Il petalo giallo

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Boris Pahor

Il petalo giallo Traduzione di Diomira Fabjan Bajc

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Tutto ebbe inizio con la lettera che lei gli scrisse dopo aver letto il suo articolo in una rivista. Al ritorno dalla biblioteca, nella sua stanza, si era sentita soddisfatta, ora però alla fine della giornata si domandava che cosa avrebbe pensato quell’uomo della sua convinzione, che il destino di un individuo può essere paragonato all’atmosfera del lager, quella stessa descritta nelle quindici pagine dell’articolo. Era stata in dubbio se spedirgli o no la lettera. Comunque, buonanotte vecchio signore! Ecco. La missiva piuttosto insolita di una sconosciuta di nome Lucie, probabilmente già avanti negli anni, pensò, altrimenti il tono con cui gli si era rivolta sarebbe stato alquanto curioso. Così, invece, aveva il valore di un atto di solidarietà, come a dire: noi di una certa età ne abbiamo passate tante, nella vita. Che farne della lettera, si chiese, un bel gesto da parte della sconosciuta, ma lui certo non era in grado di darle dei consigli. Era anziano, indubbiamente, la sua data di nascita era riportata nella rivista, ma talvolta quel che indicano le cifre non corrisponde al vero, un uomo può ben essere vitale nonostante l’età. Che la lettera resti lì, a maturare, si disse. In un’altra occasione la ringrazierò con una cartolina. Così aveva deciso il sessantacinquenne Igor Sevken, autore di un resoconto della sua esperienza in un campo di sterminio nei Vosgi, di cui l’amico di un amico aveva pubblicato alcune pagine in una rivista francese. Mise quindi la lettera tra la corrispondenza a cui avrebbe risposto una volta terminato il saggio al quale stava lavorando. Aveva tratto spunto da un convegno sul Manzoni, che si era concluso all’insegna di una vivace polemica tra i critici di sinistra e gli ammira6

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tori di ispirazione cattolica. Vi aveva partecipato in veste di intellettuale sloveno e, fra le tante, una era stata la conferenza che aveva destato in modo particolare il suo interesse, perché riguardava l’assunto manzoniano secondo il quale il romanzo non è soltanto frutto di un’invenzione poetica, ma deve al contempo prendere spunto dalla realtà. Era una tesi, questa, che lui aveva sempre sostenuto a proposito della letteratura slovena moderna, poco avvincente proprio per la mancanza di un legame con le concrete vicende storiche. Ma ancora più importante gli era parsa un’altra osservazione del conferenziere, che aveva fatto notare come nei Persiani Eschilo, per esortare i suoi connazionali alla rivolta, non descriva la vittoria dei greci, bensì la situazione in cui vengono a trovarsi i vinti dopo la sconfitta. Fu spinto così a pensare alla storia del suo Paese e alle opere letterarie che narrano il destino degli sloveni di Trieste in epoca fascista, il genocidio culturale da essi subito. Certo, tali scritti raccontano poi della fine della guerra, della vittoria del 1945, quindi non è lecito un confronto diretto con il tragediografo greco che aveva incoraggiato la sua gente per negationem: i testi sloveni rappresentano sì il male sofferto, ma per testimoniare crimini ignoti oppure occultati. E ciò è giusto e necessario. Manca però la rappresentazione della rivolta, e questo sarà compito futuro. Quando ebbe terminato il saggio scrisse a Lucie Huet, che era d’accordo con lei riguardo alla possibilità di provare un senso di reclusione e di impotenza anche al di fuori dei recinti di filo spinato. Nella sua lettera di risposta lei accennò al fatto che i Vosgi avevano avuto un ruolo decisivo nella sua giovinezza. Era dunque un’ex deportata?, si domandò turbato, perché sapeva quanto fosse complesso l’eventuale incontro fra persone che avevano vissuto esperienze simili. Inoltre i suoi giorni erano consacrati a lavorare in un solitario raccoglimento, che solo all’amore riconosceva il diritto di interrompere. Sì, l’amore poteva prevalere, ma unicamente per accompagnare la sua solitudine, per arricchirla, quale fonte di sensibilità e di entusiasmo. Il petalo giallo

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Bene, non appena avesse avuto l’occasione di recarsi sulle rive della Senna, si sarebbe fatto vivo, lo incuriosiva quella donna insolita che a conclusione della lettera domandava: “Chissà se un giorno faremo conoscenza, oppure ciò è già accaduto?”. Si tratta senza dubbio di un legame con il comune passato, si disse.

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È probabile che molti, desiderando trovarsi in una determinata città, immaginino di incontrarvi una persona cara, di visitare un’importante istituzione, di fermarsi sopra un ponte a osservare il fiume. Lui non poteva certo negare che, pensando a Parigi, si vedeva sul Pont de l’Archevêché, dietro il presbiterio tutto merletti di Notre-Dame. Tuttavia doveva ammettere che di solito la prima immagine ad affiorare vivida in lui era place Saint-Michel con l’edificio della libreria su più piani. All’ultimo piano, anzi, nella mansarda, c’era il settore dei libri tascabili: dai tradizionali livres de poche, che ne ricoprono le due pareti principali, sino alle altre edizioni economiche sui banchi, a disposizione dei visitatori. Ogniqualvolta si ritrovava là in alto, al di sopra della piazza, veniva pervaso da un sensazione di familiarità e, al tempo stesso, di religioso rispetto. Si muoveva con piena soddisfazione in quello spazio sotto il tetto, progettato con tanta originalità dall’ingegno parigino. La veneranda età dell’edificio era stata rispettata e le moderne scale mobili si aggiungevano alle scale di legno per le uscite laterali; insomma, era un esempio di come lo spirito umano possa creare e innovare restando cosciente della sua modestia. E così, quando giungeva lassù, stretto fra gli scaffali, non sapeva neppure se avrebbe comperato qualcosa, non sentiva la necessità di acquistare un volume preciso, ma si rendeva conto di appagare, con la sua presenza, una sorta di nostalgia. Oh, naturalmente si fermava, esaminava i titoli e i nomi degli autori, prendeva in mano un libro dopo l’altro e ne assaporava qua e là alcuni paragrafi, ma era sempre presente in lui la consapevolezza che il suo pensiero vagava altrove, Il petalo giallo

