La città nello specchio

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La cittĂ nello specchio Notturno familiare



XXI

Nonna Jelica amministrava le faccende domestiche quasi come un “registro contabile”; la casa era sempre pulita, le stanze da letto profumavano, tagliava e potava lei stessa il pergolato e gli alberi intorno, faceva da sola il formaggio e il burro, filtrava il miele, raccoglieva e lasciava seccare le foglie delle piante medicamentose, scrivendo su ogni scatola il nome specifico. Il miglior regalo per lei era quando qualcuno le portava una bella scatola vuota, di vetro o di latta leggera, con dentro caramelle o dolcetti, così si affrettava a trasferirvi le erbe dai sacchetti di carta in cui le conservava, aggiungendo la ricetta, scritta a caratteri ben chiari, dei vari infusi e dei tanti disturbi da cui guarivano. Anch’io del resto curai la mia tosse asinina con un tè della nonna a base di sambuco nero, o come lo chiamava con qualche termine locale la mia bisnonna Petruša, e spesso mi facevo dei gargarismi alla salvia. Essendo il suo unico nipote ero privilegiato e viziato; non c’era mio desiderio che non venisse esaudito. Le sue due figlie, Pava e Ivka, non le vedeva da molti anni, né aveva più saputo niente di loro; la sola che veniva a trovarla ogni tanto era zia Ruža, sposata a Cetinje, e riconosco di avere spesso esultato in cuor mio per la sua sterilità, dal momento che i suoi figli sarebbero stati miei concorrenti e rivali al cospetto della nonna, e se poi avessero avuto l’indole dello zio mi sarebbero stati anche antipatici. Questo zio, il marito di Ruža, solo in due occasioni venne a far visita alla nonna, perché il nostro paese non gli piaceva; mi ricordo che una volta, ero ospite da lui, disse che tutta la nostra regione «sapeva di sego», allora non conoscevo il significato di questa perfida espressione, solo in seguito lo capii e fu più che sufficiente per disprezzarlo; 108 109


non andai mai a rendergli visita a Cetinje, pur avendo soggiornato più volte e a lungo in quella città per realizzare un documentario e raccogliere materiali per un racconto sulla storia dell’Istituto femminile dell’imperatrice Marija Aleksandrovna, fondato nel 1869 come prima scuola media femminile in Montenegro. Mi trovavo a Cetinje anche quando mio zio morì, ma non andai al suo funerale. Quanto ad “allevare il bestiame”, espressione con cui era abitudine definire anche gli animali da cortile, di stretta proprietà domestica, la nonna Jelica teneva delle galline, ogni anno tirava su un maiale e aveva una mucca dal mantello dorato di nome Zlatka; talvolta, al riflesso del sole sembrava avesse preso fuoco. Pensavo allora che quella mucca fosse la più bella, completamente diversa da tutte le altre, era pulita e sotto la coda non c’erano mai pezzi di sterco incrostato, né aveva mai le zampe posteriori sporche. Muggiva con vigore e non con il solito tono sordo e dimesso; noi ne distinguevamo subito il muggito individuando la sua posizione nel pascolo. Quando la chiamavamo, la nonna o io, rispondeva subito venendoci incontro e noi le davamo crusca e semola per ricompensa. Da ultimo le davo sempre un pugno di sale direttamente dalla mia mano, era una soddisfazione che la nonna lasciava a me sapendo quanto mi facesse piacere sentire la ruvida lingua della mucca leccare il palmo della mia mano. Avevo anche imparato a mungerla, e lo facevo stando in ginocchio, mentre la nonna svolgeva quell’operazione sempre seduta sul suo treppiede. Quando la mungevo io, la mucca non smetteva mai di osservarmi, a differenza di quando lo faceva la nonna, perché in quel caso neppure si voltava. Mi piacevano pure gli altri animali, soprattutto un galletto spavaldo, che aveva il coraggio di attaccare le bisce, anche se la vera regina di quella piccola proprietà era la mucca, con lei si poteva persino conversare, capiva un sacco di cose, tanto che io le sedevo spesso accanto mentre ruminava, e quando mi lanciava qualche sguardo ammiccante io mi sentivo felice. Sono certo di non averla mai colpita col bastone, semplicemente perché non ce n’era bisogno. D’estate non mi alzavo presto, mi godevo le vacanze, ed era la nonna che all’ora della rugiada conduceva la mucca “in disparte”, come chiamavamo La città nello specchio


