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Parigi, aprile 2005 In quella stanza tutto era massiccio. I soprammobili erano di bronzo e di pietra, i posacenere di cristallo e alabastro, le pareti di marmo e il volto del procuratore pareva di legno. «In altre parole, non c’è lo straccio di un movente.» «È così.» «Lei si è fatto alcune idee?» «Se ci fossi riuscito, avrei saputo orientare meglio le indagini. Invece abbiamo sparato a salve in tutte le direzioni.» «L’ articolo di quel tale…» «Jossin.» «…che dice che Loudmer era un trafficante d’armi.» «Nessun riscontro. Quell’articolo ci ha fatto sprecare una settimana di indagini. No, quel Loudmer non trafficava in armi ma in titoli e nei suoi traffici, per quanto ne sa la Finanza, non c’era niente di illegale.» «Jossin sostiene che Loudmer frequentava Courot, che è un fabbricante di tondini di ferro ma anche di mine.» «Jossin è venuto a sapere che quei due si frequentavano al golf club e ha imbastito una storia basata su supposizioni. Quello che Jossin ignorava è che i due avevano lo stesso handicap e si sfidavano in continuazione per sopravanzarsi nella classifica sociale. Così, una sfida oggi, una sfida domani, erano diventati quasi amici.» «Perché Jossin ha finito di rompere le scatole?» «Gli ho parlato.» Desclos, seccato col giornalista che era andato ripetendo per quasi due settimane che la polizia, nonostante le sue indicazioni, non riusciva a risolvere quel caso, lo aveva convocato al Loop


Quai e gli aveva sventolato in faccia due foto che ritraevano suo figlio diciottenne abbracciato troppo stretto a un amico in un club esclusivo. Non ci sarebbe stato niente di male, due ragazzi possono bene esibire moti di affetto reciproco, i calciatori ne abusano a ogni gol… Ma in quelle foto, sullo sfondo, altro non si vedevano che coppie di ragazzi mosse dallo stesso affetto reciproco. Così Desclos, in modo tutt’altro che suadente, aveva detto a Jossin che, se non la smetteva, quelle foto le avrebbe lasciate cadere a pioggia su tutta Parigi. Desclos non sapeva che stava sprecando tempo perché, pochi giorni prima, Courot, il fabbricante di mine, aveva agganciato il giornalista e lo aveva informato che, se non la smetteva, se ne sarebbe ritrovata una nella tazza del cesso. Vibrò il cellulare nel taschino di Desclos. Questi lo estrasse e ammiccò al procuratore, come a chiedere il suo permesso. Colse un cenno di assenso e rispose. Era Babette, uno della scientifica. Desclos ascoltò senza commenti e salutò prima di staccare. «Abbiamo trovato un’impronta» annunciò. «Sono io che le porto bene o ha fatto apposta a farsi telefonare la notizia mentre eravamo insieme?» Desclos sorrise. «Loudmer aveva preso il métro come faceva tutti i giorni per recarsi presso la sede della sua finanziaria, alla Bastille. Quel giorno pioveva a dirotto. L’ assassino aveva previsto di ucciderlo in mezzo alla ressa. Se pioveva, tanto meglio. È sbucato dietro alla sua vittima. Prima che questa aprisse l’ombrello, ha sollevato il suo. Impugnava una pistola con un vuoto di Evian per silenziatore e ha fatto fuoco attraverso la tela. Dopo lo sparo ha finito di aprire il paracqua ed è tornato verso il métro. Si è sbarazzato subito della bottiglietta, che abbiamo trovato giù per le scale, in un cestino, senza uno straccio d’impronta. Si è sfilato i guanti e poi, con comodo, ha preso la linea per la Défense e ha abbandonato l’ombrello su una vettura. Gli addetti alle pulizie lo hanno trovato e se lo sono perso. Ci sono voluti quindici giorni per ritrovarlo, le risparmio tutto quello che Guichard e i suoi hanno dovuto fare… È stato facile riconoscerlo, aveva un buco e tracce di polvere da sparo. Lo abbiamo passato alla scientifica, erano in un brutto momento, abbiamo perso altri giorni. Alla fine hanno trovato due impronte ancora nitide. Gli addetti alle 114 115