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sebbene le nuove edizioni di Camus, a lui molto caro, di Vercors, della Duras riuscissero comunque a risvegliare il suo interesse. Era altrove e se ne rammaricava, perché, tra una cosa e l’altra, avrebbe trascorso un’ora a rovistare nei libri, a ispezionarli, per andarsene poi con la cartella vuota. E tuttavia sapeva bene che non stava perdendo tempo, rendeva invece omaggio, silenziosamente, alla testimonianza della parola a cui lui stesso dava il suo contributo, sia pure in minima parte. Si sentiva come un ospite che viaggia in incognito e si accontenta di leggere i titoli esposti, di poter sfiorare le bianche copertine e, quando passa davanti alla cassiera, prova la sensazione di aver partecipato, ancora una volta, a una cerimonia intima. Basta che ritorni aprile, si disse, e rinverdiscano le chiome degli alberi sopra le bancarelle di libri sul Lungosenna: allora ci vado!, e pensò alla soddisfazione di presentarsi ai redattori della rivista e di acquistarne altre copie, oltre a quella ricevuta in omaggio. Il pendio terrazzato che sovrastava la spiaggia di Duino era già in fiore, il mare annunciava la primavera. Era la natura stessa a invitarlo a una metamorfosi.

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Quando aprile fu maturo, si mise in viaggio. Una sera, nel suo albergo a Parigi, pensando che il pomeriggio seguente sarebbe stato libero, cercò il numero di telefono della sconosciuta che il destino aveva legato ai Vosgi. Gli rispose la segreteria telefonica, alla quale comunicò la sua disponibilità per l’indomani. Trascorsi solo pochi minuti lo chiamò lei stessa. Si scusò, era appena tornata da un seminario, disse. La sua voce non faceva pensare a una persona anziana, piuttosto a una studentessa, sebbene avesse un tono cupo, quasi sconfortato. Le propose Saint-Germain-desPrés, come se si trattasse dell’incontro con una scrittrice. Le andava bene il caffè Les Deux Magots? Quale segno di riconoscimento sarebbe bastato il suo berretto, perché gli uomini di Parigi non portano cappelli neanche d’inverno. Bene, lei avrebbe avuto in mano una copia della rivista. Si incontrarono sul marciapiede, quando lui uscì dal caffè dove non aveva trovato neppure un tavolo libero. Si diressero allora verso rue Jacob. Erano imbarazzati, quindi troppo loquaci. Lucie infatti, lungi dall’essere un’anziana signora, era una giovane bruna di capelli, minuta e graziosa. Trent’anni, si disse, mentre le camminava accanto, cercando un legame tra le sfumature d’ombra sul suo viso e il tono cupo delle sue parole sul nastro della segreteria telefonica. Avvertiva una comunanza che non riusciva a spiegarsi, ma che dava l’impressione di un’insolita affinità interiore. Trovarono un separé vuoto in fondo a una modesta brasserie e, così come avevano accettato solidali quel luogo stretto e senza pretese, iniziarono con semplicità un vivace dialogo. Lucie alluse all’esperienza di un male paragonaIl petalo giallo

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bile a quello del campo di sterminio. Lui assentì, tuttavia aggiunse che l’eliminazione organizzata dei lager era, nella sua specificità, un evento unico. Lucie fece un cenno di diniego: «È sempre possibile che qualcuno metta in atto un suo ingegnoso progetto» disse. «Quindi, nel suo caso, i Vosgi non possono essere considerati sede di morte» replicò lui. «Ma la morte era comunque presente» sottolineò Lucie. «Il nostro piccolo villaggio, abitato da montanari ostinati, fu un osso duro per le truppe tedesche, perciò fu bruciato da un battaglione di SS, che radunarono gli uomini nella piazza del paese per spedirli verso destinazione ignota. Per fortuna la vecchia casa dei miei avi resistette alle fiamme, quindi dopo la guerra – ero una ragazzina – ho potuto riflettere, curiosando nel solaio, sul destino di quegli uomini degni di rispetto. Ecco, quella casa in mezzo alle sorgenti di acqua montana è l’unico punto luminoso della mia giovinezza. Ma purtroppo anche quel periodo è stato inghiottito dall’oscurità degli avvenimenti successivi. La sinistra figura di mio nonno, l’accanimento di mio padre, tutto si trasforma vorticosamente in un solo fascio di abiezione.» Igor Sevken la osservava, cercando di leggere in quegli occhi castano-verdi il vero significato delle sue parole, ma con la consapevolezza di sentirsi ormai attratto dal suo sorriso un po’ stanco e dall’indecifrabilità della confessione. «Siamo tutti preda di forti angosce» le disse. «Mentre mi preparavo a partire, per esempio, sono stato più volte assalito dal pensiero che sarebbe accaduto qualcosa di inaspettato che me lo avrebbe impedito. Eppure è trascorso mezzo secolo dall’estate in cui il terrore fascista ha insinuato nell’intimo del ragazzino che ero una paura che, per quanto latente, continua a tormentarmi.» «Ma un’altra paura, ancora più terribile, si è poi aggiunta, vero?» Avrebbe voluto posare la mano sulla sua, ma ebbe timore di essere troppo precipitoso, sebbene al tempo stes12 13

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