La camera bianca

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La camera bianca



Ci sarà sempre qualcuno a ripitturare gli infissi. Sempre qualcuno a chiudere i buchi e stuccare le crepe dell’intonaco. E io non dovrò più preoccuparmi di quali mani sapranno tenere il peso delle cesoie, con la forza che ci vuole nel polso e l’estrema precisione nell’occhio, perché i ligustri non sporgano fuori e le tuie non muoiano soffocate. Ci sarà sempre qualcuno, mi dicevo, qualcuno ci sarà sempre, perché io lo sapevo che un giorno lui sarebbe stato meglio. Perché mi avevano detto: domani. Domani lui tornerà a casa. I camici sbottonati che si aprivano a ogni movimento, l’ambulanza parcheggiata davanti al cancello, il rumore del portellone di dietro e della barella, lo sbattere delle portiere, il rumore metallico della barella sull’asfalto davanti a casa, finché alla fine sono uscita – io che ero rimasta a guardare la scena dalla finestra, perché quella scena aspettavo di vederla dal giorno prima, da quando mi avevano detto che lui sarebbe tornato a casa di pomeriggio – con nel cuore tutto quel sangue che non sapeva più il suo ritmo, con il sangue che pulsava nelle arterie. E batteva nelle vene, batteva sotto il cranio, il sangue. E sono uscita, con il cuore, il mio cuore che – sono uscita e ho sceso gli scalini, lentamente, piano piano, con la volontà di restare calma, assolutamente calma, e non ho guardato verso di lui, ho trattenuto il respiro e lo sguardo, richiamando indietro gli occhi, richiamando il cane che mi girava tra le gambe, il cagnolino bianco con i peli ingialliti dietro la testa, che scodinzolava e scalpitava sulla ghiaia dimenticandosi perfino di approfittare del cancello aperto, come face6

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va ogni volta, per dare un’occhiata altrove (e spesso andava alla scuola di Renaud, la scuola elementare che lui riusciva a trovare da solo, lui, il cane, e a volte lo vedevo tornare in braccio a Renaud quando Renaud usciva da scuola. Ma quel giorno io a Renaud avevo detto che a scuola di pomeriggio non ci sarebbe andato. E neanche Philippe. A tutti e due avevo detto che volevo fossero lì ad accoglierlo e che era già un peccato non potesse esserci anche Pascale). Con gli occhi e i polmoni gonfi di uno smisurato orgoglio perché lui era lì, tornato a casa, e mi dicevo: adesso non dovrò più preoccuparmi. I muri che si screpolano, le fessure, forse i topi in soffitta. Di tutte queste cose non dovrò più preoccuparmi. Ricordo la mia mano tra i suoi capelli. La barella che avanzava fino alla scala e la ghiaia schiacciata sotto le ruote, sotto il peso del suo corpo che triturava i sassolini. E io, io che giravo intorno a loro, come il cane fiutava alle mie caviglie, e chiedevo se c’era bisogno di aiuto, se dovevo portare un po’ anch’io. Ma no, non c’era posto e così li ho guardati fare, mentre sollevavano la barella perché le rotelle non restassero bloccate, perché non sbattessero contro gli angoli dei gradini, e ricordo che per tutto il tempo le rotelle giravano a vuoto, le rotelle sopra i gradini di cemento, ricordo la voce di quello che voleva fare piano, le facce tese dei due uomini che sollevavano la barella, i loro camici aperti, i jeans che sporgevano dai camici, le scarpe da tennis ai loro piedi, gli sforzi delle loro braccia. Che hanno rifiutato il bicchiere d’acqua. E lui, steso sulla barella in mezzo al corridoio nell’ingresso. Che ha girato la faccia verso la porta della cucina. E dalla cucina loro due che sono usciti, lentamente, i gesti diffidenti, loro due, Philippe e Renaud, e gli sono andati vicino. Ricordo il sorriso che gli ha disegnato la faccia in un modo strano, con le rughe di stanchezza e gli occhi, i suoi occhi che hanno brillato, che ho visto brillare e offuscarsi quando, uno dopo l’altro, Philippe e Renaud si sono chinati su di lui per dargli un bacio. Quando uno dopo l’altro gli hanno sussurrato ciao. La camera bianca


E anche lui ha detto ciao, in un soffio, come tra i denti, con lo sforzo che gli costava andare oltre il sussurro. Già dal giorno prima, la precipitazione di fare tutto: spalancare le finestre, inondare d’aria lo spazio della casa, cambiare le lenzuola, lavare un pigiama, spazzare negli angoli, spolverare, stanare la polvere, e poi sistemargli una camera tutta per lui, perché, mi ero detta, avrà bisogno di una camera solo per lui e con Philippe avevamo deciso che sarebbe stata la sua, di camera, e che lui sarebbe andato in quella di Renaud. Abbiamo cambiato le lenzuola del letto. Abbiamo spalancato le finestre e lasciato aperto tutta la sera, fino al momento di andare a dormire. Poi abbiamo alzato il riscaldamento, perché il calore penetrasse bene dentro i muri, dentro le lenzuola, perché la camera fosse davvero a posto. La scrivania di Philippe l’abbiamo tolta. La vecchia scrivania che avevamo portato su dal garage solo per lui, per Philippe, perché avesse un posto dove studiare. L’ abbiamo sollevata tutti e due e l’abbiamo sistemata contro il muro, nella camera di Renaud. Per un po’ di tempo avrebbero dormito insieme. Poi Philippe ha tolto i suoi raccoglitori, i suoi libri, i suoi quaderni, i poster e le cartoline sul muro, le gomme, i libri ammucchiati sul comodino. Dal suo armadio i vestiti sono finiti nell’altra camera insieme a quelli di Renaud, come prima, come quando in casa c’era ancora Pascale, e i due fratelli dividevano la stessa stanza. Con lo straccio io ho fatto il lampadario, il ripiano sopra dell’armadio, il comodino. E sul comodino abbiamo messo una lampada. Siamo andati a prendere la televisione che era in sala e l’abbiamo messa tra l’armadio e la finestra. Il mattino seguente ho preso il vaso più bello, quello turco, il vaso azzurro con i bordi turchesi che Pascale aveva portato a casa dalla Turchia. E però i fiori. Nella camera bianca, lui li avrebbe calpestati i fiori. Ogni mattina, nella camera bianca, nell’odore di etere, gli stessi occhi neri su di me. Il nero del suo sguardo contro di me, contro quella che era la mia faccia. Però io arrivavo 8

