Kapo

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Aleksandar TiĹĄma

Kapò Traduzione di Alice Parmeggiani


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Aveva ritrovato Helena Lifka! L’aveva riconosciuta, aveva constatato che era proprio lei, a meno che a trarlo in inganno non fosse stata tutta una serie di coincidenze casuali: l’uscita di lei dal portone accanto al quale c’era la targhetta di latta con il numero sedici, quello che gli era stato comunicato assieme al nome della via, nome che in precedenza aveva letto all’angolo della strada; il suo aspetto, quella postura un po’ curva che ricordava bene, quella sorta di smarrimento nella stretta delle spalle e nella testa piegata; ma soprattutto le sue gambe, due colonne forti con i polpacci larghi e carnosi, leggermente combacianti all’altezza delle ginocchia, per poi divergere a forma di ics. Il tutto, a onor del vero, ormai cadente, in rovina – erano passati decenni! – ma neppure così alterato da non permettere il ricordo. In realtà, la convinzione di averla ritrovata era divenuta certezza solo nel momento in cui aveva smesso di guardarla e non aveva avuto il coraggio di seguirla in casa, mentre quando lei era lì, presente, davanti ai suoi occhi, e non solo nella sua coscienza, tutto in lui si era ribellato contro il riconoscimento: «Non è lei, non può essere lei!». Nello stesso tempo, credeva anche di sapere i motivi di quel rifiuto: non accettava facilmente che lei si fosse trasformata in una vecchia; e poi, aveva paura di tutto ciò a cui il riconoscimento lo avrebbe costretto, ossia seguirla in casa e presentarsi, affrontare il suo orrore, il suo odio, forse anche la sua vendetta. Veramente, la vendetta era il male minore: non la temeva più, al contrario, l’agognava, per esporsi a essa o per ottenere il perdono. Ciò che paventava era l’odio, il ribrezzo, il suo indietreggiare davanti a lui come davanti a qual7


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cosa di schifoso, a un rospo, a una biscia, davanti a qualcosa che è rimpiattato nell’inconscio e nei sogni, e che quando balza fuori nella veglia provoca un soprassalto, un urlo. Aveva provato anche lui un sentimento simile quando l’aveva vista apparire nella cornice del portoncino – alto, stretto – e poi scendere i due gradini fino al marciapiede. Aggrappandosi leggermente al muro mentre affrontava il primo scalino, poi togliendo la mano, ma lasciandola sollevata, più o meno all’altezza del petto, una mano in un grigio guanto di filo – aveva notato quel particolare – non per sostenersi in caso di necessità – questo non era più possibile una volta scesa sul secondo gradino, dato che il muro le era rimasto alle spalle – ma per abitudine, per prepararsi ad afferrare un qualsiasi sostegno nel momento in cui fosse mancato quello vero, una ringhiera di ferro, per esempio, che questa scaletta non aveva – o addirittura neppure per abitudine, ma per creare un’abitudine per il futuro, quando un sostegno le sarebbe davvero diventato indispensabile. Intuiva il timore nei suoi movimenti, non solo nel gesto della mano, che era rimasta sollevata, ma anche nel passo di quei piedi maldestri, che scendendo si posavano insicuri, come impastoiati, come se al di sopra delle ginocchia combacianti, intorno alle cosce, ci fossero delle corde attorcigliate. Vedeva che il cappotto – grigio anch’esso, un po’ più chiaro dei guanti – si increspava là, sopra le cosce – un cappotto semplice, di taglio maschile, con due file di bottoni e uno stretto colletto aderente – e gli sembrava che anche quelle grinze fossero qualcosa di macchinoso, di rigido, come se davvero ricoprissero del cordame nascosto. Il suo sguardo ne era attirato, e si inchiodò suo malgrado su quella giuntura principale del corpo nell’atto del passo, su quel punto nodale che nello stesso tempo è anche il centro della femminilità – o negli uomini della virilità – e si immaginava che là, se non proprio il cordame – che sicuramente non c’era – facesse volume la sua biancheria, l’ingombrante biancheria di una donna anziana, indossata a strati per difendersi dal freddo – già ora, in ottobre! – senza badare alla brutta immagine che avrebbe potuto dare, poiché, in ogni caso, con i soli indumenti intimi non si sa8


