La casa perduta

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Marianne Gruber

La casa perduta Prefazione di Elisabetta Dell’Anna Ciancia Traduzione di Cesare De Marchi



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La morte del piviere


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Era mattina adesso, e dal poggio a nord-est il vento riprese a investire il paese. Theresa, seduta al tavolo curva in avanti, lo ascoltava urtare contro il tetto, ingolfarsi tra le scandole e piegare gli alberi davanti alla casa, proseguendo poi la sua corsa verso sud senza incontrare altri ostacoli, solo prateria e qualche basso cespuglio isolato le cui foglie, gialle, avevano l’odore dell’estate che avanzava. Quest’anno i venti erano arrivati presto, senza rinfrescare. Spazzavano la campagna fino al confine e oltre, portando con sé aromi e rumori come tracce contraffatte. Tutto era simultaneo, e simultaneo in nessun luogo. Nei frutteti le pere erano ormai mature. Nei campi era andata a fuoco la paglia. E nel bosco covava l’ardore di una siccità di settimane. Per un po’ Theresa restò immobile, quindi si stirò e obbedendo a una vecchia abitudine aprì gli occhi, ma tutto rimase oscuro. Il cane le si avvicinò spingendole il muso umido contro la mano. Insisté, ostinato e paziente, in questo atto finché lei gli cercò la testa. Al contatto della sua mano si accucciò e con disperata devozione si mise a leccargliela. Sentiva che la mattina lei aveva più che mai bisogno di lui: la mattina, quando la simultaneità dei mondi veniva meno e qualcos’altro aveva inizio. Le mattine erano sempre il momento più difficile. Le mattine e il vento. Ascoltandolo, si perdeva ogni misura. Faceva vorticare senza meta notti e giorni 3


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e la campagna, finché non restava altro che lo stormire dell’aria sotto un cielo chiaro e duro, con un sole rosso nel mezzo e una luce che vagava perduta. Ecco cos’era, in conclusione: una luce perduta, una casa perduta, una fine perduta. Theresa sentì la stanchezza della notte trascorsa invadere sordamente, come un’onda, tutto il corpo dalla punta dei piedi al torace. La sera e una furia inconcepibile, il dolore, l’esacerbazione e un odio nuovissimo, che aveva addensato tutte le sue energie residue in quell’aggressione a Haszler, adesso erano lontani. Per lei poi sarebbe stato più facile, aveva detto, avrebbe pensato a tutto lui. una sera tutta piena di quelle chiacchiere disgustose, e a un tratto lei s’era trovata in mano il bastone e con quello aveva cacciato Haszler di casa, aizzandogli dietro il cane, dopodiché si era messa a pestare col bastone sul letto, fuori di sé. una furia fremente, benefica, nella quale uno rovesciava dentro ogni cosa e poi non gl’importava più di niente. chiuso. Ma con Haszler non aveva chiuso. Sarebbe tornato. Theresa si massaggiò le ginocchia irrigidite e doloranti. Quello voleva la casa, il frutteto, il prato. Voleva farci una strada, non si capiva perché, ma sarebbe tornato finché non avesse ottenuto ciò che voleva. Anche questa a suo modo è una fine, disse ad alta voce. Il cane le rispose con un suono tra il guaire e l’abbaiare. Potevano essere forse le sei. Le pecore si erano messe a belare, e Theresa si alzò. Il cane balzò subito in piedi addossandosi a lei e spingendola verso il lavamano. Il catino era vuoto. Anche la brocca a fianco era vuota. Magnifico, disse Theresa, ieri ci siamo dimenticati di prendere l’acqua. Ieri, a quanto pare, ci siamo dimenticati di tutto. LA cASA PErduTA


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da fuori giunse il canto di un piviere. Theresa andò alla porta e la aprì cercando di indovinare con l’orecchio dove si trovasse l’uccello. I suoni venivano dal visciolo vicino al recinto che separava il pascolo dal frutteto. L’uccello doveva essersi perso o forse era impazzito. Nella zona non c’erano più pivieri da quando avevano arginato il ruscello e coperto lo stagno nel prato del paese. Non avevano più dove vivere, qui. Per qualche istante restò in ascolto dell’uccello, quindi uscì fuori. La luce brillava talmente che la percepì sulla pelle, le guance, le mani. Il vento gliela spingeva in viso, e subito nella sua mente presero a sfilare le immagini del paesaggio. La pianura era fertile. Vi si poteva coltivare quasi tutto, persino il tabacco. Le granaglie erano già state raccolte. Adesso era la volta delle patate e del trifoglio. Sui prati era steso il fieno ad asciugare, nel bosco maturavano le castagne d’India, e si arrivava, restando immobili in ascolto, a sentire i primi stormi di uccelli migratori. Ma questo era passato. Finito. Theresa stese la mano. Il bastone, disse. Il bastone non stava, come sempre, appoggiato accanto alla porta, ma sotto il letto, da dove il cane, trafelato, lo tirò fuori. Lei aspettò che glielo portasse, quindi si avviò verso il pozzo tastando il terreno. Quando passò il cancello, le pecore le si accalcarono intorno. In settembre, forse già alla fine di questo mese, sarebbero andate via tutte. Soltanto il cane sarebbe rimasto ad aspettare con lei. Al pozzo gli abbandonò il bastone e pian piano calò il secchio finché lo sentì schioccare sull’acqua giù al fondo. Non c’era più catena, e il secchio era pieno solo a metà quando lo tirò su. rientrò in casa, vuotò l’acqua nel paiolo di rame tutto scurito sul fornello e quindi uscì un’altra volta. con il secondo secchio riempì la brocca di coccio accanto alla cucina. Poi accese il fuoco. Legna ce n’era 4

