I fiumi del Sahara

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I fiumi del Sahara



Uno dei giorni

Un’immagine torbida, cielo, o muro. Muro. Poi il buio senza fine. Quindi l’immagine chiara del muro, grigio, pieno di fessure che sembravano vipere sepolte lì dentro prima dell’invenzione della Storia. Costrinsi la mia lingua a concepire una parola, o anche solo una sillaba, ma le viscere prosciugate e l’amaro nel palato che sentii subito dopo mi convinsero che quella parola o sillaba non avrei potuto concepirla nemmeno con il cervello. «Acqua!» gridai all’improvviso. Girai la testa a sinistra e incontrai il quadrante dell’orologio. Confusi la lunghezza delle lancette e donai al giorno un’ora del tutto fasulla. Stirai le braccia, le gambe, la schiena. Sospirai con ambiguo piacere ed ebbi l’impressione di essermi svegliato tardi. A dir la verità, l’impressione di essermi svegliato tardi l’ho sempre avuta, sin dai primissimi sonni, compresi quelli nel grembo materno. Dio voglia che sia così anche in punto di morte. «Acqua!» gridai di nuovo. Nessun orecchio mi ascoltava, lo sapevo. Pregai con gli occhi qualche bottiglia o bicchiere d’acqua e le preghiere furono esaudite. Era l’acqua della sera precedente. La bevvi a sorsi lamentosi, affogare ora-affogare dopo, ancora un lungo sorso, l’ultimo, ed emisi un gemito strozzato. Involontario, spontaneo. In quell’istante riuscii a entrare nel nome e nella memoria, e a prendere coscienza del luogo in cui mi trovavo. La stanza remava nel liquido senza sapore del crepuscolo; tutto era ricoperto d’ombra, ombra alla potenza dell’ombra; sopra il davanzale della finestra si scorgeva solo il cielo, cupo. 3


Con la mente mi alzai in piedi, sgranchii le ossa, corsi in bagno, mi alleggerii, spazzolai i denti, ricoprii il viso di schiuma, mi rasai, rimarginai i piccoli tagli con del cloruro di ammonio, fischiettai uno di quegli squallidi motivetti d’amore che avevo battezzato “canzoni da cesso”, e misi su un caffè. In realtà il sonno mi stava agguantando di nuovo. E perché non dormire?, mi chiesi. Il ritardo non aumenta, né diminuisce. Mi girai dall’altra parte, con maliziosa voluttà, allungai il braccio destro, lentamente, ma non afferrai nulla oltre al lenzuolo. Realizzai che il letto era per metà vuoto; anzi, secondo me, quando mancava Ela, era vuoto del tutto. E questo perché durante il sonno io ero assente dal mondo. Mentre lei era assente quando io ero sveglio. Rimango un altro po’ assente, pensai. E chiusi gli occhi. Uno spazio deserto, senza colori, come se dal cielo se li fossero scordati. Puah! Non riuscivo a mandarli giù questi vuoti. Provai a riportare alla mente qualche episodio piacevole, dal quale come un seme in un campo potesse nascere una realtà, ma sentivo tutto molto lontano. L’episodio più recente era il sogno di poche ore prima. Vagavo per le strade di una grande città, imponente, con edifici alti, automobili, pubblicità e belle donne, che amavano solo me, anzi, respiravano solo per me; il rantolo di un tamburo mi accompagnava ansimante, e mentre camminavo senza meta per le vie di quella città, in cui mettevo piede per la prima volta, non sentivo nemmeno una stilla di angoscia. Chi mai poteva uccidermi, chi mai poteva diffamarmi in quella città poco più grande della follia? Camminavo tranquillo, passavo tra gli alberi mezzi arrugginiti, tra i muri, tra la gente, e mi facevo la barba senza lo specchio e con un rasoio che, in realtà, era una spada. All’improvviso mi si parò davanti il mio vicino di casa e mi disse: «Ti consiglio di non rasarti con quella, è la Spada di Damocle, pensa te…». Mi si stava slogando la mandibola dal ridere, fino a quando non sentii la bocca chiudersi e l’angoscia invadermi; sapevo che quella spada di solito indugiava sopra le teste degli uomini e che bisognava rimetterla là dove di solito stava, altrimenti, una volta liberi dalla sua minacciosa I FIUMI DEL SAHARA