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rebbe mostrata a nessuno. Sotto la biancheria, avvolta in essa, c’era infatti carne vecchia, un vecchio ventre floscio, vecchi peli grigi e radi per l’attrito, una vecchia vulva moscia sospesa fra cosce gelatinose che camminando si strofinavano e creavano umidi arrossamenti cutanei. Con gli occhi fissi sullo spazio fra le gambe di lei, sentì che anche il suo era vecchio e flaccido, e così anche la sua ricerca e quell’appostamento al portone dirimpetto gli parvero osceni, come se il suo obiettivo fosse quello di accoppiarsi nuovamente, e con quegli stessi genitali, vecchi com’erano. E di quell’accoppiamento aveva orrore; era stato proprio il raccapriccio, a suo tempo, a indurlo a respingere da sé Helena Lifka, ad allontanarla, e lo stesso ribrezzo, quell’urlo interiore di rigetto, si era manifestato in lui come prima istintiva risposta quando aveva poi ritrovato le sue tracce, il suo segnale, nel camion diretto a Banja Luka, nel giornale ripiegato che giaceva sotto la panca davanti alla sua, una panca in quel momento senza passeggero, vuota, dunque il giornale era stato gettato lì, non apparteneva a nessuno. E tuttavia aveva esitato a lungo prima di prenderlo, come avesse intuito che era meglio non farlo, che qualcosa in quel giornale lo avrebbe aggredito, morso – credendo però di esitare perché non era suo, perché calpestava la legge di proprietà – ma quando infine, spinto dalla noia, lo aveva sollevato dal pavimento polveroso e lo aveva aperto, ancor prima di capire che non gli sarebbe servito a niente, dato che era stampato in una lingua a lui sconosciuta, la prima parola che vi aveva letto, dal momento che aveva attirato il suo sguardo, era stata Szabadka, e quella parola gli aveva provocato orrore, nausea, perché l’aveva istantaneamente collegata al nome e cognome “Helena Lifka”, e all’indicazione Jüdin sulla stessa riga, assieme al numero 1925, nel libro degli Zugänge, ossia dei “nuovi acquisti”, del lager di Auschwitz. Un giornale straniero: sito naturale per quel nome tenuto a mente così a lungo, poiché anche quando, nel lager, l’aveva visto per la prima volta, associato al luogo di nascita di Helena Lifka, proprio in base a esso aveva concluso, con sollievo, che quella 9


