Il ritorno di Filip Latinovicz

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Miroslav KrleĹža

Il ritorno di Filip Latinovicz nuova edizione riveduta e aggiornata

Prefazione di Predrag Matvejević A cura di Silvio Ferrari



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Filip abitava in un edificio di cinque piani dove tutto odorava di grasso d’oca, di lampade a gas e di bambini, e l’ascensore aveva un aspetto lugubre, come un carro funebre a vetri in un funerale di second’ordine: una cassa da morto laccata di nero, imbottita di scura felpa lisa. Stare in piedi accanto alla finestra a fissare il crepuscolo annerito, questa era stata la vita di Filip negli ultimi due o tre anni: guardare i bambini malati, col collo fasciato, mentre ricalcavano disegni sul vetro della finestra, per giorni interi. Come sono bui gli appartamenti umani, che fetidi letamai sono gli appartamenti umani, dove i bambini infagottati in pezze di flanella ricalcano stupidi disegni tenendo le mani in alto, infaticabilmente, per interi giorni di pioggia. I comignoli, i tetti, un velo di caligine come una tenda calata sopra i muri bui, e ogni macchia di caligine lascia un’impronta, come una cimice. E il fumo grigio e giallastro e sporco si trascina sopra i tetti come un cane affamato che vaga per il paese, pesante come un sacco di cemento e verde come acqua fangosa. I coperchi dei camini caliginosi al vento, gli archetti delle linee tramviarie, le strade bagnate, grigio scure, la semioscurità. Filip sta accanto alla finestra e pensa al fatto che tutte quelle stufe a carbon coke e gli idranti e i gasometri, così stupidamente ammucchiati in un solo luogo, non abbiano in fondo alcun senso: tutti questi apparecchi da civiltà industriale sono sporchi come cessi e bisognerebbe tenerli lontani dagli appartamenti dove vive la gente, sono cumuli di rifiuti e di materia greggia! Sussurrano le condutture dell’acqua, piangono i rubinetti del gas, squillano 31


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i telefoni e ronzano i fili di rame sui tetti. Sbattono i portoni, riecheggiano strumenti musicali, latrano i cani, e da qualche parte nel muro risuona monotona sempre la stessa goccia d’acqua, a intervalli regolari, come un rintocco d’orologio. I canti delle goccioline, l’eco di passi umani nei corridoi non illuminati, voci che vengono dalle lontane profondità dell’edificio a cinque piani, il pianto di un disco di musica negra sul grammofono, e la tensione vibrante dei nervi di Filip in questo inferno sonoro che ronza attorno a lui; e lui ha cessato di comprendere perché tutto questo stia accadendo e per quale ragione egli non abbia la forza di opporsi a tutto ciò che lo circonda per cominciare a fare di se stesso e della vita che gli sta attorno un qualcosa di nuovo. Lì sotto i suoi piedi si allarga la gigantesca metropoli avvolta in una nuvola di caligine e fumo, nel crepuscolo di febbraio, e questa è la tanto rinomata Europa, la terra dorata e benedetta, con le sue calde e azzurre baie del Sud dove fioriscono le arance, e le orribili, nebbiose fortezze del Nord dove i bambini soffrono di angina e sulle strade bagnate si trascinano le ragazze scrofolose. Quanto sono tristi le Igee di gesso nelle vetrine impolverate delle farmacie! Come i giocattoli di latta per bambini, sottili e trasparenti e privi di senso, così sono gli steccati degli schemi mentali che gli esseri umani mettono fra sé e la verità della vita e la vera realtà. In effetti sono come i mattoncini dei giocattoli infantili, le religioni, gli assurdi usi natalizi, idilli che introducono il culto della pura menzogna, e da ogni parte spunta la merce: comprate margarina, cioccolata, arance, vaniglia, tessuti, gomma! Gli uomini hanno inventato la tappezzeria, i tappeti, il parquet, i tubi dell’acqua calda, le porte a vetri, i pesciolini dorati, i cactus e intere vetrine di libri nei loro appartamenti che nessuno mai legge. Gli uomini hanno ammucchiato sotto i loro tetti la maiolica cinese, gli acquerelli, le tovaglie damascate, le calze di seta, le pellicce e le pietre preziose. La gente si dipinge le unghie come gli antichi orientali, fa il bagno in vasche di marmo, viaggia in carrozze riscaldate, beve amari e liquori digestivi, ma in fondo non ha nessuna idea di cosa sia la realtà della vita e di come viverla. 32


