Seraphita

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Honoré de Balzac

Séraphîta

Prefazione di Giampiero Moretti Traduzione di Pia Cigala Fulgosi



I. Séraphîtüs

Di fronte a una cartina delle coste norvegesi, v’è forse immaginazione che non resti stupefatta dalle loro fantastiche frastagliature, lungo merletto di granito, dove muggiscono incessanti i flutti del mare del Nord? Chi non ha sognato i maestosi spettacoli offerti da queste rive senza spiagge, dall’ infinità di insenature, anse, piccole baie una diversa dall’ altra e tutte baratri inaccessibili? Imprimendo a queste coste la configurazione di un’ immensa lisca di pesce, la natura non si è forse compiaciuta di disegnare con geroglifici incancellabili il simbolo della vita norvegese? La pesca rappresenta infatti il commercio principale e fornisce quasi tutto il sostentamento a pochi uomini attaccati come un ciuffo di lichene a queste aride rocce. Là, su un’ estensione di quattordici gradi di longitudine, vivono appena settecentomila anime. Grazie ai pericoli che non arrecano gloria e alle nevi perenni che questi picchi della Norvegia – il cui solo nome già mette freddo – riservano ai viaggiatori, le loro sublimi bellezze sono rimaste vergini e pertanto ben si addicono alle vicende umane che vi si sono svolte e delle quali narriamo qui la storia, vicende ancor vergini almeno per la poesia. Quando una di queste baie, semplice fessura agli occhi degli edredoni, è abbastanza aperta perché il mare non ghiacci completamente nella prigione di pietra in cui si dibatte, la gente del luogo chiama tale piccolo golfo fjord, parola che quasi tutti i geografi hanno voluto conservare nelle rispettive lingue. Nonostante la somiglianza che queste specie di canali hanno tra loro, ciascuno mantiene la propria particolare fisionomia: ovunque il 5


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mare è entrato nelle loro fratture, e ovunque le rocce vi si sono crepate in modo diverso, e i loro precipizi tumultuosi sfidano i termini bizzarri della geometria: qui la roccia è dentellata come una sega, là le sue pareti troppo lisce non consentono né la permanenza della neve, né i sublimi pennacchi dei pini del Nord; più in là le scosse del pianeta hanno smussato qualche graziosa sinuosità: una bella vallata digradante a terrazze e adorna di alberi dal nero piumaggio. Saremmo tentati di chiamare questo paesaggio la Svizzera dei mari. Tra Drontheim e Christiania si trova una di tali baie chiamata Stromfjord. Se non è il più bello tra i paesaggi circostanti, lo Stromfjord ha comunque il merito di concentrare in sé le magnificenze della terra norvegese e di aver fatto da teatro alle scene di una storia davvero celeste. Nell’ insieme, la forma dello Stromfjord è, di primo acchito, quella di un imbuto sbrecciato dal mare. Il passaggio aperto dai flutti presenta all’ occhio l’ immagine di una lotta tra l’ oceano e il granito, due creazioni ugualmente possenti: l’ una per la sua inerzia, l’ altra per la mobilità. Prova ne sono alcuni scogli dalle forme stravaganti che impediscono l’ accesso ai vascelli. In certi punti, gli intrepidi figli della Norvegia possono saltare da una roccia all’ altra senza temere un abisso profondo cento tese e largo sei piedi. Talora due rocce sono unite da un esile e traballante pezzo di gneiss, gettato di traverso. Talora i cacciatori o i pescatori hanno lanciato un pino, a guisa di ponte, per collegare i due argini tagliati a picco sul cui fondo brontola incessantemente il mare. Una pericolosa gola, dirigendosi verso destra con mossa serpentina, incontra una montagna di trecento tese d’ altezza sul livello del mare, i cui piedi formano un banco verticale lungo mezza lega, là dove l’ inflessibile granito comincia a spezzarsi, a creparsi, a ondularsi a circa duecento piedi al di sopra delle acque. Entrando con violenza, il mare è quindi respinto con pari violenza dalla forza d’ inerzia della montagna verso le rive opposte alle quali le reazioni della marea hanno impresso dolci curvature. Il fiordo è chiuso sul fondo da un blocco di gneiss coronato di foreste, da dove scende 6


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a cascata un ruscello che allo sciogliersi delle nevi diventa un fiume, forma un lago di proporzioni immense e precipita con fracasso vomitando vecchi abeti e antichi larici, che si scorgono appena nella caduta delle acque. Spinti con forza sul fondo del golfo, questi alberi ricompaiono alla superficie, si combinano, costruiscono degli isolotti che vanno ad arenarsi sulla riva sinistra, dove gli abitanti del piccolo villaggio adagiato sulle sponde dello Stromfjord li ritrovano spezzati, fracassati, talvolta interi, ma sempre spogli e senza rami. La montagna che riceve gli assalti del mare nello Stromfjord alle proprie falde e sulla cima quelli dei venti del Nord si chiama Falberg. La sua cresta, sempre avvolta da un mantello di neve e ghiaccio, è la più aguzza della Norvegia, dove la vicinanza del Polo produce a un’ altitudine di milleottocento piedi un freddo pari a quello che regna sulle montagne più alte del globo. La cima di questa roccia, a strapiombo dalla parte del mare, digrada verso est e si unisce alle cascate del Sieg con valli disposte a terrazza dove il freddo lascia crescere soltanto cespugli d’ erica e alberi sofferenti. La parte del fiordo da cui sfuggono le acque, ai piedi della foresta, si chiama Siegdalhen, termine che potremmo tradurre come “versante del fiume Sieg”. La conca che si trova sotto le pareti del Falberg è la valle di Jarvis, bel paesaggio cinto da colline cariche di abeti, larici, betulle, poche querce e faggi, la più ricca e variopinta di tutte le tappezzerie che la natura del Nord abbia steso sulle sue aspre rocce. L’ occhio può facilmente cogliervi la linea dove, grazie ai raggi del sole che li riscaldano, i terreni permettono la coltivazione e lasciano apparire la tipica flora norvegese. In quel punto il golfo è abbastanza largo perché il mare, respinto dal Falberg, arrivi a morire mormorando sull’ ultima frangia di queste colline, riva dolcemente orlata di una sabbia fine, disseminata di mica, pietruzze luccicanti, porfidi, marmi dalle mille sfumature portati dalla Svezia dalle acque del fiume, di detriti marini, conchiglie, fiori del mare spinti dalle tempeste, o dal Polo o dal Sud. In fondo alle montagne si trova il villaggio di Jarvis, composto di duecento case di legno, dove la popolazione vive sperduta 7