presenza, gli uomini sarebbero usciti di senno, ma siccome a Newton gli era caduta in testa la mela della discordia (a mio avviso più malefica di quella cui Eva aveva dato un morso) e visto che non riuscivo più a brandire la spada, iniziai a urlare con quanto fiato avevo in gola: «Vendiamo Spade di Damocle per rasarsi! Abbiamo ottime spade. Poco costose, non arrugginiscono, spade perfette. Con le nostre spade la vostra vita troverà un senso. Con le nostre spade i vostri peli, non importa dove crescono, troveranno adeguato trattamento…». Ma tutti i passanti, senza eccezione alcuna, perfino i mendicanti con una gamba sola, un’unica mano, con o senza testa, se la ridevano sotto i denti, mostravano la lingua e diventavano polvere. Mi chiedevo come sarebbero andate le vendite se gliel’avessi tagliata, la lingua. Nella fretta e nell’ansia mi precipitai ad attraversare un muro spesso, forse un muro da fucilazioni, alzai la mano che teneva la spada, cioè la sinistra, la bloccai per un istante davanti al bordo del muro, proprio dove avevo pensato di abbandonare la spada prima di compiere l’attraversamento, misurai il tempo velocemente e, come in un lampo, mi ritrovai dall’altra parte. In quel momento aprii gli occhi e deposi la spada nelle mani del sogno. Che recidesse tutti i peli che voleva e tagliasse lingue fino a stancarsi. E se la spada non fosse caduta a terra, mi chiesi, e appena rientrato nel sogno, qualsiasi sogno, fosse lì in agguato, sul bordo del muro, pronta a farmi la testa in pezzi? Iniziai a contare, forse i passi che mi separavano dalla perdita della testa, ma nel frattempo sentii strillare i galli del vicinato. All’inizio, sopra il davanzale della finestra, apparve il cielo, il cielo, il cielo, poi le chiome affilate degli alberi, i rami dimenticati dalle foglie, i tronchi, l’antico dissanguarsi dei tetti, le montagne lontane, di vetro, molto più sottili e leggere che nei canti epici, e poi il lago e qualche ombra umana. Stirai di nuovo i muscoli, feci un grugnito e, mentre richiamavo alla memoria i miei viaggi attraverso muri e tronchi, pensai che fosse motivo di grande felicità essere un fantasma. Devo chiedere dove vanno indirizzate le preghiere per 4

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diventare un fantasma, dissi a me stesso. Magari alle pompe funebri, dove chiedere pure, in conformità alle regole e alle possibilità, che non venga scavata una fossa troppo profonda, in modo che mi sia concesso di resuscitare in forma di spettro nella maniera più semplice. Inoltre devo riuscire a sottrarmi a quella vecchia e insensata usanza che impone di legare i piedi al morto prima di seppellirlo. E ancora, per avere la sicurezza di resuscitare come spettro già prima di esalare l’ultimo respiro, dovrei subire qualche grave ingiustizia in questa vita, cioè rivendicare un qualche suo sporco debito, oppure diventare messaggero della sua barbarie. I galli continuavano a strillare, al punto che ebbi la sensazione che fossero cani. Mi alzai lentamente, non mi avevano legato i piedi, e provai ribrezzo davanti all’assenza di pudore delle coperte, le quali, quel poco calore che liberavo dormendo, lo risucchiavano interamente scordandosi di me. E mi vergognai un po’ – cosa che mi capitava davvero di rado –, mi vergognai del mio non vergognarmi, e capii, avidamente, che ogni calore veniva liberato perché fossi soltanto io a risucchiarlo. Aprii la porta della stanza: vidi un quadrato di luce balzare e diventare tutt’uno con il muro. Chiusi la porta: buio. Il corridoio era ampio; nel buio sembrava immenso, muto e irresponsabile quanto l’universo; tutte e quattro le porte, così come la finestra, erano chiuse. Vagai insicuro verso la finestra, pregando di non precipitare, quindi riuscii ad aprire gli scuri e a guardare fuori. C’era luce, era giorno – questo bastava. Un cielo bianco e azzurro, grigio e annebbiato. Una ruota stordita, tanto sole quanta luna, la città, qualche rumore che ricordava il rintocco del martello, l’affondare dei chiodi nel legno asciutto, chissà chi stava tagliando la legna, oppure scolpendo nella pietra. «Inchiodalo per bene, così, come sto facendo io» sentii una voce. Ebbi compassione per il mio stomaco, mandai giù un caffè e uscii. L’aria è una grande invenzione. La respiravo e non ne I FIUMI DEL SAHARA