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donna era stata spedita lì da un Paese a lui straniero, con ogni probabilità dall’Ungheria, e dunque, almeno in virtù di quell’appartenenza, gli era estranea. Tuttavia si meravigliò – allora, nel camion – che un giornale di un altro Paese fosse saltato fuori nel tragitto fra Pobrdje e Banja Luka, dove uno straniero capitava molto raramente. Come se la cosa fosse stata orchestrata per ammonirlo e minacciarlo. Da parte di chi? Mentre il camion ballonzolava, sollevando la polvere, aveva passato in rassegna con lo sguardo i passeggeri – due contadine sulla panca dietro alla sua, assorte in una conversazione che a causa del frastuono si innalzava alle grida, e alcuni impiegati, accasciati e sparpagliati negli angoli – cercando fra loro il responsabile. Aveva concluso che avrebbe potuto essere un altro, una terza persona, qualcuno che dal posto davanti al suo aveva abbandonato quel giornale straniero sotto la panca, come un’esca, e poi era sparito. Tuttavia, ricordava che salendo sul camion a Pobrdje, dove eseguiva rilievi e misurazioni nei campi, aveva già visto il giornale gettato sotto la panca, e che la panca stessa, così come tutta quella sezione centrale del veicolo, era vuota – proprio per questo si era sistemato lì. Comunque, ripiegò il giornale com’era prima, e poi, cercando di non dare nell’occhio, lo gettò sotto la panca davanti alla sua, e anzi con la punta della scarpa lo spinse in avanti. Io non l’ho trovato. Ma non poteva più non tenerne conto, almeno nei pensieri. Si chiedeva se avesse letto esattamente quella parola, Szabadka, oppure se qualche altra si fosse fusa con i suoi caratteri di stampa in un’espressione simile a quella che ricordava; esitava, pensando se abbassarsi di nuovo, prendere il giornale e controllare, ma non ne aveva più il coraggio. Il camion correva, si fermava; le due donne scesero assieme, salì un nuovo viaggiatore, un suonatore di mandolino; la polvere sollevata dalla strada si infilò sotto il telone del camion e iniziò a spargersi, coprendo il pavimento e le panche, e infiltrandosi nei polmoni, ma lui non faceva che osservare di nascosto il giornale che, sotto la panca davanti alla sua, sobbalzava scivolando ora a destra e ora a sinistra: c’era il pericolo che arrivasse fino all’an10


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golo dove stava l’uomo piegato, con il berretto e la cartella sotto il braccio, e che quello lo tirasse su e lo portasse via con sé, se non altro per usarlo come carta da imballaggio. In tal caso non avrebbe mai saputo se si era sbagliato o se nel giornale aveva davvero letto il nome della città natale di Helena Lifka, né quale fosse il giornale in cui quel nome era stampato, perché nell’agitazione non aveva fatto caso al titolo; ma anche se avesse raccolto il coraggio per cercare ulteriori informazioni, in qualche biblioteca di Banja Luka o addirittura di Sarajevo, non avrebbe saputo da quali elementi partire. Arrivati a Banja Luka, alla stazione degli autobus, quando tutti si alzarono per scendere, si avviò con gli altri; e si trovava già stretto in mezzo al gruppo davanti all’apertura nel telone quando fece un passo indietro, sollevò il giornale e lo ficcò sotto il cappotto. Il cuore gli rimbombava: forse sarebbe stato proprio quel gesto a smascherarlo. Guardava di sottecchi i compagni di viaggio, mentre sgomitava davanti all’apertura, e aspettava che uno di loro – in particolare quello con la cartella, che sembrava proprio un delatore – gli infilasse una mano sotto il cappotto e tirasse fuori il giornale, e che poi glielo sventolasse fulmineamente davanti al viso e agli occhiali: «Ci sei cascato!». Ma non successe niente di simile, quello con la borsa scese senza girarsi, dietro di lui si curvò per saltar giù il suonatore che teneva il mandolino stretto al petto. Lui era rimasto per ultimo, e gli venne subito in mente che la trappola era in realtà duplice, e lo attendeva fuori dal camion: quello della borsa si sarebbe limitato a comunicare che Lamian aveva preso il giornale, e qualcun altro – forse in uniforme, dacché non era più necessario nascondere nulla – l’avrebbe aspettato proprio davanti all’apertura del telone, lo avrebbe afferrato subito dopo il salto, costringendolo a raddrizzarsi, e gli avrebbe estratto dal cappotto la prova della colpevolezza. Voleva ancora una volta buttar via il giornale, si girò, ma in quel mentre l’autista, dal basso, lo invitò con un gesto della mano a spicciarsi, a non fargli perdere tempo, e così saltò giù, stringendo con la mano il cappotto, come prima il suonatore il suo 11