il pendio del monte, screziato di prati da fieno, vere e proprie oasi in quella pietraia, mentre prima che facesse sera ero io a ricondurla nella stalla, ma solo quando si allontanava troppo e raggiungeva i pascoli più alti, sicché non riusciva a sentire i miei richiami. Le rare volte in cui si perdeva, se non rispondeva col suo muggito alle mie grida di richiamo, sentivo il bisogno di mettermi a correre sul sentiero, spesso in preda al panico per l’imminente arrivo del buio. E se mi imbattevo in qualche pastore, mi fermavo a chiedere notizie della mucca, quando l’avessero vista l’ultima volta e dove. Fra di loro c’erano anche dei nostri cugini che sghignazzavano sentendomi parlare con accento forestiero; talvolta capivano alcuni miei termini dialettali, e si divertivano a ripeterli. Del resto anche in casa chiamavo komin il focolare e kominata il cammino. Simili espressioni le usavo soprattutto quando la bisnonna Petruša era ancora viva, perché ciò la metteva di buon umore, tanto che insisteva a farmi ripetere quelle parole che le ricordavano l’infanzia; sapeva anche lei tante parole insolite e sconosciute per il mondo in cui era venuta a trovarsi da sposata. Quando aveva voglia di un bicchierino di acquavite chiedeva uno žmulić, un “cicchetto”, e sia quelli di casa sia gli ospiti si mettevano sempre a ridere dandole un pezzo di legno o qualcosa di simile, e facendo finta di non aver capito. Dopo le ore di lezione la maestra era solita trattenermi in classe, mi porgeva un libro dicendomi di restare almeno finché avessi provato interesse per quanto leggevo. Ho sempre avuto l’abitudine di leggere in fretta, ma allora, avevo dodici anni, leggevo davvero senza sosta, le parole mi erano note e non avevo bisogno di chiedere aiuto a nessuno, né di domandare alcunché. Poi la maestra mi invitava a casa sua, che si trovava sul retro della scuola, anzi, era in parte addossata allo stesso edificio. Di quel posto conoscevo bene ogni angolino, tranne la stanza da letto, che era sempre chiusa a chiave. D’inverno vi portavo dei fasci di legna mettendoli nella cassetta accanto alla stufa. La maestra Jozipa B. aveva ventitré anni, era bellissima e in testa portava spesso un turbante di panno color verdognolo. Dicevano tutti che perdeva i capelli e che soffriva di una malattia incurabile. Anche mia madre mi aveva detto che la 110 111


maestra era stata assunta nel nostro paese affinché, godendo dei benefici che offriva questa amena località, allontanasse il pensiero della morte. Una volta andai da lei e la trovai senza turbante, con i capelli sciolti sul petto. Erano capelli privi di qualsiasi lucentezza, come morti, tuttavia folti e accuratamente pettinati. Aveva una gamba appoggiata su una sedia e le ginocchia scoperte, e si mise a guardarmi toccandosi con la punta delle dita le labbra umide. «Vuoi tirarmi i capelli?» mi domandò, e io reagii con una risata, perché ero di buon umore e quella visione mi colmava di gioia. «Dài, tirameli» disse. Afferrai un ciuffo, lo tirai con forza e strappai letteralmente dalla testa tutto quel bouquet di capelli morti. Non mi ricordo se mi misi a gridare, so solo che mi presi un bello spavento davanti alla sua testa completamente pelata. Continuai a tenere la parrucca fra le mie mani, mentre la maestra rideva lisciandosi delicatamente il cranio col palmo della mano, come se godesse della sua calvizie. Non so perché, ma quello “scalpo” mi aveva sconvolto. La sua testa perfettamente ovale mi sembrava così piccola; fino a un attimo prima pareva ancora pulsare come qualcosa di vivo, rivestito da una lunga chioma, per quanto finta, e invece di colpo mi si era parata davanti la morte, colei che riduce ogni individuo al silenzio. Fu proprio allora, avevo dodici anni, che provai per la prima volta una reale, autentica sensazione di morte.