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Sempre più sovente e sempre più intensamente gli balenava l’idea, negli ultimi tempi, di venir via da tutta quella fuliggine e quella puzza, e di andarsene a casa, in Pannonia, là dove non era più tornato. E trascorrere laggiù, da sua madre, nella vigna di Kostanjevec, un autunno ricco, placido, un’annata buona per il vino! Il vento del Sud tinto d’inchiostro, il pallore della luna, la notte tiepida e il vibrare lontano delle luci nella vallata. Le chiome nere delle querce ai crocicchi, le stelle tremolanti dietro alle macchie di nebbia, e qua e là, nei vigneti lontani, qualche sparo isolato che riecheggia a lungo nei burroni e nei campi per spegnersi poi nel fosso accanto al mulino come un tuono lontano. Il silenzio dei campi. Qua e là si sente frusciare una foglia di granoturco, come se fosse passata sul sentiero una donna con la sottoveste inamidata. Scorrono le acque pannoniche, sporche, fangose, gorgogliano sotto i ponti, e sul tronco del pioppo pende muto il crocifisso di latta, sotto una piccola tettoia di legno, chiuso con dei fiori di carta dentro a una cassettina, come in una bara di cristallo: lì si metteva un cieco a piangere e a suonare la fisarmonica, e ora c’è silenzio, non c’è nessuno. Dorme la Pannonia, e non c’è fuliggine, né fretta, né nervosismo. Là le notti sono silenziose come una pipa spenta: senza luci, senza fumo, senza cenere. Solo i cani si aggirano di notte lungo gli steccati, con la coda bassa, la spina dorsale arcuata, tesi sulle zampe anteriori e pronti al balzo, con gli occhi che brillano, amanti delle siepi e dei fossati, presi nella rete degli odori e delle tracce fresche: qui l’odore delle opanche, là di un osso marcio, più in là ancora il recinto e dietro il recinto la giovane anatra nel pollaio. Filip si lasciava andare a lungo alle sue oscure fantasticherie, finché una notte sentì che era giunto il momento di muoversi. Sopra lo strato di fuliggine che aleggiava sulla stazione piena di fumo spuntava il quadrante illuminato dell’orologio; quelle lancette nere, sulla superficie luminosa di vetro arancione, risvegliarono in Filip il senso del tempo, sentì che il tempo passava e che sarebbe stato bene partire. E così si mise in viaggio e per questo motivo ora siede al caffè di Kaptol, tra le volute di fumo della sua sigaretta e i cerchi delle sue stanche fantasticherie sulla transito33


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rietà dell’uomo nello spazio e nel tempo, e sull’inconcepibile immensità della vita rispetto a questa fugace presenza che si chiama soggetto, e rispetto a quei minuscoli dettagli, del tutto insignificanti, addirittura inesistenti al di fuori del soggetto, che costituiscono la sfera di conoscenza di questo soggetto, il quale di per sé non è che un dettaglio di una serie di dettagli, e tutto per la verità è un ampio movimento carico di stanchezza e dolore. Dov’è la prova che il nostro “io” dura? Che noi continuiamo a essere durevolmente e ininterrottamente “noi”? Dov’è in effetti la nostra misura? E se Filip in quanto soggetto non avesse lasciato per sempre questo posto sudicio e arretrato undici anni prima, quando sedeva per l’ultima volta in questo fetido caffè aspettando il treno? Allora aveva accanto a sé, sulla seggiola, un involto di carta da giornale legato con lo spago: una camicia e uno spazzolino da denti. La camicia si è consumata e lo spazzolino da denti non c’è più, e la sua carne (in generale la struttura del suo corpo), tutto quanto è cambiato ormai da molto tempo, e come può provare ora, su quale base, che lui è lo stesso uomo che undici anni prima si agitava nervosamente aspettando il momento in cui avrebbe lasciato ogni cosa alle sue spalle? Nome e cognome, lo stato civile accanto a un certo nome e cognome, restano solo contrassegni esterni, i più superficiali! Misure convenzionali, ottuse, borghesi! Come potrebbe Filip convincere “se stesso”, con una garanzia degna di fede e fuor d’ogni dubbio, riguardo alla vera misura di “se stesso”? Il viso? Ma se questo viso è completamente mutato! I gesti? I suoi gesti di oggi sono quelli di un uomo completamente diverso! La continuità fisica? Nel suo corpo non resta nemmeno un atomo della condizione fisica di undici anni fa! Sul muro di fronte a Filip c’era un’enorme specchiera da caffè con una cornice dorata e ai lati due mensoline dorate con sopra due cariatidi stile impero che reggevano sulla testa due vasi greci, anch’essi dorati, con piume di pavone e foglie di palma. Nella prospettiva dello sporco amalgama della specchiera, nello spazio che si allungava in profondità sotto lo strato d’argento, si vedeva tutta la sala: i due parallelogrammi verdi del panno del biliardo, 34


