MMX

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ARCHITETTURA ZONA CRITICA

A cura di Marco Biraghi, Gabriella Lo Ricco, Silvia Micheli



INDICE

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Premessa Ciò che manca Gizmo

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Antefatti 15 L’ultima resistenza. Ovvero la lotta degli anziani contro i giovani Marco Biraghi 22 Alessandro Mendini. Ovvero la gerontocrazia italiana Silvia Micheli 25 La Facoltà di Architettura è occupata Fiorella Vanini 30 Non si può fare a meno dell’architettura Marco Biraghi 34 La crisi ecologica. Vecchi e nuovi equilibri Gabriella Lo Ricco

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Zona città 40 La città dalle molte identità. Un edificio non è un cheeseburger, ma una città non è un dialetto Marco Biraghi 47 Chinatown alla conquista del pianeta. Connivenza o seduzione? Linda Stagni 54 Milano, geografie in movimento. Tra flussi e territorio Matteo Bolocan Goldstein 59 Via Padova. Presente e futuro di una strada di Milano Mauro Sullam 65 I nuovi zar di Mosca. Tra luci e ombre, un viaggio nella “nuova” capitale russa Edoardo Rovida

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Zona architettura 73 Real Estate. Architettura “incerta” Stefano Guidarini 77 Milano Centrale. Opera di resistenza Silvia Micheli 83 Herzog & de Meuron o delle preesistenze “ideali” Marco Biraghi 85 Passato e presente. Un edificio di Aldo Rossi a Berlino Gabriella Lo Ricco 90 L’Altra Sede. Verso una nuova identità milanese Silvia Micheli 96 Tra le nuvole Marco Biraghi 98 CityLife. “Pizza, amore e mandolino” Florencia Andreola 105 «Progettiamo, sviluppiamo, gestiamo. Altro che immobili» Anna Ghirardi 110 A Venezia la pubblicità è maxi Silvia Micheli 115 Cantiere Italia Marco Biraghi 117 E il cemento diventò trasparente Alberto Anselmi 124 La fabbrica dell’aeroporto Sebastiano Baldan


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Zona verde 132 Green is the colour Marco Biraghi 136 Boeri verde Riccardo Villa 141 L’inciviltà dell’automobile Marco Biraghi 143 Wall-E Park Silvia Dalzero

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Zona teoria 152 Stop City. Per una architettura non figurativa della città (dopo la città post-fordista) Pier Vittorio Aureli, Martino Tattara 160 Commentario alla Stop City Marco Biraghi 164 Denaturalizzare la gentrificazione Mara Ferreri 170 Moon Architecture Mario Viganò 176 Affinità/divergenze fra il compagno Grassi e noi. Del conseguimento della maggiore età Baukuh 185 Baukuh. Una idea di architettura Silvia Micheli

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Zona storia 196 Accademici d’Italia. Una difesa del senso comune Pier Paolo Tamburelli 200 Giochi per l’estate. Divertirsi con la storia Marco Biraghi 212 Appunti sulla storia e sull’architettura Vittorio Pizzigoni 216 La storia della spirale. Ovvero la spirale della storia Marco Biraghi

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Zona futuro 226 Roadmap 2050. Ecologia e geopolitica Matteo Vegetti 232 Thom Mayne o dell’ottimismo Marco Biraghi 236 Le città post-apocalittiche Franco Marineo 242 MMXII Marco Biraghi


