Guerra senza battaglia

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Edipo tiranno, 1961

Nel frattempo l’Ödipus costituì una buona attività parallela: fu molto interessante lavorare con Besson al Deutsches Theater. Dopo il divieto di Der Bau offrirono a Besson l’Ödipus come rimpiazzo. Lui venne da me e mi chiese: «Ti interesserebbe tradurlo?». A me interessava molto, in quanto esisteva già la versione di Hölderlin. Pensai che bastava ribatterla a macchina, spostare qualche virgola, e la cosa era fatta. Poi però il lavoro cominciò a coinvolgermi sul serio. Il punto di partenza di Besson era un’edizione commentata da Voltaire. Naturalmente per l’illuminista Voltaire la storia dell’oracolo era una sciocchezza, e questo era appunto anche il problema di Besson: come fare, non potendo eliminare l’oracolo dall’opera? Proprio grazie a questo conflitto tra Illuminismo e oracolo giungemmo a concepire la nostra idea. Tutto a un tratto, Ödipus diventò un testo su Chruščëv e la crisi dell’agricoltura, nel senso che, senza la peste a Tebe, nessuno avrebbe preso l’oracolo sul serio. Di colpo si delineava una corrispondenza tratta dall’attualità con la fine di Chruščëv, che era caduto appunto per via di un raccolto andato male, vale a dire a causa del fallimento del suo programma agrario. In ogni caso occuparsi di quella materia aveva per noi un suo significato. Come lo aveva il problema della hybris di Edipo, il quale fa persino della propria cecità una filosofia. Hölderlin lo formula così: Poiché è dolce dove dimora il pensiero, lontano dai mali.76   F. Hölderlin, Ödipus der Tyrann, trad. it. Edipo il Tiranno, Feltrinelli, Milano 1991, p. 179.

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Io intervenni falsificando, eliminando l’aspetto morale. La mia versione dice: «lontano da tutto». È l’eliminazione della percezione concreta a favore di un mondo delle idee nel quale si desidera mettere radici. Fu molto interessante anche il modo in cui Besson affrontò questo motivo. Per Besson Edipo era l’uomo forte, il self-made man svizzero: Schwellfuss contro il resto del mondo. Edipo fu dunque germanizzato: acquisì il nome Schwellfuss. Io ero contrario. Si poteva magari scriverlo nel programma, ma sulla scena impediva di cogliere la dimensione reale della tragedia. Naturalmente anche questa era la qualità di Besson, quello sguardo “basso” su tutto. Che piaceva anche a Brecht, credo. Del resto Brecht fu ripartito fra i suoi diversi allievi, ognuno si ritagliò la propria parte. Il pezzo che Besson ritagliò per sé fu il più fecondo dal punto di vista teatrale: il fronte plebeo, ovvero lo sguardo dal basso, nonché lo sguardo accusatore rivolto a personaggi e situazioni. Nel caso di Amleto, per esempio, il punto cruciale per Besson era che Orazio non poteva essere altro che una spia, il che è del tutto irrilevante ai fini della tragedia. La concentrazione su certi aspetti, il restringimento del quadro e la banalizzazione dei “grandi temi” erano una qualità del suo teatro, in particolare nel contesto della Ddr. Come anche il suo rifiuto di un rapporto di riverenza nei confronti dei classici. Per questo motivo, però, ci scontravamo spesso, non ci trovavamo mai d’accordo. Quel che mi mancava nello stile di Besson era il tragico. In Brecht ugualmente non c’era, tranne che nei suoi testi migliori. Lui l’aveva sempre rifiutato sul piano teorico, pertanto nemmeno per Besson esisteva. Questo punto fu sempre motivo di frecciate scherzose. Il suo lavoro, in realtà, non mi ha mai coinvolto veramente. Nella Ddr invece aveva un effetto esplosivo, anche grazie all’elemento romantico. Va detto inoltre che il suo rapporto con le raccomandazioni e i divieti fu sempre esemplare. Besson costituì la premessa di molte rappresentazioni dei miei testi teatrali nella Ddr. Lui stesso nutriva riserve anche nei confronti di Marquardt, ciò nonostante gli consentì di lavorare. Tutti hanno imparato moltissi154