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abbastanza in casa, anche giornali, a portarli era unger, che veniva una volta alla settimana, le faceva la spesa e le sbrigava certe cose che lei aveva perso l’abitudine di chiedere. A modo nostro siamo invecchiati insieme, pensava Theresa. Pur vivendo separati. O proprio per questo. Andò verso il letto brancicando l’asse al di sopra della testiera. La casa non aveva che quell’unica stanza, al centro della quale stava la tavola. Sulla destra la cucina, di fianco il lavamano; sulla sinistra, diviso dal resto del vano con una tenda, il letto. di finestre ce n’era solo una, a destra della porta, e dava a oriente. L’asse al di sopra del letto faceva da calendario. Le tacche orizzontali nella parte alta erano i mesi, le verticali al di sotto le settimane, le altre orizzontali i giorni. Nell’ottava tacca in alto era fissato un cavicchio, un altro era nella terza per le settimane e un altro ancora nella quarta per i giorni. Theresa lo spostò di una tacca verso destra. Venerdì diciannove agosto, disse a voce alta. Oggi viene unger. Berremo del caffè. Il cane levò la testa, e lei si accorse che la stava guardando. Fame?, domandò. unger porta pappa fresca. L’acqua levò il bollore. Theresa prese uno straccio e tolse il paiolo dal fuoco. Il cane balzò in piedi e la guidò al lavamano. Non c’è bisogno, disse lei. chi vuoi che venga a spostare il lavamano? Sono vent’anni che è allo stesso posto. Non ti ricordi? No, non ti ricordi. Non è così tanto che stai qui. rimise il paiolo sul fornello, andò al lavamano, versò altra acqua, stavolta fredda, avendo accanto il cane a ogni passo. Era con lei da più di dodici anni, e quando lo aveva trovato era un randagio rognoso che stava cercando di sbranare una pecora; lei però lo aveva sentito ed era corsa fuori nella notte per scacciarlo. Prima con LA cASA PErduTA


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un bastone, poi tirandogli delle pietre. con una lo aveva colpito a un orecchio. Allora il mondo era ancora pieno d’ombre in movimento, pieno d’ombre chiare e scure. L’altra pietra, che aveva già in mano, non l’aveva scagliata perché lo aveva sentito guaire. Si curvò a dargli una grattatina tra le orecchie. rivide mentalmente il frutteto notturno e gli sforzi disperati dell’animale per procurarsi qualcosa da mangiare. doveva a tutti i costi trovar qualcosa da mangiare. doveva a tutti i costi sopravvivere. E invece era stata una pietra che dalla mano di lei aveva tagliato il buio colpendolo all’orecchio. La pietra era una cosa, la fame un’altra. O forse no, pensò Theresa, la fame e la pietra erano sempre un’identica cosa. Si lavò, si cambiò, e poi si mise seduta vicino alla tavola. Erano le otto. Le ci voleva parecchio a preparare tutto, e sempre più spesso era lì lì per lasciar perdere, ma il cane glielo impediva. Adesso le stava davanti, seduto, e lei incominciò a frugarlo. A volte gli trovava delle zecche nel pelo e le ruotava, piene di sangue com’erano, di qua e di là finché mollavano la presa. c’era il trucco, in questo. Bisognava prima versare una goccia d’olio sulla testa della zecca in modo da sigillarla, e non si doveva ruotare con troppa forza, altrimenti il corpo si staccava e la testa s’infilava sempre più a fondo nella carne, finché giorni dopo suppurava. Piccoli parassiti, pensò Theresa. dai piccoli ci si può difendere, è dai grandi che non ci si salva. Pensò un’altra volta a Haszler, a come gli aveva rinfacciato tutto quanto sapeva di lui. che truffava i suoi lavoranti e che per poco non aveva fatto morire sua madre. Nel 1945, senza medici e medicine, un neonato così enorme, di quasi cinque chili, con una testa taurina. Non respirava e non piangeva, con la testa aveva squarciato 6

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