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L’architettura che mi piace© 247 L’architettura che ci piace Marco Biraghi 248 Matteo Vercelloni, David Chipperfield, Neues Museum, Berlino 250 Gabriele Mastrigli, Peter Eisenman, Monumento all’olocausto, Berlino 252 Luca Lanini, Guillermo Vázquez Consuegra, Museo nazionale di Archeologia Marittima, Cartagena 254 Francisca Insulza, Rem Koolhaas (OMA), Casa della Musica, Porto 256 Mauro Galantino, Henri Ciriani, Tribunale, Pontoise 258 Giovanni Damiani, Herzog & de Meuron, Museo de Young, San Francisco 260 Manuele Salvetti, Grafton Architects, Ampliamento dell’Università Bocconi, Milano 262 Giulio Barazzetta, Picado-de Blas Arquitectos, Teatro Auditorium di San Lorenzo all’Escorial, Madrid 264 Stefania Postiglione, Renzo Piano Building Workshop, Sede del New York Times, New York 266 Orlando Di Marino, Oscar Niemeyer, Auditorium, Ravello 268 Alberto Ferlenga, Jean Nouvel, Kilometro Rosso, Bergamo 270 Franco Raggi, Architetti Senza Frontiere, Centro di formazione artistica e artigianale, BoboDioulasso 272 Silvia Micheli, Rem Koolhaas (OMA), Sede della CCTV, Pechino 274 Lorenzo Baldini, Sergison Bates Architects, Urban housing, Londra 276 Stefano Guidarini, Kazuyo Sejima, Ryue Nishizawa, Rolex Learning Center, Losanna 278 Dario Costi, Vincenzo Melluso, Casa Dusenszky-Vitale, Val d’Itria 280 Luca Astorri, Elemental, Alejandro Aravena, Complesso residenziale, Monterrey 282 Gabriella Lo Ricco, Toyo Ito, Stadio per i Giochi mondiali, Kaohsiung 284 Pippo Ciorra, LIN Architects, Alvéole 14, Saint-Nazaire 286 Matteo Costanzo, Andrea Branzi, Pineta di Architettura 288 Marco Biraghi, Shigeru Ban, Scuola elementare Chengdu Hualin, Chengdu 290 Luciano Patetta, L’architettura che non c’è 292 Foto-sollecito al MART Giulia Del Vecchio

296 Tag



Gizmo

CIÒ CHE MANCA

In questo libro mancano molte cose: mancano le ultime opere di Frank O. Gehry, Richard Meier, Steven Holl, Peter Zumthor, Paulo Mendes da Rocha, Alvaro Siza, Rafael Moneo, Antón García-Abril, Valerio Olgiati, Cino Zucchi; manca la 12. Mostra Internazionale di Architettura di Venezia; mancano Dubai, Mumbai, Lagos, Las Vegas, Seattle, Chicago, Rio de Janeiro, Buenos Aires, Barcellona, Lisbona, Rotterdam, Parigi, Tokyo, Sidney; manca la questione degli indici di edificabilità; manca l’analisi del PGT di Milano; manca il G8 alla Maddalena; manca la discussione del DDL 1905 sull’università; manca la ricostruzione del sistema gelatinoso dei concorsi; mancano i pannelli fotovoltaici e le facciate ventilate; mancano le architetture neovernacolari; mancano i contributi di Kenneth Frampton, Peter Eisenman, Franco Purini, Franco La Cecla, Saskia Sassen, Stefano Boeri, Luca Molinari, Marco Casamonti; manca un’intervista a Renzo Piano; manca un’intervista a Massimo Cacciari; manca la recensione all’ultimo libro di Vittorio Gregotti; mancano le ville con piscina in Polonia e in Portogallo; manca l’architettura d’interni; manca l’architettura del paesaggio; mancano i caratteri tipologici e distributivi degli edifici; manca la museografia; manca la domotica; manca l’architettura digitale; manca il disegno d’architettura; manca Massimo Scolari – e l’elenco potrebbe continuare ancora a lungo. Tutte queste cose semplicemente mancano, e non vi è alcuna giustificazione per la loro assenza. Inoltre, in questo libro mancano altre cose ancora: mancano i ringraziamenti; manca l’indice dei nomi; mancano le note (con un’unica, significativa eccezione); manca la bibliografia; manca la legenda degli archivi; manca il taglio monografico; manca il regesto delle opere; mancano le schede; manca lo specialismo pedante; manca la rigidità; manca la monotonia; manca il paludamento pseudo-accademico; manca la compiacenza nei confronti dell’establishment; manca ciò che di norma non può assolutamente mancare.