ero mai sazio. In fondo, perché esserne sazio? Sono venuto al mondo, no? Il giardino sonnecchiava. Scheletri di alberi, fiori appassiti, terra screpolata, in disperata attesa di una goccia di verde. Come un cuore senza amore, scherzai. La brina non era riuscita ad ammorbidirla perché non si era nemmeno sciolta. Le case attorno, per via dei rami senza foglie, sembravano intrappolate dentro grandi reti. Mi fermai sulla sponda del fiume a guardare l’acqua scorrere. Avevo molta sete. Le strade erano deserte. Qualche macchina ridotta a un rottame, impossibile sapere da dove venisse e dove andasse, qualche bambino che vagava cieco tra i salici spogli, qualche gatto affamato che scavava tra i miseri rifiuti invernali. Il cielo era molto basso e non potevi giurare se quella ruota lassù fosse un sole o una luna. Di sicuro viene a nevicare, pensai. Queste erano le ore più belle (oppure le più vive) della città. Una quiete più morbida del cotone, un silenzio assoluto, una pace malinconica sembravano distendersi su quel luogo dove dominava il desiderio di essere o molto più giovani o molto più vecchi; gatti e cani passavano di nascosto tra i buchi dei recinti, lanciando sguardi distratti; gli uccelli si gonfiavano in cima ai rami spargendo col becco sulle piume quel liquido che li protegge dalla pioggia. Sembrava che la città potesse squarciare in pochi minuti la corazza del tempo, insieme allo squallore e all’assopimento delle cose che si mostrano altre da quello che sono; che potesse scorrere dentro un altro tempo, imboccare un’altra direzione e fosse lì lì per svelare la città di una volta, quella meravigliosa. Attraversai il secondo ponte e mi diressi verso la riva del lago. Era impossibile fare qualcosa di questi tempi. Ti potevi convincere di essere escluso dal corso degli eventi, persino dai tuoi ricordi. È una cosa naturale, mi consolavo. Sei nato solo e solo morirai; di più: verrai seppellito in solitudine anche se avrai la fortuna di trovarti gettato in una fossa comune. Perché si muore solo per conto della propria morte. Sentii il bisogno incontrollabile di migrare con la mente verso una persona che amavo. Era molto difficile amare 6