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in seno alla natura selvaggia, come nella foresta quegli sciami d’ api che, senza aumentare né diminuire, vegetano felici bottinando. L’ esistenza anonima di questo villaggio si spiega facilmente. Pochi uomini ebbero l’ ardire di avventurarsi tra le scogliere giungendo sulla riva del mare per dedicarsi alla pesca, attività che sulle coste meno pericolose i norvegesi praticano su larga scala. L’ abbondanza di pesce del fiordo soddisfa in parte il fabbisogno dei suoi abitanti; i pascoli della valle danno loro latte e burro; qualche appezzamento di terra molto fertile fornisce segale, canapa, ortaggi che essi difendono dai rigori del freddo e dall’ ardore passeggero ma terribile del sole, con l’ abilità di cui i norvegesi danno prova in questa duplice lotta. La mancanza di comunicazioni, sia per terra dove i sentieri sono impraticabili, sia per mare dove, attraverso le gole marittime del fiordo, riescono a penetrare soltanto piccole barche, impedisce loro di trarre profitto dai boschi. Per sgomberare il canale del golfo, così come per aprirsi una via all’ interno delle terre, occorrerebbero somme enormi. Le strade da Christiania a Drontheim aggirano tutte lo Stromfjord, e oltrepassano il Sieg su un ponte situato a diverse leghe dalla cascata; la costa, tra la valle di Jarvis e Drontheim, è ricoperta di immense foreste impenetrabili; e altrettanto inaccessibili sono, infine, i precipizi che separano il Falberg da Christiania. Il villaggio di Jarvis avrebbe forse potuto comunicare con l’ interno della Norvegia e della Svezia attraverso il Sieg; ma per entrare in contatto con la civiltà, allo Stromfjord occorreva un uomo di genio. In effetti tale genio apparve: un poeta, uno svedese assai religioso che morì ammirando e rispettando le bellezze di questo Paese, una delle più magnifiche opere del Creatore. Gli uomini che lo studio ha dotato di quella vista interiore le cui agili percezioni trasportano di volta in volta nell’ anima, come su una tela, i paesaggi più contrastanti della terra, potranno ora facilmente abbracciare lo Stromfjord nel suo insieme. Solo loro, forse, sapranno insinuarsi nelle tortuose scogliere della gola dove il mare si dibatte, seguire i flutti in fuga lungo le pareti eterne del Falberg le cui bianche piramidi si confon8


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dono con i nembi brumosi di un cielo quasi sempre grigio, perlaceo; ammirare la bella distesa incavata del golfo, sentirvi le cascate del Sieg cadere in lunghi fili su un pittoresco terreno non del tutto dissodato, ancora ingombro di alberi sparsi alla rinfusa, in piedi o nascosti tra i frammenti di gneiss; poi, riposarsi sui ridenti quadri che offrono le colline digradanti di Jarvis da dove si slanciano a miriadi le varietà della più ricca fra le vegetazioni del Nord: qui betulle graziose come ragazze, che come loro si flettono; là colonnati di faggi dai tronchi centenari e muscosi; tutti i contrasti di verdi diversi, di bianchi nembi in mezzo ai pini neri, lande di erica purpurea e dalle infinite sfumature; infine tutti i colori, tutti i profumi di questa flora dalle meraviglie sconosciute. Ampliate pure le proporzioni di tali anfiteatri, slanciatevi in alto verso le nuvole, perdetevi nell’ incavo delle rocce dove riposano i gattucci, il vostro pensiero non raggiungerà né la ricchezza né la poesia di questo sito norvegese! Potrebbe mai il vostro pensiero eguagliare la grandezza dell’ oceano che lo delimita, essere capriccioso come le fantastiche figure disegnate dalle sue foreste, dalle nuvole, dalle ombre e dai cambiamenti della luce? Al di là delle praterie, sull’ ultima piega di terreno che si increspa ai piedi delle alte colline di Jarvis, vedete forse due o trecento case coperte di never – una sorta di rivestimento fatto con la corteccia della betulla –, case esili, piatte, simili a bachi da seta su una foglia di gelso gettata là dai venti? Al di sopra di queste umili, tranquille dimore, c’è una chiesa costruita con una semplicità che si intona con la miseria del villaggio. Un cimitero circonda l’ abside della chiesa, e più in là si trova il presbiterio. Ancora più in alto, su una gobba della montagna, è situata un’ abitazione, l’ unica in pietra, che gli abitanti hanno perciò chiamato “il castello svedese”. In realtà, trent’ anni prima dell’ inizio di questa storia, un uomo ricco venne dalla Svezia e si stabilì a Jarvis, sforzandosi di migliorarne la sorte. L’ abitazione che costui edificò nell’ intento di spingere gli abitanti a costruirsene di simili era notevole per la sua solidità e per un muro di cinta, cosa rara in Norvegia, dove, nonostante l’ abbondanza di pietre, viene utilizzato il legno per 9


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