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Il ritorno di Filip Latinovicz

la spazzina gobba che portava via le schedine della tombola perforate, le stelle filanti e i coriandoli, il garzone del fornaio a capo scoperto che contava i panini sul tavolino rotondo di marmo prima di darli alla cameriera insonnolita. E lì, in primo piano, proprio davanti al vetro grigio e torbido un uomo pallido guarda all’interno del caffè, affaticato dalla notte trascorsa senza aver dormito, con i capelli che cominciano a incanutire, con le occhiaie profonde e la sigaretta accesa tra le labbra, irritato, spossato, agitato dal fremito, che beve del latte tiepido e sta meditando sull’identità del proprio “io”. Quest’uomo ha dei dubbi sull’identità del proprio “io”. Quest’uomo ha dei dubbi sull’identità della sua stessa esistenza, è arrivato stamattina da un lungo viaggio e sono undici anni che manca da quel caffè. Che strano! Un “qualcuno” indefinito siede in uno specchio, chiama se stesso “io”, porta dentro di sé da anni questo torbidissimo “io”, fuma, e fumare gli fa schifo, sente un attacco di nausea, una fitta al cuore, un dolore alla testa, degli strani cerchi verdognoli girano davanti ai suoi occhi e tutto si è messo a ruotare confusamente, e tutto è così casuale, così indeterminato, così stranamente fluttuante: essere soggetto e sentire l’identità del proprio soggetto! In modo del tutto automatico, accorgendosi che quel pallido sconosciuto stava fumando e che quella era sicuramente la cinquantesima sigaretta che fumava dalla notte passata, Filip afferrò la sigaretta accesa che gli pendeva dalle labbra e gettò quella puzzolente cartina accesa nel portacenere, sentendo solo allora che la nicotina gli stava colando in gola come catrame e che la sua lingua era ricoperta da una patina schifosa. Prendendo ancora un sorso di latte, travolto da un’ondata di pensieri contraddittori che nascevano in lui per opporsi a quell’inquietudine ipocondriaca (come se una parte della sua personalità andasse appunto in direzione contraria), Filip inspirò un fiotto di corrente ventosa che, come il fresco respiro di un mattino di primavera, aveva attraversato la spessa nube di fumo, di vino versato e di olio da pavimenti. Certo! L’identità di un soggetto non si può determinare dal 35