pulizie usano i guanti, ma abbiamo verificato lo stesso che non si trattasse delle loro. Quindi, delle due l’una: o le impronte appartengono a un passeggero che ha raccolto l’ombrello e lo ha abbandonato dopo aver visto che era bucato, oppure sono del nostro uomo che, sentendosi al sicuro, si è tolto i guanti prima di liberarsi dell’ombrello. Le impronte sono quelle di un indice e di un pollice contrapposti e stanno sul tratto rettilineo del manico, quello che viene nascosto dalla tela a ombrello chiuso. Appartengono alla mano destra di un uomo.» «Il buco era visibile a ombrello chiuso?» «Non era visibile.» «Allora, se un passeggero avesse trovato l’ombrello, l’avrebbe portato via. Non credo che lo avrebbe aperto in metropolitana per controllare se era buono.» «È vero, c’è da essere ottimisti» rispose Desclos, sorpreso per il ragionamento del suo capo. «Sapete da dove viene l’ombrello?» «Si tratta di un modello acquistato in Inghilterra. Spediremo le impronte anche a Londra, fosse il caso che il sicario lo abbiano fatto venire dal Regno Unito.» «Quindi» riassunse il procuratore «esiste una traccia che conduce in Inghilterra?» «Se quelle impronte non si trovano nemmeno là, la traccia ci condurrà su un binario morto.» «Qui in giro è pieno di giornalisti. Abbiamo da dire qualcosa che non sembri aria fritta?» Desclos intuì che i giornalisti erano lì perché qualcuno aveva lasciato trapelare la notizia di quell’incontro e si complimentò in cuor suo con il capo, sempre abile nel cavalcare la tigre della pubblica opinione. «Possiamo rivelare che l’affare sta assumendo rilievo internazionale. Che esistono tracce che ci conducono in altri paesi. Abbiamo fatto passi avanti, è vero, ma ora i tempi si allungano perché l’area soggetta a investigazioni si sta ampliando.» Il procuratore esitò un attimo, il tempo di verificare mentalmente se quella linea era sostenibile senza far invelenire la stampa. Lanciò un’occhiata d’intesa al subalterno, si alzò e uscì dalla stanza. «È andata di lusso» fece Guichard quando se ne fu andato. Loop


«Sì.» «Perché non gli hai parlato delle cambiali di Loudmer?» «Sarebbe stato come parlare del tempo.» Quella sera Edith aveva preparato il maigret de canard e Desclos aprì una bottiglia di Bourgogne che aspettava l’occasione buona. «Dalla faccia si direbbe che è andata bene.» «Assolto con formula piena.» «Non te ne importa, vero?» «Quello che mi importa è che, dal Nord, non vengano in città dei galletti a scopare nel mio pollaio e a sporcarmi il curriculum.» «Dal Nord?» «Hanno trovato delle impronte. Su un ombrello inglese. Stanno cercando nei nostri archivi ma sento – bada, è solo una sensazione – che un francese non comprerebbe mai un ombrello inglese. Se abbiamo fortuna, se cioè a Londra trovano le impronte, lo abbiamo beccato. Altrimenti il caso finisce fra quelli insoluti.» «Avete considerato gli aspetti astrologici ed esoterici?» Desclos si sentì ferito. E seccato di esserlo. «No» rispose freddo, fra il desiderio di mandare Edith a pelar patate e quello di sentire cos’avesse da suggerire lei su un tema che loro, funzionari di spietata razionalità, avevano tutti insieme trascurato. «La data di nascita, il segno zodiacale, l’ascendente, la religione, l’appartenenza a sette, congreghe e altre associazioni, le mete dei viaggi, sai, uno che va alle Mauritius offre assai meno spunti di uno che va a St. Remy a visitare la casa di Nostradamus. Avete esaminato il materiale che aveva in casa? I simboli? I libri?» Desclos si avvicinò alla moglie, le prese il mento con la destra e lo sollevò dolcemente: «Non ci abbiamo pensato. Nemmeno un secondo. Ma dal momento che siamo in un vicolo cieco, domani provvederemo anche a questo.»

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Martinica, aprile 2005 Un gruppo di francesi provenienti da Lione doveva atterrare quel pomeriggio a Fort de France con un charter da Nizza per imbarcarsi su un catamarano che li avrebbe portati in crociera attraverso le piccole Antille fino a Grenada da dove, dieci giorni dopo, sarebbero ripartiti in aereo per la Martinica e poi per l’Europa. Nella sua agenzia René Caboche di solito non forniva questo tipo di servizio. Preferiva bus, alberghi sicuri, battelli di una certa capacità o addirittura navi da crociera. Perché, quando c’era di mezzo una barca a vela, non si poteva mai restare tranquilli. Qualcosa andava sempre storto. I motivi erano i più disparati. Al primo posto c’erano i problemi relazionali fra i naviganti, che la convivenza forzata rendeva tanto più critici quanto più piccola era la barca. Era come se, nel momento in cui i passeggeri salivano a bordo, diventassero preda di fisime, di eccessi o difetti di sensibilità, di inesperienze, di imprudenze, una rete nella quale, a volte, restava impigliato anche uno skipper. Quest’ultimo poteva risultare sgradito ai turisti perché usava modi da caserma, oppure perché incolto con ospiti colti, o perché poco attento ai principi di sicurezza a bordo, perché corteggiava un’ospite, perché mangiava smodatamente a tavola. La hostess poteva essere sgradita perché cucinava male, trascurava la pulizia, si ribellava alla mancanza di urbanità degli ospiti. Oppure perché qualcuno di loro la concupiva, fatto ancor più pericoloso se a bordo c’era la di lui compagna. Quando invece i turisti facevano da soli, c’era da sperare che colui che conduceva la barca fosse esperto a sufficienza da non lasciare pezzi di veliero per le scogliere e che i suoi compagni di viaggio fossero sufficientemente affiatati e collaudati da evitare litigi, ammutiLoop


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