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Tutte queste cose mancano, ma la loro assenza è giustificata dal fatto di essere voluta. Infine, vi sono molte cose che mancano al di fuori e al di là di questo libro: manca la forza delle idee; manca il coraggio di rompere gli schemi; mancano la forza e il coraggio di prendere posizione; manca la capacità di sottoporre a critica il sistema dominante; manca l’onestà, l’integrità morale per opporsi agli interessi dei potenti; manca la volontà di investigare “mettendo in relazione”, anziché “scavando” come talpe; manca l’agilità per divertirsi seriamente e per esser seri divertendosi; manca l’intelligenza, la profondità per guardare al passato come a un tempo attivo, vivo; manca la sensibilità per guardare al presente come a un tempo passibile di interpretazione; manca l’immaginazione per guardare al futuro come a un tempo possibile, rispetto al quale provare ancora a dire, a progettare qualcosa. Tutte queste cose mancano nella situazione attuale, e la loro assenza è una delle ragioni che giustifica l’esistenza delle seguenti pagine. Al primo decennio del XXI secolo che volge ormai al termine si riferisce, nella maggior parte dei casi, questo libro. Ciò rende ragione del suo titolo: MMX.

ciò che manca, giochi, idea, metodo, progetto

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ANTE FATTI



Marco Biraghi

L’ULTIMA RESISTENZA OVVERO LA LOTTA DEGLI ANZIANI CONTRO I GIOVANI

Il 6 marzo 1975, sul settimanale “Il Mondo”, appare la prima puntata di Gennariello, “trattatello pedagogico” di Pier Paolo Pasolini. La pubblicazione proseguirà nelle settimane successive, raggiungendo il numero complessivo di quattordici uscite (numero nettamente inferiore a quello previsto dal “Progetto dell’opera”, esposto dall’autore nel pezzo edito il 3 aprile), per interrompersi infine il 5 giugno dello stesso anno. I medesimi testi saranno poi raccolti nel volume pubblicato nel 1976 da Einaudi nella collana dei Supercoralli con il titolo Lettere luterane, all’indomani della morte di Pasolini, avvenuta il 2 novembre 1975. L’intero discorso pedagogico pasoliniano si rivolge a un ragazzo napoletano quindicenne: «uno studente che fa la prima o la seconda liceo» e dunque inevitabilmente «borghese». In quelle pagine Pasolini sottolinea la drammatica, e per certi versi inedita – nonché inusitata –, «estraneità» che separa la propria generazione di cinquantenne dalla generazione cui appartiene Gennariello; «una estraneità […] che non è solo quella che per secoli e millenni ha diviso i padri dai figli», e che piuttosto è il riflesso di «uno dei più terribili salti di generazione che la storia ricordi». Ma che cos’è successo a partire dalla fine degli anni cinquanta, proseguendo poi nel decennio successivo, e addirittura intensificandosi nella prima metà degli anni settanta, quando egli scrive? Che cosa ha diviso in modo tanto netto e definitivo le generazioni che si collocano prima e dopo di essi? In numerose circostanze, negli articoli e nei testi scritti negli ultimi due o tre anni della sua vita, raccolti negli Scritti corsari e nelle Lettere luterane, Pasolini parla di una “mutazione” o di una “rivoluzione antropologica”: si tratta degli effetti prodotti dal processo di modernizzazione conosciuto dall’Italia nel corso di quel quindicennio (ma perché ciò avesse luogo è probabilmente occorso molto meno tempo); un processo di repentina trasformazione della società contadina e paleoindustriale in essa dominante per secoli in una società dei consumi. Sottoposti al fuoco incrociato dell’economia capitalista, delle istituzioni sociali, della scuola, della stampa e soprattutto della televisione, e con la connivenza del potere politico e della Chiesa, gli italiani hanno così appreso a tappe forzate i rudimenti della cultura di massa, basata su un’accettazione totale della “civiltà” dei consumi, a sua volta fondata sull’idea di una borghesizzazione del mondo, e conseguentemente su un conformismo dei comportamenti. Se gli effetti di tale mutazione antropologica sono avvertibili nell’intera società italiana (benché non solo in questa, ovviamente), e dunque indifferentemente in coloro 15


