Minotauro
Il muro
Era la fine di agosto, da settimane il cielo brillava di un blu impietoso, alle mattine umide seguiva l’arsura delle giornate, poi un silenzio afoso calava sulle stanze con le persiane spalancate. Mi giravo e rigiravo insonne, senza coperta sul lenzuolo bagnato, a tratti mi assopivo per poi risvegliarmi spaventato da bruschi sogni. Di giorno vagavo inebetito fra i fiori dai colori lussureggianti, ogni tanto mi bagnavo con l’acqua dell’irrigatore piantato in terra, in mezzo all’erba, poi mi sdraiavo all’ombra che vibrava silenziosa. Verso mezzogiorno, quando la calura diventava insopportabile, prendevo il mio libro – che non avevo la forza di leggere – e mi ritiravo fra i folti cespugli in fondo al giardino. Poggiata la schiena al muro di mattoni godevo al contatto fresco dell’edera rampicante dalle foglie scure. Lì non arrivava la luce del sole, la flora in putrefazione sul terreno umido emanava un odore dolciastro e un silenzio denso mi circondava. Sedevo intorpidito e immerso nel silenzio, quando cacciai un urlo. Fu un grido inarticolato, di dolore, e voci gorgoglianti riecheggiarono nelle mie orecchie. Mi raddrizzai pian piano e mi avviai, facendomi strada con la mano, fra i cespugli cresciuti disordinatamente. Procedetti cauto, ma un rampicante dai fiori profumati continuava ad attorcigliarsi intorno a me, trattenendomi. Avevo la sensazione di essere avvolto da questa pianta dai fiori a calice che avrebbe voluto farmi sprofondare nelle viscere della terra; andai avanti con determinazione, ma la furia partorita dalla paura era più debole del ramo nodoso della pianta. Sempre più avviluppato, guardai sbigottito fra i cespugli senza riuscire 7
a vedere il mondo fuori, mentre le foglie immobili mi mostravano indifferenti il loro rovescio. Alzai lo sguardo verso l’orizzonte alla ricerca di un rifugio, ma vidi solo il muro non intonacato stagliarsi contro il cielo ceruleo. Con una mossa cauta (come per ingannare i calcoli furtivi dell’edera) mi aggrappai a un mattone sporgente e ben solido. Mi tirai su gemendo. La pianta attorcigliata intorno alla mia gamba si allungava per non cedere. Con un gesto abile afferrai il bordo del muro. La pianta scivolò giù pian piano. Da qui, dalla cima del muro, potevo spaziare con lo sguardo nel faggeto inselvatichito. A ridosso del muro, nel raggio di circa un metro, dove si ergevano cespugli e giacevano alberelli tagliati e rinsecchiti, non c’era traccia d’uomo. All’interno, a perdita d’occhio, file disordinate di faggi cupi, a volte in gruppi, altre volte isolati, poi di nuovo in ranghi serrati come fossero soldati. Lo spazio fra gli alberi dai tronchi spogli era occupato da cespugli di biancospino e soprattutto di rigoglioso sambuco, da germogli e viticci, e dall’erba cresciuta alta. Rimasi a lungo nella posizione in cui mi ero arrampicato, accovacciato e dimentico dello spavento precedente. Senza rendermene conto ero stato spinto in quel punto dalla speranza di vedere lui, che forse sarebbe passato di là. Ma l’unico sentiero, disboscato in modo sommario solo nel tratto ai piedi del muro, che conduceva nel folto bosco era da tempo ricoperto d’erba, e dal terreno duro e battuto spuntavano cespugli assai radi. Eppure all’improvviso ebbi la sensazione che qualcuno fosse appena passato di là. Lo si avvertiva. Mi alzai con circospezione, così dalla mia altezza potei vedere un pezzo più grande del bosco sconosciuto, ma invano esplorai le linee fuse della vegetazione; non si scorgeva figura umana. Mi avviai – il muro era sottile – con molta attenzione. Sentii un fruscio fra i cespugli e di nuovo ebbi la sensazione che qualcuno mi stesse osservando. Nella direzione del rumore un merlo nero stava beccando i frutti maturi del sambuco, poi di colpo scosse con affettazione le penne e prese il volo. Minotauro