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suo viso, né dalle smorfie, né da un qualsiasi segno esterno. Il viso, le sue fattezze, i movimenti del corpo non sono certamente più i movimenti o le fattezze del corpo di undici anni prima, e tuttavia la continuità del suo “io” esiste da qualche parte, nel profondo, celata, oscura, ma autentica e intensa! Sono quei passeri sul vecchio noce del cortile, lo sbattitappeti di Karolina, l’odore del negozio nella via Fratarska, la livrea da servitore di camera che marcisce nel cimitero dei frati, la barchetta di carta da giornale naufragata nel canale sotto la grigia finestra al pianterreno, dov’era rimasto a guardare i cavalli inglesi! Quell’inafferrabile identità si muove qui, sotto il suo abito di panno inglese, questo involucro esterno che lascia sentire il tic tac del suo orologio sotto le pieghe del panciotto, sotto questa carne, queste dita inquiete, agitate dal fremito (nelle quali sente ogni battito del suo cuore, e sulla punta delle dita il freddo contatto del tavolino di marmo del caffè), sotto questo fitto intreccio, dietro il velo dei nessi trasparenti, nel tessuto incomprensibile di questa situazione, da qualche parte che lui copre, segretamente nascosta, batte e palpita la sua identità e non è un fantasma, ma carne, l’ambiente del caffè, il bicchiere di latte, la realtà del mattino e del ritorno. Il tessuto dell’abito scalda la sua carne, e dell’acqua avverte il freddo al contatto con lo smalto dei denti, e l’acqua sgocciola dal bicchiere sul palmo della sua mano, e non è sgradevole. L’orologio fa tic tac nel panciotto e la molla si muove con regolarità, lui beve dal contenitore di celluloide, sorseggia il latte tiepido e sente sulla sua pelle la morbida camicia parigina… Qui effettivamente sono cambiate molte cose negli ultimi undici anni, e dalle fondamenta. L’ultima volta che si è trovato in questo odioso caffè tutto intorno a lui e dentro di lui era molto più triste di stamattina. Allora aveva rotto nuovamente e definitivamente con sua madre, partiva verso l’ignoto, affamato, lacero, giovanilmente e stupidamente inesperto, un uomo che non sapeva nemmeno lui cosa voleva, e oggi, davvero, non è più quello stesso “io”! Dallo specchio lo osserva un altro viso; a fronte di quel giovane avventuriero lacero, tubercolotico, datosi al bere, ingegnosamente cosciente di se stesso, oggi sta un si36


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gnore vestito di panno inglese, un po’ canuto, ben lavato, che viaggia in vagone letto e nel guardaroba della stazione lo attende il suo bagaglio di pelle di cinghiale con la fodera di pelle scamosciata. Ma fra questi due uomini: il tubercolotico ubriaco con una sola camicia e lo spazzolino da denti, e questo signore che tiene nel portafoglio la lastra del suo polmone sinistro (radiografato in un sanatorio di lusso della Svizzera meridionale) esiste tuttavia un ponte invisibile: sono queste immagini e questi oggetti che lo circondano! La specchiera con la cornice dorata e le due cariatidi con le piume di pavone, questo fangoso angolo della Pannonia, l’aspetto desolato di Kaptol, con i tulipani e lo scoiattolo in gabbia nell’aiola rotonda sotto il lampione; questo caffè, la campana dei frati dal suono dolente, che da anni piange vanamente sui palchi vuoti delle case e sui comignoli! Filip è tornato stamattina a una sua vecchia e mai dominata immagine, alle vecchie preoccupazioni e inquietudini, e di qui questa tristezza dentro di lui e questo abbattimento, come se si fosse risvegliato nella sua propria tomba. Di fronte al caffè, sotto le vecchie mura della fortezza imperiale del principe Eugenio, i primi castagni sono già in fiore: i mattoni della fortezza, il cui rosso contrasta con il verde acceso dei prati ben rasati, sono oggi gli unici testimoni della gloria dell’antica fortezza, un tempo celebrata nei versi dei poeti di tutta Europa come una delle pietre angolari della civiltà occidentale. Lì il signor sindaco nonché capo dei vigili del fuoco ha piantato le viole del pensiero intorno al padiglione della musica, e sulla casa del calzolaio Boltek è scritto a caratteri cubitali, per tutta la lunghezza del tetto: HUMANIC. La casa a due piani dell’avvocato dottor Siebenschein, con la veranda all’angolo come si usa a Norimberga, è ancora l’unico edificio a due piani da questo lato del viale, e questa strada fangosa, scendendo per la via Fratarska, porta a Kravoder e poi a Bikovo e a Biškupec e, passando per Lisjak, Jama e Turčin, arriva nel paese di Kostanjevec, proprio dove è diretto lui, per vedere la sua signora madre, la negoziante Regina, che possiede laggiù una casa a un piano, una vigna e una casetta nella vigna, 37