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mo da lui, perché nel rapporto con il teatro e con le situazioni era incredibilmente pragmatico. Quanto alla sua ricerca personale, è rimasto circoscritto al mondo di Brecht, non ha mai creato qualcosa di veramente nuovo. Ma nel teatro succede spesso così: i lavori che trionfano non sono mai veramente nuovi, è il “vecchio nuovo” ad avere successo. D’altro canto il teatro, in generale, non è affatto innovativo, già solo per il suo impianto. Sul piano linguistico si può essere più innovativi in poesia che non nel dramma. Per riuscire a comunicare, il teatro non deve allontanarsi troppo dai luoghi comuni. E appunto questa era una qualità di Besson: la sagacità del luogo comune, ovvero il tragico quasi come sinonimo di fascismo. La posizione illuminista di Brecht rispetto al mito. La deliberata cecità per i lati oscuri dell’Illuminismo, per le sue vergogne. Per raccontare che Orazio è una spia, non c’è bisogno di mettere in scena Amleto. Con Ödipus trovammo dei compromessi. Io interpretai certe cose in un modo e lui nell’altro. Per il pubblico non ebbe comunque molta importanza. Fu un grande successo, un bello spettacolo con la scenografia di Horst Sagert, il quale, a sua volta, creò un mondo ancora diverso, che nulla aveva a che fare con le idee di Besson. Un orizzonte esotico, un’africanizzazione di Ödipus. Una combinazione ideale erano Hacks e Besson: risultati sempre brillanti, sempre grandi successi. La rappresentazione di Ödipus del 1967 fu accolta come la messa in scena di un classico di grande levatura, e celebrata come opera d’arte. Sul piano politico, invece, passò inosservata. Besson ha le sue idee politiche, ma sulla scena esse svaniscono nella trappola dell’arte, che non fagocita solamente le idee. Le prove erano più interessanti dello spettacolo: anche questo caratterizzava il lavoro di Besson. Più ci si avvicinava al debutto, più i momenti di rottura, le asperità si dissolvevano. Mi ricordo la sua lotta con il coro, per riuscire a far danzare gli attori, uomini tedeschi dalle pance rigonfie per il gran consumo di birra. Trovò una soluzione magnifica: ammassò i vari gruppi, che dovevano eseguire così solo piccoli movimenti. Questo è 155


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un problema fondamentale del teatro tedesco: gli attori non parlano con i piedi, il testo proviene per lo più solo dalla testa. Durante le prove Besson fece alcune scoperte, e in questo fu audace. Il successo teatrale che ottenne con Der Drache [Il drago] rappresentò la fine del teatro politico nella Ddr. La parabola antistalinista di Evgenij Švarc si era tramutata, grazie alla sua messa in scena, in una fiaba. Il drago era un drago “vero”, costruito dallo scultore di scena Eduard Fischer, ed era in grado di sputare fuoco, spalancare le fauci, mugghiare e tuonare. Rolf Ludwig era un buon vecchio drago, un monumento della gerontocrazia, ma l’idea di trasformare il drago anche in uno spauracchio per bambini indebolì l’opera. Una volta Besson stava curando la regia de L’anima buona del Sezuan alla Volksbühne, e mi chiese: «Di’ un po’, come faccio adesso, in questa città divisa dal Muro?». E iniziò a citare: Tutta la città dovrebbe insorgere contro ogni ingiustizia, e se non insorge, meglio che perisca nel fuoco, avanti notte!77

«Come la metto con questa frase, con questa battuta, a Berlino, nell’attuale situazione politica?». Io non capii la domanda. Alle prove, chiese alla Karusseit che interpretava Shen Te: «Come rendi questa battuta?». Lei si diresse a grandi passi verso il proscenio e la urlò in platea. Besson disse: «Resta dietro, questa battuta la devi pronunciare a bassa voce. E poi hai sbagliato intonazione. Devi dire: “Tutta la città dovrebbe insorgere contro ogni / ingiustizia, / e se non insorge, meglio che perisca / nel fuoco, avanti notte!”».   B. Brecht, L’anima buona del Sezuan, cit., p. 181.