che appoggiano o abbracciano con entusiasmo il nuovo “potere” dei consumi e in coloro che invece cercano o s’illudono di contrastarlo, è tuttavia nei più giovani – nelle persone nate in coincidenza con l’inizio di tale rivoluzione e, ovviamente, in quelle nate dopo di essa – che i segni della mutazione si lasciano rintracciare con maggiore evidenza. Scrive Pasolini ne I giovani infelici, risalente ai «primi giorni del ’75»: «I figli che ci circondano, specialmente i più giovani, gli adolescenti, sono quasi tutti dei mostri. Il loro aspetto fisico è quasi terrorizzante, e quando non terrorizzante, è fastidiosamente infelice. Orribili pelami, capigliature caricaturali, carnagioni pallide, occhi spenti. Sono maschere di qualche iniziazione barbarica, squallidamente barbarica. Oppure, sono maschere di una integrazione diligente e incosciente, che non fa pietà». Due sintomi tra di loro opposti (contestazione e integrazione) che hanno però alle spalle un’unica patologia: la totale assoggettazione alla massificazione sociale dettata – in un modo o nell’altro – dalla cultura borghese. «Specialmente i più giovani, gli adolescenti.» Quanto più integralmente i corpi e gli spiriti si sono formati a contatto, sotto la diretta influenza di quella “civiltà mutante” – par di capire –, e tanto maggiori e più devastanti sono risultati gli effetti della mutazione genetica che ne è derivata. Per questa ragione, le generazioni precedenti a quella della fine degli anni cinquanta e dell’inizio degli anni sessanta, come in conseguenza dell’esposizione a una radiazione i cui effetti sono tanto più gravi quanto minore è la distanza dalla fonte irradiante, hanno subìto danni di più lieve entità: effetti minori, le generazioni più anziane; effetti più consistenti, la generazione dei cinquantenni, nati negli anni venti (cui appartiene Pasolini); e poi effetti via via sempre crescenti quanto più ci si avvicina all’epicentro dell’“esplosione” della civiltà dei consumi. Ma è soltanto nei più giovani, negli adolescenti, appunto, che gli effetti delle mutazioni arrivano a essere sconvolgenti. Nei quindicenni o poco più (oltre che nei ragazzi ancora più giovani) assumono contorni addirittura raccapriccianti, agli occhi di Pasolini: e ciò sia nella forma della quieta acquiescenza alle convenzioni sociali, sia nella forma della stereotipata ribellione. Lo sguardo di Pasolini è lucido ma non per questo impietoso nei loro confronti. È vero che sulla generazione dei “figli” egli emette un giudizio di condanna duro, severo, sulla scorta dell’arcano e in apparenza «ciecamente irrazionale e crudele» meccanismo che nell’antica Grecia vedeva i figli destinati a pagare per le colpe dei padri; meccanismo in cui egli identifica non un’evocazione puramente “mitica”, bensì un principio realmente agente e determinante. La generazione dei figli è quindi destinata a pagare in concreto le colpe della generazione dei padri, se non è in grado di liberarsi di queste: e infatti, per dirlo con le parole di Pasolini, «i figli che non si liberano delle colpe dei padri sono infelici». Giacché, se «l’eredità paterna negativa li può giustificare per una metà […] dell’altra metà sono responsabili loro stessi». Se è vero pertanto che per Pasolini i “figli” sono colpevoli e che la loro punizione è non soltanto “dimostrata” ma direttamente “incarnata” dalla loro stessa infelicità, «dal loro modo di essere», è vero però al tempo stesso che egli non nutre alcuna ostilità preconcetta verso di loro: non è odio il suo, bensì «cessazione di amore». A questo amore cessato, e dunque mancato, non corrisponde tuttavia una completa disperazione nei confronti della generazione dei giovani, quale invece ci si potrebbe aspettare. Innanzitutto, per Pasolini esistono eccezioni tra i giovani: «sono quasi tutti 16