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lo stesso con un mazzo di fiori, dicendomi: anche se non mi ama più, anche se non vuole più vedermi. E lui mi seguiva con lo sguardo, con quel suo occhio che ruotava per seguire i miei movimenti – ogni mattina arrivavo alle nove con un mazzo di fiori tra le mani. Il mazzo di fiori che prendevo ogni mattina al piano terra, subito dopo l’accettazione, dove c’era un’edicola e un fiorista – come se soltanto di questo la gente avesse bisogno: di giornali e fiori, per passare le giornate, per non dirsi che stava lì ad aspettare qualcos’altro, la voce che avrebbe detto: va meglio, lei va molto meglio. E la mia speranza sospesa, esitante come il mio cuore, nell’ascensore prima, davanti alla sua porta poi. E dietro la porta sempre l’occhio nero. La sua voce, il tono della sua voce quando diceva che era stanco dei fiori, di vederseli lì, di vedere sempre le mie mani, al mattino, intorno all’alluminio e ai gambi umidi che sgocciolavano per terra. Diceva che era sfibrante il gesto delle mie mani che toglievano l’alluminio e appoggiavano i fiori sul comodino, facendo attenzione a non sciuparli. Diceva che era spaventoso. Diceva che era rivoltante vedermi passare ai piedi del letto, davanti a lui, con quel sorriso imbarazzato, idiota, per scusarmi di andare in bagno appena arrivata, perché non mi davo neanche il tempo di togliermi il cappotto che già avevo preso il vaso, il vaso di vetro – del vaso lui non diceva niente ma io vedevo come i suoi occhi seguivano le mie mani che afferravano il vaso per cambiare l’acqua, come il suo sguardo sulle mie mani mi schiacciava le dita contro il vetro, perché a forza di stringerlo sempre più forte il vaso finisse per rompersi – lui avrebbe voluto il sangue sulla pelle e sul vetro, i cocci gocciolanti per terra, così, con i fiori nudi, stesi per terra, i tulipani che già marcivano nell’attesa che io tornassi con un vaso nuovo, con le mani fasciate, con la calma ritrovata. Avrebbe forse voluto, che so, avere la forza di sollevarsi e con un soffio, approfittando del mio grido, del sangue e dei vetri mischiati insieme, avrebbe voluto sollevarsi un poco tendendo il collo un po’ più avanti, un po’ più in alto, avere La camera bianca


la forza di soffiare sulla carta d’alluminio appoggiata sul bordo del comodino, in equilibrio, trattenuta soltanto dal peso dell’acqua nelle pieghe, nei solchi scavati dai gambi come piccoli canali. Avrebbe voluto avere tanto fiato da far perdere l’equilibrio alla carta d’alluminio, per sentire il suo rumore sul linoleum. Uno scivolare leggero, quasi niente, niente per noi, per me, per chi non vive come una lotta muovere il collo e chinarsi in avanti, per chi non considera una vittoria, come lui per esempio, vedere appena il suo respiro far cedere un equilibrio, far cadere l’alluminio. Ma adesso che era tornato a casa io mi dicevo che avrebbe superato la sua rabbia. Che avrebbe imparato di nuovo a vedermi, mi dicevo che si sarebbe addolcito, lentamente, piano piano, al ritmo dei suoi progressi, mi dicevo tutto questo perché non avevo più paura, non temevo più il suo sguardo di pietra sui miei occhi bassi, sulla saliva che rimandavo giù di colpo in fondo alla gola. Mi dicevo: impareremo di nuovo. Rifaremo i gesti di chi sta imparando, di chi sta cominciando. E li faremo a ritroso, ritorneremo verso l’inizio perché per tanto tempo io sono rimasta a guardare le foto, tutti quei pomeriggi, in sala, sul tavolo della sala, e ho visto bene io, da una foto all’altra, il suo braccio che mi stringeva la vita e i nostri corpi sempre vicini quando avevamo vent’anni e un appartamento così piccolo da starci tutto sulla foto. La sua mano che teneva ancora la mia dieci anni dopo, a quei matrimoni subito dimenticati non appena ce ne andavamo via, e poi, a poco a poco, i nostri corpi sempre più distanti in appartamenti sempre più grandi, come se noi ci scomparissimo dentro, in quegli appartamenti, come se ne fossimo inghiottiti, si dice proprio così: dalla forza delle cose. Noi, sprofondati dentro lo spazio delle foto. Tutto questo cammino noi lo avremmo ripercorso nell’altro senso, e io mi sedevo vicino a lui, sul letto, lasciando spazio a quello che avrebbe desiderato, lasciandolo parlare, ascoltandolo, ritrovando una fiducia che avevo perduta e che non avrei più creduto possibile sentire. E così pensa10 11


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