Via Pola

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Dragan Velikić

Via Pola Prefazione di Claudio Magris Traduzione di Ljiljana Avirović



L’ altra Pola, crocevia dei destini del Novecento di Claudio Magris

Via Pola, il titolo del romanzo di Dragan Velikić, non indica il nome di una strada, bensì un transito, un passaggio di quel nomadismo interiore e materiale, personale e collettivo, di cui, nelle migrazioni di individui e di popoli, sono fatte la storia e la vita. Dublino-Trieste via Pola: così il percorso di Joyce all’inizio del secolo scorso, esempio famoso divenuto emblematico, ma in realtà uno dei tanti della città istriana, dagli antichi illiri ai romani, dai veneziani ai francesi, dagli austriaci agli slavi, soprattutto croati, ma anche di altra provenienza. “Via”, in questo senso, assomiglia quasi a un trattino tipografico, in cui si condensa il continuo errare della storia: attraversamento fugace, conquista duratura, civiltà e distruzione, radicamento ed esodo, come più volte nei secoli e in particolare alla fine della seconda guerra mondiale, quando gli italiani della città, quasi l’intera popolazione, abbandonarono Pola, diventata jugoslava con la vittoria di Tito. Nato a Belgrado nel 1953 e vissuto a lungo da bambino nella città istriana, divenuta per lui una patria del cuore, Dragan Velikić ha scritto numerosi romanzi e racconti, che hanno riscosso notevole interesse in quell’area mitteleuropea cui egli spiritualmente appartiene e di cui esprime con intensità poetica l’atmosfera polivalente e spesso malata. Figlio di quella Serbia che negli anni delle guerre jugoslave è stata spesso colpevolizzata unilateralmente e di cui ora egli è ambasciatore a Vienna – forse secondo una vecchia tradizione, che ha visto pure grandi autori come Ivo Andrić nel servizio diplomatico – Velikić ha duramente criticato, 5


anche nei momenti più pericolosi, il regime di Milosević, assumendo un’equanime posizione avversa a tutti i nazionalismi allora divampanti con furore. «Se per qualche misteriosa ragione Pola dovesse sparire dalla terra insieme a tutte le testimonianze delle sue stratificazioni storiche, il libro Via Pola di Dragan Velikić ci potrebbe offrire un’ottima base per la sua ricostruzione.»1 Così scrive Ljiljana Avirović, profonda studiosa e docente di teoria della traduzione e traduttrice straordinaria, non solo dall’italiano nella sua madrelingua, il croato, ma – caso rarissimo e risolto con grande felicità stilistica – pure dal croato o dal russo in italiano, e di autori di eccezionale grandezza quali – per citarne solo alcuni – Bulgakov o Pasternak. Qui si misura con Velikić e con la sua discesa nei gorghi di quella storia stratificata, spesso intrisa di grumi di sangue rappreso – versato per secoli di violenze – e di follia, di mali oscuri. «Dottore scendiamo ancor più in profondità», dice un personaggio al protagonista, il dottor Bruno Gašparini, neuropsichiatra, punto di incontro e luogo geometrico di tutte le storie deliranti e confuse che si incrociano nella sua persona, come se egli stesso fosse un transito di destini. Il romanzo inizia con la nuda registrazione della sua carta d’identità, ma subito esplode, come un bubbone marcescente, in una miriade di storie, figure, vicende delle epoche più varie, che si aggrovigliano simultaneamente – abolendo ogni cronologia – nelle pietre, nei palazzi solenni e corrosi, nelle rovine romane e nelle ville austro-ungariche come nelle pestilenze dei secoli e nelle foibe del secondo Dopoguerra, ma soprattutto nella mente del protagonista. Le confessioni dei pazienti – nel vecchio Palazzo Orlando divenuto manicomio – finiscono per dilatare la psiche del dottore, per fargli perdere «il senso dei rapporti spazio-temporali»,2 L. Avirović, “Via Pola” si approda a Trieste, in G. Trisolini (a cura di), Letterature di frontiera: per una cultura della pace, Atti del XXV Congresso internazionale AIMAV, Università degli Studi di Trieste, 28 settembre1 ottobre 1990, Bulzoni, Roma 1991, vol. I, pp. 147-151: 147.

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Ibid.