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mandolino. Piombò nella polvere, nella calca del mercato davanti alla stazione, raddrizzò le gambe e con sollievo constatò che l’autista non aveva più il viso rivolto verso di lui, ma verso i legacci del telone, che infilava rapidamente nei fori. E gli uomini in uniforme? Non ne vedeva alcuno nei pressi, non c’era nessuno a osservarlo, da vicino o da lontano, tutto in quella piazza coperta di baracche e bancarelle con i compratori ritardatari che vi si raccoglievano intorno appariva come sempre, come se non ci fosse nessuno ad aspettare proprio lui e nessuno lo spiasse, come se il giornale straniero fosse capitato per caso nel camion, che, al posto di una normale corriera, collegava a Banja Luka i lontani villaggi della Krajina, e proprio lui si fosse trovato lì immediatamente dopo uno straniero il quale, forse in viaggio verso il mare, aveva gettato o lasciato cadere il suo giornale sul pavimento polveroso. Andò direttamente a casa e chiuse la porta a chiave, abbassò le tende, accese la lampada, estrasse il giornale dal cappotto e lo appoggiò sul tavolo. Lo aprì. Sì, là, in uno dei titoli, il terzo, a metà della pagina dove la carta in seguito alla piegatura si era sollevata, c’era, stampata a grandi lettere, la parola Szabadka, assieme ad altre che non conosceva. Cercò di penetrarne il senso, ma non ci riuscì. Girò la pagina, esaminò i fogli che gli si dispiegavano davanti agli occhi, cercandovi la stessa parola o qualche altra che potesse essergli più comprensibile. Ci capitò sopra di nuovo alla terza pagina, non in un titolo, ma sotto, proprio in testa a una notizia o comunicazione, piuttosto breve, che cominciava, oltre che con quella parola, con una data scritta in un ordine che appariva contrario rispetto al solito: 1947, június 19. Allora quello era davvero il nome di un posto, proprio come credeva, benché in fondo alla coscienza si agitasse ancora la possibilità di una casuale coincidenza, in virtù della quale, per esempio, ciò che nel registro del lager indicava un luogo, in qualche altro caso poteva significare, anche se scritto nello stesso modo, il nome di un oggetto o perfino un nome proprio. Continuò a cercare la stessa parola, prima nei titoli, e subito dopo facendo scendere lo sguardo alle prime righe degli arti12


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coli; la ritrovò altre sette volte, di cui cinque nell’ultima pagina, l’ottava, quella con le notizie più brevi, per cui dedusse che il giornale usciva proprio nella località che aveva per nome quella parola, o nelle sue immediate vicinanze. Girò il giornale alla prima pagina, da dove aveva appunto iniziato a esaminarlo, e cominciò a compitare i caratteri cubitali stampati in cima, inclinati come fossero scritti a mano, addirittura con un codino alla fine, simile a quello lasciato da un casuale tratto di penna, ma non gli chiarirono nulla. Tuttavia, immediatamente sotto, scoprì di nuovo quella parola, in normali caratteri di stampa – Szabadka, 1947 június 20 – e, dopo un trattino che non poteva significare nient’altro che un segno di uguaglianza, “Subotica, 20 giugno 1947”. Fissava le parole e i numeri, poi singolarmente ogni lettera e ogni numero, quindi li abbinava di nuovo, e poi li separava, finché gli occhi non gli si annebbiarono. Li sollevò per schiarirli, guardando il muro diviso a metà dall’ombra proiettata dal paralume, e fu come se da quel confine fra ombra e luce avesse letto ciò che gli era balenato nel pensiero: Szabadka significava Subotica in lingua ungherese, quindi il giornale che aveva trovato sul pavimento del camion, anche se in ungherese, era stampato in Jugoslavia, nella città di Subotica, il cui nome ungherese lui non conosceva, per questo aveva pensato che Helena Lifka, almeno in quanto a cittadinanza, fosse straniera, una persona proveniente dall’altra parte di quei confini che, senza pensarci, considerava suoi, perfino ai tempi in cui erano stati cancellati dalla guerra; e invece Helena Lifka apparteneva – se non allora, adesso sicuramente sì – agli stessi suoi confini, e forse dentro quei confini viveva tutt’oggi, se mai viveva ancora.

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