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Lei eseguì. Nessuno capì più la battuta. Perché avanti, cioè “prima”, e non “dopo”? Ecco la nascita del manierismo dallo spirito della viltà. Fu questo il destino del teatro della Ddr: per via di quell’atteggiamento divenne sempre più manierista, sempre più artefatto. Qualcosa di analogo mi colpì un giorno mentre viaggiavo in autobus, diretto dalla Friedrichstrasse ad Alexanderplatz. A una fermata salì un tecnico del Berliner Ensemble che trasportava un oggetto pesante, destinato alle officine del teatro. Si trattava di “Volpino”, un uomo grasso e piccoletto. I tecnici del teatro sono sempre stati un baluardo della controrivoluzione nella Ddr, in quanto ogni giorno facevano esperienza della loro distanza sociale dagli attori, e non soltanto in mensa, dove sedevano separati da loro. L’ autobus fece una deviazione perché nel Palazzo della Repubblica si stava svolgendo un congresso della Fdj. Per lui significava un tragitto a piedi più lungo, per di più costretto a trascinarsi dietro quell’affare. Era stizzito. Disse: «Fdj di merda! Sai come fa, Heiner, no? “Un giorno, e quel giorno verrà presto, / si accorgeranno che nulla più vale per loro”».78 Una citazione da La madre di Brecht. In quel momento mi resi conto che nessuno nella Ddr aveva mai capito quel testo a teatro, probabilmente a causa della splendida musica di Eisler. Ovvero: il ruolo dell’arte come occultamento e sedativo, come sonnifero. Besson lasciò definitivamente la Ddr nel 1978 o 1979. Il suo cartellone era stato respinto dalle autorità comunali. Nel programma figuravano anche testi teatrali miei, ma non sarebbe stato lui a metterli in scena: i registi erano Matthias Langhoff, Karge e Marquardt. Un testo teatrale di Brecht fu bocciato dagli eredi ed era dunque da escludere dal programma; i miei testi furono respinti invece dalle autorità comunali. A quel punto Besson se ne andò, e così fecero anche Langhoff e Karge. 78   B. Brecht, Die Mutter, trad. it. La madre, in Id., Teatro, vol. II, a cura di E. Castellani, Einaudi, Torino 1963, p. 42.

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L’ Erakles era uno spettacolo già pronto quando cominciarono le prove di Ödipus. In realtà l’avevo scritto sulla base delle lunghe discussioni dedicate al problema della rete fognaria, ovvero sul fatto che la peste è un problema di fogne. Tentai disperatamente e inutilmente di convincere Besson a mettere in scena quel testo come una satira, prima dell’Ödipus. Il 1° giugno 1966 Inge morì. Ti ricordi quel giorno? La convivenza con lei era ormai diventata per me un problema anche dal punto di vista del lavoro. A casa nostra non riuscivo più a lavorare. Il 1° giugno chiesi per la prima volta al teatro se potevano procurarmi un appartamento. Poi, su un marciapiede della metropolitana, discussi a lungo con Adolf Dresen sul futuro o non-futuro del marxismo. Quando arrivai a casa, lei era morta. Fu la sera in cui alla televisione trasmisero per la prima volta un programma sul suicidio della Monroe. Le settimane e i mesi successivi ascoltai quasi ininterrottamente Il clavicembalo ben temperato di Bach. Comprai dei sonniferi, ma non ne presi mai. Fu dura. Al funerale mi feci definitivamente nemico Peter Hacks. Stavo lì, in una posizione non facile, tutti dovevano porgermi le condoglianze, Hacks inciampò su un piccolo dislivello e cadde in ginocchio davanti a me. Naturalmente nessuno poteva ridere. C’era molta gente, molti attori. Uno di loro recitò alcune poesie di Inge. Per un breve periodo fui sospettato di omicidio perché non aveva scritto alcuna lettera di addio. La sua lettera di addio erano le poesie che aveva composto negli ultimi otto anni di vita. Una volta, dopo un tentativo di suicidio – voleva buttarsi giù dal balcone –, dovetti portarla in ospedale. In quei giorni erano venuti a trovarci i miei genitori. Per Inge fu un tradimento della fiducia. Trovò così orribile il soggiorno in ospedale che dopo non ce la portai più. Un giorno entrai in casa con l’aiuto dei pompieri, utilizzando una scala esterna, perché si era chiusa a chiave dall’interno e non apriva. In genere andava così: quando non ero in casa, non succedeva nulla. La prima volta che ci 158


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provò in mia assenza fu anche l’ultima. Forse sarebbe potuta andare avanti così per altri dieci anni. Di sicuro io non nutrivo una gran fiducia nella psichiatria. E a un certo punto quasi mi convinsi: se vuole morire, è una sua scelta. Una zingara le aveva detto che sarebbe morta a quarantuno anni. A tale riguardo, dovresti dire qualcosa a proposito del tuo testo Todesanzeige. Ricordo di quando scrissi l’ultima parte, il brano con il “muso di pollo”, la mia prima descrizione di un omicidio in prima persona. D’un tratto registravo una curiosa differenza con la scrittura dei testi teatrali. In un testo teatrale quaranta omicidi non costituiscono un problema – ben diverso dallo scrivere tutto a un tratto: «Io l’ho accoltellato». Fu uno shock, un’esperienza completamente differente. Avevo cominciato a scrivere il testo in terza persona, ma poi mi ero reso conto che non era una soluzione. Ecco il perché dell’effetto sconvolgente che ha avuto su molti, e anche su di me. Ero spaventato da ciò che scrivevo, ma questo non mi dava il diritto di non scriverlo. Potresti dire qualcosa a proposito del rapporto tra uomini e donne nei tuoi testi teatrali? Perché io? Esistono analisi dei miei lavori a cura di uomini e donne che uno – o una – può andare tranquillamente a rileggersi.79 Per esempio Marthe Robert, psicoanalista e studiosa di letteratura; nel suo caso si tratta di analisi purtroppo soltanto orali. La Robert ha letto Filottete e ha stilato una lista delle perversioni sublimate nel testo, che includono perfino la coprofagia. È un esercizio che sicuramente è facile applicare anche agli altri miei testi teatrali.