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in un vorticare talora troppo smodato e incontrollato che trasforma il romanzo in un caleidoscopio barocco e impazzito, come lo è la fine del protagonista, divenuto assassino. La letteratura mitteleuropea e in particolare il suo versante balcanico sono spesso contrassegnati da un senso della Storia quale catastrofica fuga e morbo oscuro, che deforma e divora la realtà in una mutazione delirante, espressa in uno stile travolgente ed eccessivo, intriso di sangue, violenza e follia – si pensi, per fare solo qualche grande esempio, alla narrativa di Drago Jančar o di Miroslav Krleža e anche ad alcuni autori italiani, in particolare dalmati, parzialmente imbevuti di questo clima, come è dimostrato dal recente e possente romanzo Il libro perduto di Enzo Bettiza. In Via Pola la vitalità è cancerosa e distruttiva. «La vita si scioglie come una medusa», la malaria corrode il corpo e la mente, la Storia sembra operare come il coltello del macellaio che squarta la bestia, gialli orizzonti malati annunciano albe di orrore, le screpolate facciate delle case ricordano il volto di un lebbroso, il vino delle osterie è portatore di cupa malinconia come il sesso, insistito, triste e feroce; le continue trasfusioni di «sangue morlacco» nelle vene delle stanche stirpi precedenti non le rinnova ma le consuma, le facce scompaiono nel fumo dei caffè, la città è un guscio vuoto di conchiglia nella cui spirale il caso porta ogni tanto un fermento di vita e i suoi strati profondi si disegnano nei lineamenti dei volti. Questa Pola plurima, essenzialmente balcanica, è lontanissima da quella della letteratura istriana italiana, in cui l’Adriatico è un soffio di gentilezza veneta. A differenza dell’ultimo romanzo di Velikić in cui il protagonista, pur anch’egli straniero nella realtà e incline a dissolversi, trova se stesso, in Via Pola soltanto ci si perde: «Mi sono perso, perso...» dice Bruno. dicembre 2008

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Via Pola



All’ombra del pino

Carta d’identità Nome Cognome Nome del padre Data di nascita Luogo di nascita Abitazione Gruppo sanguigno Stato civile Professione

Bruno Gašparini Matija 19 marzo 1943 Pola Via Rakovac, 45 A-Rh-D: pos. Celibe Medico specialista, psichiatra

E questo, in poche parole, sarebbe tutto. Se al novero dei dati elencati aggiungiamo il segno zodiacale, Pesci; il colore preferito, il bordeaux; la parte del giorno, la mattina; il vino, il Pinot; il fiore, il giacinto; o persino il tipo di donna, bionda, gambe slanciate, seno minuto e rotondo, allora ci siamo avvicinati, appena di una spanna, a colui che risponde al nome di Bruno Gašparini. Finché una mano invisibile non gira l’interruttore nel buio, il nostro eroe, appeso, ciondola come un pupazzo di stoffa in vetrina, oppure, simile al corpo esanime di Frankenstein sul tavolo del laboratorio, aspetta nella notte tempestosa che un fulmine gli infonda la vita. Ma neppure un nutrito elenco di bizzarrie è in grado di avvicinarci a Bruno Gašparini; ed è soltanto la sua ombra a schiarirsi: dragone di carta sperduto nell’immensità dei cieli. 13


Bruno è nascosto dalle pareti come dalle mura di una città medioevale. Per accostarsi a lui, il momento più favorevole è l’attimo prima dell’alba, quando il sonno è profondo e il ponte abbastanza resistente. Con passo impercettibile bisogna evitare la sentinella e infilarsi nel labirinto delle vie e delle piazze. Il padrone dei sogni (I) Da sotto la nebbia, così fitta da non riuscire a scorgere neppure la chiara prora del veliero, verrà a galla un massello di pietra ardente, simile al pendolo dell’orologio celeste. La nave scivola sull’olio della superficie marina, affondando le vele nella nebbia e lacerando, con il lungo becco, il tessuto dell’aria, sui cui lembi rosseggia l’aurora. Bruno sta sul ponte, avvolto in una scura mantella, e ascolta attento il gorgoglio delle onde e le voci cupe dalla stiva. Nella cenere del mare e del cielo si intravedono le mura della città. Ma quando il veliero giunge all’isola coperta di ulivi nodosi, dalla parte sinistra delle mura emerge una costruzione ad anello, che mostra tre file di ampie cavità, assediata da arbusti e da pini chiomati. Appena la nave si appoggia con il rostro alla sponda, la scena si dissolve nella luce lattescente. Si stava avvicinando alla città dal mare, come consigliano gli antichi scrittori di viaggio, poiché è da questa prospettiva che appare grandiosa. Ricorda l’antica Roma: giace su sette colli e ha un anfiteatro per le orgie. Da molti anni, alla parete della casa di Medolino, stava appeso un quadro con figure allungate di uomini in gondola. L’ ultimo della fila, il volto coperto da un cappuccio, stringe in una mano un lungo remo, mentre con l’altra indica la sagoma di un uomo sulla riva. La veduta di Cassas scomparirà dalla parete come il piccolo gobelin: tra le sue tonalità cilestrine e verdognole si intravede appena un cavaliere, e nessun altro, tranne Bruno, Via Pola