dei mostri» scrive. Tra le eccezioni vi è Gennariello: «Se non sei un miracolo, sei un’eccezione, questo sì». Inoltre, il fatto stesso di risolversi a scrivere un trattatello pedagogico, in un’epoca in cui ciò non può che risultare del tutto inattuale, se non addirittura caricaturale («non mi sembra che ci sia nessuno – almeno nel mio mondo, cioè nel mondo della cosiddetta cultura – che sappia minimamente apprezzare l’idea di compilare un trattato pedagogico per un ragazzo»), attesta la sussistenza di una qualche fiducia da parte di Pasolini nella possibilità di dare un’educazione diversa a una generazione, o quantomeno ai rappresentanti migliori di essa. Pasolini, insomma, non è “contro i giovani”. Analizza non già una vaga dinamica generazionale, quanto piuttosto un ben preciso episodio, posizionato e circoscritto nello spazio e nel tempo; qualcosa di storicamente determinato e spiegabile, a patto naturalmente di avere la capacità, la lucidità e il coraggio per farlo. Qualcosa che concerne i rapporti tra generazioni diverse – uno scontro generazionale obiettivamente senza precedenti, che Pasolini penetra nelle sue ragioni profonde, senza paura di affermare cose scomode o provocatorie. E tuttavia, messo in rilievo tutto ciò, risulta forse lecito chiedersi, oggi, in modo auspicabilmente altrettanto profondo e motivato di quanto fatto trentacinque anni fa da Pasolini (ma al tempo stesso in modo altrettanto “disinteressato”, ovvero alieno da interessi o da animosità personali), se egli abbia avuto o meno ragione. Non è soltanto la distanza storica a consentirlo: è la stessa analisi condotta da Pasolini a richiederlo in maniera quasi impellente. Gennariello, al pari degli Scritti corsari e delle Lettere luterane, non contiene esclusivamente una diagnosi, ma anche – e in misura consistente – una prognosi. Le constatazioni storiche, qui, hanno al contempo il valore di profezia. E infatti, della profezia a tratti assumono il tono: in più circostanze in quelle pagine ricorre l’evocazione di una punizione oscura e tremenda pendente sul capo di un’intera generazione di giovani: generazione per Pasolini già colpita al presente dalla propria infelicità «e in futuro, certo, da qualcosa di più oggettivo e di più terribile», «in futuro, chissà da che cosa, da quali ecatombi». Difficile dire quali terrificanti minacce egli vedesse addensarsi nel futuro degli adolescenti della metà degli anni settanta (i quindicenni di allora e i cinquantenni di oggi) e dei loro fratelli più giovani. Osservati in prospettiva storica, i rappresentanti della generazione dei “figli” (come del resto quelli delle generazioni venute dopo la loro) non hanno dovuto subire – da un punto di vista collettivo – un destino particolarmente avverso: nessuna guerra, nessuna pandemia (non ancora, almeno), nessuna piaga sociale di proporzioni gigantesche, nessuna calamità naturale dal potenziale distruttivo globale, capaci di spazzar via una o addirittura più generazioni – almeno in Italia, dagli anni settanta a oggi. Certo, le occasioni distruttive non sono mancate: Pasolini per esempio parla delle droga come di una «vera tragedia italiana», drammatica spia della «perdita dei valori di una intera cultura». Altro tema ricorrente nei suoi scritti è quello della liberalizzazione dei comportamenti sessuali degli italiani, che egli mette in rapporto con la «“falsa tolleranza” del nuovo potere totalitario dei consumi». Non sarebbe difficile, oggi, rintracciare nella proliferazione dell’uso di droghe, nella diffusione dell’AIDS, nell’aumento dell’incidenza di malattie come il cancro, segnali quantomeno preoccupanti, se non già l’avverarsi della profezia pasoliniana. Eppure, nell’evocazione di tutto ciò sembra ancora sussistere un certo grado di “genericità”. Più 17


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