Seguii a lungo il volo dell’uccello: descrisse un cerchio sopra i frutti che gli si offrivano come su un piatto, quasi volesse posarvisi di nuovo, poi scomparve all’improvviso tra le fronde dei faggi. Il mio sguardo tornò involontariamente al cespuglio da dove il merlo aveva preso il volo poco prima. Dall’erba, rinsecchita fino a diventare spiga, colsi il lampo di un paio di occhi marroni. Pensai a una visione. Proseguii spaventato. Sentii di nuovo il fruscio dell’erba secca. Impaurito, mi arrestai sul camminamento del muro. Da sotto le foglie sfilacciate si alzò lentamente un cane lupo, grosso e muscoloso. La comparsa di quell’animale così bello mi rallegrò: gli sorrisi restando accovacciato, facendogli segno che avrei voluto avvicinarmi a lui. L’animale non reagì all’approccio gentile, rimase rigido sullo sfondo di foglie grasse, non ostile ma neppure amichevole, seguendo ogni mia mossa con i suoi occhi marroni leggermente velati. Allungai la mano impacciato come se volessi offrirgli qualche bocconcino. Il cane si mosse, fece un balzo non troppo veloce né aggressivo, poi rimase in quella posizione scomoda, pronto a saltare. Era ovvio che con lui non avevo speranze, decisi dunque di continuare la perlustrazione lungo il muro. L’animale saltò nella radura, proprio sotto di me. Non si mise all’erta, acquattato per terra sembrava solo stanco e rilassato; dalla sua bocca rilucevano denti bianchi e forti, e mi osservava con la testa alzata, come se da un momento all’altro volesse inseguirmi sul muro. Mi accovacciai e porsi la mano. «Cagnolino…» lo blandii con voce rauca. Lo sguardo dell’animale non rispose. Incoraggiato, mi voltai completamente e mi girai verso di lui consapevole del rischio di cadere. Si mosse minaccioso, strisciò avanti di qualche centimetro, poi diede una rapida occhiata in giro. Un gesto perfettamente umano, come se avesse voluto calcolare la distanza che lo separava da me. Studiai il modo di scendere ma 8
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il mattone al quale mi ero arrampicato si trovava qualche passo più in là. Arretrai tenendo d’occhio il cane. Strisciò qualche centimetro nella mia direzione. Nei suoi occhi brillò una strana luce, sollevò la testa pronto al salto, ma dalla gola non uscì nessun suono, si sentì solo il digrignare dei denti. Una volta sola. Feci scivolare la gamba all’indietro… un solo passo falso e sarei caduto… La mia mossa dovette irritare il cane, perché abbandonò la posizione di attesa, il pelo fulvo si drizzò sul suo corpo, e indietreggiò. In quel movimento lasciava però intuire che aveva di nuovo voglia di attaccare. Mi irrigidii. Restammo immobili per alcuni minuti. Il sole mi bruciava la nuca. Sentivo la pelle andare a fuoco. La forza abbandonò i miei muscoli. Se non mi muovo precipito giù dal muro… cado dall’altra parte… «Cagnolino…» gemetti disperato. «Non sono un tuo nemico…» Traendo forza dalla mia stessa voce insistetti: «Non sono nulla. Devi capirlo». Arretrai cercando di distrarlo con le parole e mi avvicinai al mattone sporgente. L’ animale si lanciò contro il muro con la schiena stranamente ingobbita. Lo vidi scattare e notai il suo palato chiazzato… poi caddi giù con gli occhi chiusi… Credevo che quello strano abbraccio fosse la morte, invece mi cullava la pianta rampicante in cima al cespuglio. Quando, alcuni minuti dopo, aprii gli occhi, sopra di me c’era l’infinito vapore azzurro. Il cane era accucciato sopra il muro, per un po’ mi osservò con sguardo spento, poi scomparve del tutto. Una sola via conduceva al lungo muro senza intonaco: quella attraverso il passaggio a livello che tagliava in due la strada. Vi erano di guardia due soldati con il mitra, silenziosi, non parlavano neppure fra loro. Lajoska, seduto sul ciglio della strada, stava riparando la sua bicicletta. Era chino sopra il mezzo smontato, completamente assorto. Solo la Minotauro
mascella sporgente si muoveva con rabbia. Non riusciva a infilare il copertone nel cerchione. A tratti si tergeva la fronte madida di sudore con il braccio; continuava a insistere, ma senza esito. Quando con un cacciavite riusciva a infilare il copertone in un punto, quello sgusciava fuori da un altro. In tal caso i lineamenti marcati del suo viso si increspavano in una smorfia, come colti da un fremito, ma lui riprendeva ancor più ostinato il suo lavoro. Nessun altro sarebbe potuto rimanere lì seduto davanti al passaggio al livello. Solo Lajoska. Abitava nella villa intonacata di verde immediatamente a ridosso del muro di pietra. Parlava spesso con i soldati. Scherzavano, si davano delle spinte e quando i soldati non erano di guardia giocavano pure a pallone. Ma soltanto con lui. A volte Lajoska portava delle fotografie a scuola. Negli intervalli di dieci minuti faceva avvicinare qualche ragazzo, tirava fuori dal suo portafoglio alcune di queste misteriose foto e le disponeva ordinatamente sul