Sfinge

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Il ricordo mi rattrista ancora a distanza di anni. Quanti di preciso, non lo so più. Dieci o tredici forse. Mi toccherà sempre vivere nel ricordo, nella memoria? Anima in cerca d’incarnazione, ma già troppo carica di sapere, oppure corpo stanco di sentirsi al contempo pensante e impotente, tanto l’ha assillato una noia da cui niente o quasi è più in grado di distoglierlo. All’epoca, se mi ricordo bene, descrivevo il mondo come un teatro in cui, al ballo macabro delle pulsioni, danzavano lunghe file di cadaveri. Sprezzo e pettegolezzo non mi impedivano però di inseguire di valzer in valzer l’amorosa decomposizione. Languide notti alla deriva, assecondando scansioni sincopate, violente pulsazioni; la via dell’inferno era costellata di luci soffuse; il fondo dell’abisso si faceva sempre più vicino; sulle pareti lisce del vortice entro cui mi muovevo, percepivo immagini deformate di corpi estatici, nel rantolo lento e rauco delle torture nella carne viva. Ma io scivolavo e non potevo appagarmi né fermarmi né mancare al mio destino di fuga estatica. Era davvero un’impostura negare la grazia là dove essa non poteva non risiedere? Era un’eresia sostenere che la lucida traversata dell’inferno è la via più diretta alla redenzione? «Tu non mi cercheresti se non mi avessi già trovato; non mi desidereresti se non mi avessi un giorno già tenuto tra le braccia.» Le sue braccia, intensa dolcezza, serie di immagini che alla mia memoria fanno ancora l’effetto di una carnale illuminazione. A*** danzava: ho passato intere serate ad aspettare la sua apparizione sulla scena dell’Eden, night di alta classe della Rive gauche. E chi non sarebbe stato preso d’amo11


re osservando quel fisico slanciato, quella muscolatura che sembrava scolpita da Michelangelo, quella pelle satinata a cui nulla di ciò che fino ad allora avevo conosciuto poteva minimamente avvicinarsi? All’epoca io officiavo come disc jockey cinque sere alla settimana all’Apocryphe, tempio alla moda in quegli anni.

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Non riesco a ricordare esattamente le prime immagini che percepii di A***. La mia inerzia, quella sorta di abbandono al corso di un mondo di cui non governo né le esplosioni di delirio né i naufragi di sconforto, mi ha sempre lasciato piena libertà per gli smarrimenti e le escursioni più incongrue. La mia prima immagine di A*** dovette quindi ridursi all’osservazione malinconica e disgustata di un balletto di corpi che non mi sforzai in alcun modo di distinguere fra loro, sulla scena di quel night in cui aveva voluto a ogni costo trascinarmi un alcolizzato compiacente, all’uscita da un altro locale dove avevamo mescolato i nostri disincanti. In quel quadro indistinto che guardai appena, qualcosa dovette colpirmi: si mise così in moto un lavorio sotterraneo, uno scavo, la perforazione di una miniera nel mio cervello dopo il cieco impatto di un frammento sulla retina, dato che, interrogandomi più tardi su ciò che rendeva quel posto desiderabile, non seppi cosa invocare. Un corpo, uno solo, ma che ancora non mi preoccupavo di identificare, aveva, senza che io me ne rendessi conto, dotato quel luogo di una seduzione che durò fino a quando non riuscii a determinarne la causa, a riconoscerne la radice.

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Poco tempo dopo quella prima intrusione all’Eden, Tiff, una delle mie amiche di allora, diventata spogliarellista dopo aver fatto l’acrobata, mi portò con sé a fare il giro dei night. Mi concedeva finalmente un favore che le avevo chiesto da tempo: essere l’ombra di un corpo a cui i riflettori sottraggono la propria. Tiff mi aveva dato appuntamento una sera, verso le dieci, in uno degli immensi caffè di place Pigalle. Era autunno. Camminando verso l’appuntamento, risalivo controcorrente un fiume sparso di uomini frettolosi – verso cosa mai potevano affrettarsi? –, uomini attenti, dal passo circospetto. Una prostituta, bardata di giarrettiere e cinghie di cuoio che ne costituivano l’intero abbigliamento, mi incrociò. Le articolazioni, gli arti e il tronco erano attraversati e messi in evidenza da strisce di cuoio nero legate tra loro da anelli metallici. Su quel lato del marciapiede dove ebbe inizio il suo balletto da lucciola, sembrava un gladiatore, o anche un animale aggiogato. Dopo averla superata, mi voltai, forse per verificare i dettagli della sua tenuta. Lungo il viale, a intervalli regolari, ci sono quei negozi, metà sex shop, metà spacci di biancheria intima erotica, che propongono i vari componenti di tali mise. Un po’ più avanti, mi fermai davanti alla vetrina semivelata di uno di questi. C’erano ancora donne capaci di portare guêpière rosso sangue come quelle che vedevo lì, tra un reggicalze viola e un perizoma di pizzo trasparente? Camminavo proseguendo le mie riflessioni sull’argomento quando, trovandomi all’improvviso nel vasto alone di luce proiettata sul marciapiede dall’ingresso di un night e dalla rampa di scale che ne costituiva l’accesso, mi tornò in mente la luce che Sfinge


adornava lo scalone del palcoscenico dell’Eden durante il finale. Mi attraversò il desiderio di tornarci, brevissimo, quasi l’impressione di aver smarrito qualcosa. Affrettai il passo fino al caffè situato all’angolo a nordovest della piazza in cui sbucava il viale. Alcuni nordafricani in frusti abiti da città erano agglutinati a grappolo lungo il bancone. Su questa umanità inquieta i neon gettavano una luce sporca, madida di sudore. Vicino alla cassa, intenta a discutere con un cameriere, riconobbi Tiff dallo scintillio, un po’ attenuato dalla spessa coltre di fumo, dei suoi strass e paillette. Tiff era solita lanciarmi, non appena mi vedeva da lontano – la sua miopia, che solo per civetteria lei si rifiutava di correggere, riduceva per fortuna la portata della sua apostrofe –, un saluto accompagnato da nomignoli così teneri che all’inizio delle nostre frequentazioni mi facevano arrossire. L’estrema diffusione di questo rituale che ritrovai in tutti i posti che avevo cominciato a frequentare gli tolse ben presto ogni stranezza. Ma in quel caffè dal tanfo di angoscia e di brutalità, sentirmi chiamare «la mia peste», «il mio amore», mi fece scendere lungo la colonna vertebrale un brivido di emozione mista a terrore. Nello scontro tra sonorità arabe e ordini lanciati dai camerieri, credetti che una simile detonazione avrebbe sospeso il corso del mondo. Nessuno invece sembrò aver notato, o anche solo sentito, quello che un attimo prima aveva potuto a tal punto turbarmi. Mi parve di funzionare da cassa di risonanza, amplificando mio malgrado tutti i rumori e i discorsi che mi nascevano intorno. Sentivo con dolore, come urti contro il mio cranio, la musica idiota del flipper e la risacca dei colpi assestati dai giocatori; in un lampo al magnesio la voce di Tiff mi aveva trapanato il cervello. Dentro di me si propagava una vibrazione lontana, le cui scosse generavano un’inquietudine, una tensione carica di fragilità, uno spasmo di cui il pensiero dell’Eden, che continuava a ossessionarmi, era stato il primo sintomo: uno strappo nel velo che soffocava la mia percezione, esponendola nuda a tutte le impressioni vive e crude offerte dalla circostanza. 14 15


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