79   Si veda, tra l’altro, G. Schulz, Medea. Zu einem Motiv im Werk Heiner Müllers, in S. Berger (a cura di), Weiblichkeit und Tod in der Literatur, Böhlau, Köln-Wien 1987, pp. 241-264.

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Come hai registrato i movimenti studenteschi e i fatti di Praga del 1968? Con un senso di profondo straniamento, in quanto in quel periodo stavo spesso in Bulgaria. Lì parlai di Praga soprattutto con alcuni africani, in un bar. Avevano uno sguardo alquanto distaccato su queste lotte nordeuropee fra bande rivali, non davano molta importanza alla cosa. In Cecoslovacchia la repressione del movimento delle riforme frenò un processo, ma non ne avviò uno nuovo. Le agitazioni studentesche all’Ovest furono già più interessanti. Osservate da un punto di vista globale, ebbero maggiori conseguenze, anche se gli esiti furono diversi da quelli auspicati. Nella Ddr, tuttavia, non si potevano condividere le illusioni della sinistra. Fui sollevato quando lessi in un libro di Foucault che l’effettiva funzione del movimento studentesco del 1968 era stata quella di modificare la struttura delle università per adattarla alle esigenze dell’industria moderna. Effettivamente è andata così. Ebbi la fortuna di trovarmi in Bulgaria, sicché non vissi l’imbarazzo di dover decidere se firmare o meno una dichiarazione a favore o contro Praga. Per via di Ginka Cholakova, che avevo conosciuto a Berlino, rimasi in Bulgaria piuttosto a lungo, in quanto lei non poteva rientrare nella Ddr. Avevo conosciuto Ginka durante la messa in scena di Ödipus. Studiava storia del teatro e lì stava facendo un tirocinio. La nostra relazione divenne un nuovo dramma con numerose implicazioni. Anche il mio primo incontro con Honecker ne fa parte.

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Il potere e la gloria

La storia della Ddr è anche la storia della stupidità, dell’incompetenza delle persone. Il fatto che nella Sed si prescindesse del tutto dalla qualità di coloro che rappresentavano o incarnavano quel partito mi fa pensare al romanzo di Graham Greene, Power and Glory, e al prete ubriacone. Nel periodo della rivoluzione in Messico, sotto Juárez, si dava la caccia ai preti cattolici; la popolazione li nascondeva, dava loro da mangiare. Il romanzo narra la storia di uno di questi, anche lui braccato: è un alcolista, sempre ubriaco, depravato, asociale, ma pur sempre un prete che incarna la Chiesa. All’epoca vedevo così anche i funzionari: sarebbe stato altrimenti impossibile avere a che fare con quella gente. Molti di loro erano rozzi, stupidi, brutali, depravati, bramosi degli standard di vita borghese, incapaci – tutti, nessuno escluso – di gestire la situazione. Raramente qualcuno di loro ispirava un sentimento di speranza. Semmai succedeva, non era qualcuno dotato di influenza o di potere. Al principio capitava ogni tanto di incontrare persone oneste, ma con l’andare del tempo furono fatte fuori. L’ altro aspetto erano i rapporti molto ravvicinati. Ecco un esempio. Una volta scrissi un articolo su “Der Spiegel” sul secondo libro di Thomas Brasch, pubblicato da Suhrkamp. La cosa scatenò nel partito reazioni furibonde: in occasione di non so quale prima teatrale nel Palazzo della Repubblica incontrai il cane da guardia addetto alla mia persona, ovvero il capo della Sezione Ideologia della Direzione distrettuale di Berlino: Roland Bauer. Costui mi disse: «Sappi che sono ancora indignato con te». Il motivo era la recensione su “Der Spiegel”. Ed era 161


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