banco. Fra le teste chine, strette una all’altra, filtravano risate rauche, sussurri confidenziali e smorzati, e non appena si avvicinava qualche altro curioso non invitato – che Lajoska non riteneva degno delle foto – quelli si chinavano ancor di più sopra il banco, proteggendo con i loro corpi il segreto, prima che in un solo istante scomparisse nel portafoglio di Lajoska. Io di solito non facevo parte dei curiosi; rimanevo seduto con la schiena rigida al mio posto cercando di captare qualche bisbiglio, ma senza successo. Un giorno, tornando verso casa gli feci delle domande sulle foto. Lajoska abbozzò un sorriso misterioso e rivelò soltanto che le aveva ricevute dai soldati, ma non erano adatte a me. Lo disse per offendermi, ma io non replicai. Per un po’ procedemmo silenziosi uno accanto all’altro. Lajoska faceva dondolare allegramente la sua cartella mentre io guardavo fisso per terra con gli occhi stretti. «Vuoi vederle?» domandò con l’aria di chi si diverte a punzecchiare. «Mangiatele pure, le tue foto!» risposi irritato. 10 11
Lajoska rimase stupito, si accovacciò accanto alla sua cartella e tirò fuori il portafoglio marrone. Agli angoli della bocca guizzò di nuovo quel suo sorriso. Con le spalle alzate, voltato in modo che non potessi vedere, maneggiò a lungo le foto, infine me ne allungò una. Fece una strana risata. In un primo momento non capii bene il significato dei due corpi aggrovigliati, poi però arrossii pesantemente. Lajoska rise, mi strappò di mano la foto, la fece a pezzi e la gettò nel canale. Riprendemmo il cammino in silenzio. Dopo un po’ mi diede una pacca sulla schiena. «Te l’avevo detto che non era roba per te…» La pacca mi fece emettere un sibilo furioso. «E allora perché l’hai buttata?» A quella domanda non rispose. Ora stavo lì fermo davanti a lui, con le mani sprofondate in tasca. Guardai titubante le guardie, ma non ci mandarono via. Né salutarono. Lajoska si asciugò di nuovo la fronte sudata, tirò su con il naso e sputò. Molto lontano. «Dài, aiutami a tenerla…» disse. Alzai le spalle in segno di benevolo consenso. Mi mise in mano la ruota e insieme provammo a infilare la gomma nel cerchione. Una volta sistemata la gomma da entrambi i lati Lajoska sbatté più volte la ruota per terra in modo da far scattare la gomma verso l’interno. Mi fece un occhiolino allegro e bestemmiò con gusto. Strinse le viti rapidamente, con movenze ben collaudate, infilò la catena nell’ingranaggio, infine, con una mossa leggera, mise in piedi la bici. «Vuoi farci un giro?» domandò. «Mah, non so» risposi indifferente, ma stavo già allungando la mano per afferrare il manubrio scintillante. Pedalai piano, a zig zag. Lajoska ansimava dietro di me. «Quand’è che sei tornato a casa?» chiese. «Io ieri.» «Io già la settimana scorsa…» «E com’è andata?» Minotauro
«Benissimo.» «Dove sei stato?» «…in Belgio…» dissi voltandomi un attimo, poi affondai i piedi sui pedali. Lajoska continuava a gridare di fermarmi, io invece aumentavo l’andatura. Pedalavo con la testa all’insù e l’aria mi sibilava veloce nelle orecchie. Più tardi, gettando un’occhiata all’indietro, notai Lajoska scomparire dietro la curva. Qui la strada prese a scendere ripida e io lanciai la bici con veemenza, il vento mi colpiva dritto in faccia. Poi scesi e mi misi a spingerla per tornare indietro. Lajoska avanzava con comodo. Quando ci incontrammo montai di nuovo sulla bici. «Sono stato a Tomajkér» disse. Raccolsi la saliva in bocca e sputai. Non fu però uno sputo diritto: si sparpagliò in tanti schizzi e mi bagnai persino il ginocchio. «Si fa così… guarda…» disse Lajoska, tirando subito su con il naso e piazzando uno sputo diritto sul marciapiede. «Non si sta male in Belgio» dissi. «Cosa c’è lì?» «Il mare… e città enormi… Sai, il mare è tremendamente grande…» Con un rumore cigolante, si aprì un portone di ferro. Una ragazza slanciata sui diciotto anni uscì in strada. Chiuse il portone a chiave, fece un cenno con la testa nella nostra direzione e noi rispondemmo con un «baciolemani» ad alta voce. Lajoska si girò per guardarla. «Niente male la piccola» disse. «Non è il mio tipo.» «Davvero niente male.» Assorto nei pensieri afferrò il manubrio e vi si appoggiò. «Dicono che il mare può far venire il mal di mare» disse alzando lo sguardo su di me. «Sì… può darsi… ma questo non conta…» Batté le ciglia interrogativo. 12 13