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qualcuno di questi tempi. Ela adesso era lontana, ma soltanto domenica eravamo insieme, ci tenevamo per mano nei tunnel di bronzo di un parco, sì, mentre calava la sera; ci eravamo baciati, morsicati, strusciati l’uno all’altra, avevamo pronunciato parole dolci e irresponsabili; io l’avevo accompagnata fino all’entrata del palazzo, là ci eravamo di nuovo baciati, avevamo attorcigliato le nostre lingue, come se ognuno non volesse tornare a casa prima di aver sradicato la lingua dell’altro; lei aveva le labbra bagnate – può una donna piangere con le labbra? –, così, per scherzo, e con le lingue ben radicate, avevamo ripetuto come una preghiera la seguente frase: «Chi si impegna a morire per primo, attende l’altro al cimitero!». Ma tutto questo era successo domenica, il giorno prima, quindi un altro giorno, e un altro giorno, per quanto si provi a inseguirlo, è già lontano. Perché nel suo essere trascorso porta con sé tutte le morti possibili. Decisi di chiamarla – nel mentre ripetevo tra me e me i versi di De Rada: «Come colei che è fuggita vive oltremare / così vivremo noi dopo la morte…» – ma poi mi ricordai che di giorno odiavo il telefono, meglio di notte, pensai, di notte le voci diventano spiriti, oppure gli spiriti diventano voci, ed esprimono più chiaramente, senza troppi fronzoli, ciò che ha dentro una donna; non avevo neanche escluso l’eventualità di sentirne un po’ la mancanza. In fondo sarei rimasto lontano da lei per non più di una settimana – così mi diressi verso il lago. Davanti al cinema incontrai un amico d’infanzia. Era diventato grasso, la barba lunga, forse la malattia degli intellettuali delle piccole città, sempre messi da parte, sempre incompresi. Con i suoi strati di adipe in vista era come se si fosse affrettato a soffocare le fantasie e le diavolerie dell’infanzia. Un uomo senza splendore. Si sa quanto possano essere spiacevoli queste vecchie conoscenze, gli amici cambiati, che non vedi da tempo ma che all’improvviso ti spuntano davanti in una giornata colma di nostalgia, spruzzando intorno a sé lo zolfo velenoso della quotidianità. Lo sentivo che entrambi saremmo stati assai vivaci, almeno I FIUMI DEL SAHARA


all’inizio, come se non fosse successo niente, con l’unico scopo di convincere l’altro che non ci si è scordati di nulla, non ci si è arresi alla quotidianità eccetera. In quel primo istante, senza dubbio, entrambi pensammo bene di far finta di non vedere (siamo esseri umani: è la mente che vede, non l’occhio), ma il secondo istante ci bloccò: ci incontrammo, ci abbracciammo, ci sfiorammo gli angoli della fronte, secondo l’usanza («Ehi, fratello mio, come va la testa? Rimbomba dentro come prima o il cervello ti si è dilatato?…») e iniziammo a parlare l’uno sopra l’altro facendoci domande su domande. Entrambi dicevamo, senza ascoltarci, come va, come stai, bene, bene, dove stai ora, come te la passi, così, eh, tutto a posto – e Dio non voglia che sia vera quella superstizione secondo cui coloro che si parlano l’uno sopra l’altro muoiono insieme! Tutte le domande si potevano riassumere nello stupore inconsapevole di chi si rivede dopo tanti anni: «Sei vivo…», seguito da quella risposta a denti stretti, quasi afona: «Certo che sono vivo!». Ci offrimmo a vicenda una sigaretta, ah, queste fumi, anch’io le ho fumate per qualche tempo, poi mi ha preso una tosse, ah dài, sì, sì, ci accendemmo la sigaretta a vicenda, ci ringraziammo l’un l’altro col palmo della mano sul petto, poi arrivò l’invito al bar, un fernet doppio, un caffè, entrambi convinti che l’altro non avrebbe accettato, perché entrambi avevamo da fare, sarei rimasto volentieri ma sai, vado di fretta, tanto siamo qui, no? e va bene, sarà per un’altra volta, una di quelle volte che non arrivano mai, grazie, e ci salutammo. Entrai nel bar Turizmi e occupai un tavolo vicino alla finestra. Si vedeva il lago, di un blu cupo, la pista da ballo, triste; la pertica di ferro in mezzo alla pista ricordava il tronco spoglio di un pioppo; si vedeva anche il chiosco di compensato verde dove una volta, in estate, i suoni delle armoniche alleggerivano le abbuffate e le bevute dei turisti, mentre qualche sguardo ammiccante volava da un tavolo all’altro. Pensai che quando uno si trova seduto al bar, lo invade un desiderio folle di flirtare, di mangiare con gli occhi qualche pezzo di coscia, o immergersi in un angolo buio 8

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