La città nello specchio


XXII

Nella casa di mia nonna Jelica c’era un bellissimo specchio antico, che si distingueva dal resto dell’arredo non solo per il suo sfarzo, ma anche per la sua storia, e per i tanti racconti misteriosi e strani che lo vedevano coinvolto. Mio nonno Tomo ne sapeva abbastanza in proposito, sin da quando quella suppellettile era entrata come pegno di dote nella casa di L. Sua madre Petruša era d’altronde una «ragazza di Konavle, figlia dei Radonjić», i suoi antenati, in tempi lontani, erano stati vetrai di fama falcidiati a un certo punto dall’epidemia della “morte nera”, e da oltre mezzo secolo non c’era più nessuno a rinverdire i fasti di quell’antico mestiere. Petruša amava raccontare che i loro manufatti in vetro, che abbellivano molte case di famiglie in vista, erano arrivati fino a Istanbul, e lo specchio che aveva ricevuto in dote era stato registrato presso un notaio di Dubrovnik come opera di uno dei suoi antenati. Durante i suoi ultimi giorni di vita, Petruša, aveva ormai novantotto anni, rimasi sempre al suo capezzale. Un attimo prima di morire mi chiese di bagnarla con dell’acqua contenuta in un piccolo secchiello di cristallo. Lo specchio si era portato dietro in quella casa anche altri oggetti di pregio. Si trattava soprattutto di bottiglie dalle varie forme, prevalentemente tozze e basse, simili a nanetti trasparenti, oppure bottigliette eleganti a forma di goccia, o ancora piccole damigiane impagliate o nude che noi chiamavamo “zucche”, e poi fiaschette e tanti altri contenitori in vetro. E assieme alle bottiglie erano giunte nuove parole quali patrina, ingastara, caraffa e altre ancora, così come assieme alla bisnonna, una donna peraltro semplice e ignorante, era arrivato il soffio di un mondo diverso, che avrebbe lasciato 112 113


traccia di sé sull’intera discendenza, tanto che da quel ramo materno si sarebbero sparsi per il mondo individui istruiti e di talento, tra cui artisti, medici, scienziati, persino futuri alti ufficiali dell’esercito americano. Nonno Tomo aveva in serbo una gran quantità di storie su quello specchio; io le prendevo tutte per buone e lo ascoltavo volentieri, sebbene sua madre Petruša ripetesse che erano invenzioni e bugie, ma lui sapeva essere convincente e sicuro di quel che andava dicendo. Nessuno come me stava a sentirlo con così tanta attenzione. Il nonno lo capiva, e proprio per questo aveva l’abitudine di portarmi con sé nei campi o vicino alla sorgente raccontandomi poi per ore che gli specchi sono creature vive come l’acqua, e che qualsiasi cosa li attraversi s’intorbidiscono come i fiumi. Nella sua infanzia, il nonno aveva avuto modo di sentire più volte un fragore simile a quello di una cascata provenire proprio dallo specchio, e ciò aveva l’effetto di farlo addormentare. C’erano stati momenti in cui nessuno riusciva a riflettersi nello specchio o vi scorgeva solo una parte del proprio viso. Ad ammaliarmi di più era comunque la storia di come, sul far della sera, dalla cima più alta che sovrasta L., per un attimo, e precisamente nel momento in cui il sole ne lambisce il fianco a ponente, fosse possibile vedere riflessi nello specchio i contorni della città di Dubrovnik: un’immagine sospesa nell’aria e destinata a scomparire nel momento stesso in cui il sole scivolava sotto il monte. Lo specchio serba memoria di tutto ciò che in esso si riflette, ma offre talvolta all’“occhio dell’anima” solo una parte della ricchezza di immagini che ha catturato. «È un’immensa raccolta di riflessi imprigionati.» Desideravo vedere a ogni costo quel breve, fulmineo bagliore di Dubrovnik; una volta rimasi per ore a fissare lo specchio in attesa che il sole toccasse l’orizzonte, poi mi prese una specie di eccitazione e mi sentii invaso da un dolce tremore, i raggi mi sembravano accecanti e lo specchio come sul punto di incendiarsi, ma proprio in quell’istante riuscii a vedere i contorni della gloriosa città, le sue mura e le sue torri, la Colonna di Orlando spuntare da dietro alle mura, levarsi lentamente verso l’alto, offrirsi ai miei occhi in tutta la sua maestosità e poi via via calare fino a recuperare la posizione originaria. La città nello specchio


Quando raccontai al nonno la mia visione, mi guardò sospettoso e incredulo, come se mi avesse sorpreso a dire una bugia o a rubare qualcosa, come se mi fossi impadronito di qualche sua magia, poi mi fissò attentamente e disse con voce tenebrosa: «Ora anch’io vedo una piccola parte della città riflessa nei tuoi occhi».

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