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e lo chiama con le sue monotone lettere, già da alcuni anni. Ora finalmente è partito, ora siede sotto questa tremenda specchiera mentre aspetta un cocchiere, e in verità tutto è superfluo e stancante e triste. E la cosa più triste è là, nelle aiole sotto i platani, quella donna di marmo, inclinata sopra un’urna, che ricorda le statue dei monumenti funebri mentre non è affatto un monumento funebre, perché è la statua della Vittoria che depone una palma ai piedi della piramide della “Grande Epoca 1914-1918”. Qualche sconosciuto ha raschiato via dal piedistallo le parole “Grande Epoca” e così ora la Vittoria langue avvolta nel velo senza la patetica scritta. Alla cerimonia di inaugurazione del monumento, Filip stava irrigidito nella doppia fila della guardia d’onore, stretto dalle bandoliere e dalle giberne, tenendo il calcio del fucile con le cinque dita come incollate al legno di quercia ferrato, mentre un signore in caffettano, con l’ombrello, pronunciava un discorso sulla nota dichiarazione di Pressburg di Maria Teresa, e il tamburo dava colpi sordi, come fosse rotto. Contemplando la donna di marmo inclinata, un’opera dilettantistica della tarda secessione, assai mediocre, Filip si lasciò andare a pensieri totalmente lontani. Cominciò a pensare al fatto che i migliori esempi del carattere superfluo di tutta l’arte di circostanza, e soprattutto della scultura, si trovano nei viali di provincia, dove sorgono i piedistalli di vari monumenti ai caduti, a suo tempo eretti a ricordo di eventi gloriosi e oggi spogliati di tutto ciò che li ammantava di grandezza, e quel che rimane sono delle statue piccole e deboli (più che scolpite dalla mano dello scultore sembrano lavate con la spugna bagnata), in sostanza un povero inganno d’artigiano, paccottiglia! Tutte quelle aquile e sentenze, tutto quel rimbombo sonoro e invadente dove il bronzo è una levata di spade e la statua una chiamata alle armi; bisognerebbe guardare ogni cosa a distanza, dieci o quindici anni dopo: un lasso di tempo breve, sì, ma come mutano le prospettive! Lui se ne stava lì, irrigidito dal cinturone e dal piombo, e oggi non ricorda più niente e nessuno di quel giorno. Solo questo ricorda, che pioveva, e che il tamburo dava colpi sordi come fosse rotto. La pesante, fitta, grigia nebbia pannonica s’è mangiata tutto. 38


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Come succede di solito in queste occasioni, non c’erano carrozze da nessuna parte. Un fiacre aveva condotto un certo “signor geometra” alla commissione; a casa dell’altro cocchiere, che viveva in una piccola stanza verde chiaro, Filip trovò una vecchietta sdentata accanto alla stufa che gli disse, mentre masticava e inzuppava un panino in un bricco di caffè da mezzo litro, che il papà sarebbe tornato nel pomeriggio, ma quando esattamente, lei non sapeva dirlo. Rimaneva ancora una possibilità: telegrafare a Kostanjevec di mandarlo a prendere e passare una notte in albergo a Kaptol. Stanco per la mancanza di sonno, inquieto dopo due lunghe giornate di viaggio, provando un senso di repulsione all’idea di una stanza d’albergo piena di cimici, profondamente depresso, con il solo desiderio di andarsene al più presto da quel dannato angolo, Filip cominciò a vagare per le stradine grigie e sinuose dietro al viale, osservando i granai chiusi, i mucchi di letame, i covoni di fieno e le pannocchie di granoturco nei campi, e in mezzo a quel sonoro idillio mattutino si sentì perso e incapace di prendere una qualsiasi decisione. Dall’altra parte della strada risuonava la voce dell’incudine: nel cortile del maniscalco stavano ferrando una cavalla della Podravina, grassa, sazia, stranutrita, cocciuta, con dei nastrini azzurri alla criniera. C’era rumore di ferraglia, e odore di carbone e di unghie bruciate. Vide un fiacre giallo: poteva essere un’occasione. Si trattava del cocchiere di Biškupec, Joža Podravec, che la sera prima aveva portato la governante del reverendo dalla canonica al ra39


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