagner e Riegl, soltanto nel primo assume il significato progressivo di un’azione proiettata nel futuro, lì dove «non esistono ancora le forme, ma soltanto “migliaia di fattori che le influenzano”»38. A differenza di tutti gli altri trattatisti – «da Vitruvio a Guadet» – e storici dell’arte – compreso Riegl – che si interessarono solo alle «forme esistenti», la wagneriana Moderne Architektur fu innanzi tutto un modo di pensare, un atteggiamento in continua, rapida evoluzione. In questa direzione più vicina alle iniziative pedagogiche di Pietro Nobile che a quelle artistiche della Secessione, quest’ultima considerata da Pozzetto «una moda o se si vuole considerarla con benevolenza, uno stile, come lo stile Guimard, lo stile Horta o lo stile Gaudí»39. Fu proprio il confronto con Pietro Nobile che consentì a Pozzetto di chiarire non solo i riferimenti culturali del pensiero wagneriano, ma anche l’architettura dei suoi allievi. In più occasioni egli fece riferimento alla personalità artistica e intellettuale di Nobile: l’architetto ticinese, di formazione romana, ma «d’adozione e di sentimenti» triestino, chiamato dal principe Metternich a dirigere tra il 1818 e il 1849 la Scuola di Architettura dell’Accademia di Belle Arti di Vienna. Attraverso lo studio dell’opera di Nobile, ma soprattutto della sua riforma pedagogica che incrementò gli anni di formazione per ottenere il titolo di architetto


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