si ricorderà di questa immagine. Ma forse anch’egli avrebbe dimenticato il mormorio delle onde e le voci sorde del ventre della nave, se non fossero stati evocati nel sogno. Era salito sul ponte e aveva aspettato che dalla nebbia venisse a galla la città. Il respiro simultaneo dell’equipaggio sulle amache allungate talvolta viene coperto dal battito del vento che, facendo scoppiettare la tela, gonfia le vele e trascina la nave verso la sponda lontana. I dormienti dondolano nei giacigli penzolanti come giganteschi grappoli d’uva. Nessuno si sveglierà, neppure quando la prora fenderà la sponda melmosa e la nave si inclinerà fino a sfiorare con l’albero le fronde di alti arbusti. Due uccellacci stridenti scompaiono nella nebbia. Sopra la macchia rossa ronzano nuvole di zanzare. Salta dal ponte e sprofonda fino alle caviglie nella melma. Si asciuga le mani nell’erba bagnata e, sollevando i lembi della mantella, si avvia verso l’argine, calpestando con gli stivali la rossa fanghiglia. Il gemito della nave arenata si diffonde nella nebbia. La porta della città verso la marina, aggredita dalle onde burrascose, pare un largo buco oscuro tra grigie mura di lana. Bruno getta una moneta d’argento nella cassetta di legno. La guardia dal viso giallastro e dagli occhi tumefatti, in un’uniforme lisa e sudicia, gli lancia un lungo sguardo indagatore prima di tirare il battente di ferro e aprire la porta della città. Da qualche parte sul monte si sente un lontano suono di campana. Procede velocemente, turbato dal minaccioso silenzio della città addormentata o forse dal presentimento che tutto finirà per dissolversi in quella luce lattescente che già appare sulle ripide vie. Dalle finestre aperte delle case accalcate arriva il sibilo dei dormienti. «Antonio, Antonio» chiama una voce di donna. E in quel momento esce dalla casa accanto un uomo dai capelli arruffati, senza mantello e con il cappello in mano. 14 15


Per un attimo posa lo sguardo sul passante sconosciuto, poi scompare nella via d’angolo. Alla finestra al pianterreno della casa di pietra dai piani ornati da bifore sottili appare una giovane donna. Fa un cenno con il capo al solitario e alza il braccio destro sopra la fronte, come se con quel gesto volesse inviargli un qualche segnale. Bruno si avvicina alla finestra, si inchina e chiede gentilmente se nei dintorni vi sia un qualsiasi alloggio accogliente, poiché – dice – è stanco del viaggio e desideroso di dormire. «Da dove viene? Da Venezia? O forse da Genova?» «No, no» risponde scuotendo il capo. «Da ancor più lontano. Così lontano da aver dimenticato pure il nome della città.» La donna fa un sorriso e china il capo scoprendo il seno stretto da lacci di pelle. «Vuole riposare, caro viaggiatore? Chieda ad Antonio, lui conosce ogni letto della città.» Tende la mano e tocca la fronte di Bruno. Il labbro superiore è un po’ arcuato, le narici vibrano come quelle di un cerbiatto spaventato. Anche per le movenze leggere ricorda un cerbiatto. Alza il capo come se volesse ascoltare qualcosa e, così irrigidita, un po’ di traverso, osserva quel tale capitato sotto la sua finestra. Bruno trema dinanzi al suo viso allungato e alla sua espressione mite. Ogni volta che china il capo, bruscamente, attratta dal gioco, col ciuffo dei capelli biondi accarezza il volto di Bruno. Il labbro superiore si muove a un sorriso. «Stasera sarò vicino a Porta Rata» dice. L’ alito caldo annebbia lo sguardo di Bruno. Ma quando con l’occhio di nuovo nitido la cerca nella cornice della finestra, sente soltanto una sonora risata giungere dalla profondità della casa. Sta lì con pazienza, come sul ponte della nave, mentre la nebbia scende sui tetti chiudendo la scena un po’ per volta.

Via Pola


Si svegliò con i capelli appiccicati. Albeggiava. Lì, da qualche parte sotto la finestra, odorava la chioma del ligustro fiorito. Per la silenziosa via Gubec era passato un autocarro, fendendo l’aria densa della notte. Dal Castello si sentiva il verso monotono di una tortora. Bruno misurò metodicamente gli intervalli di silenzio tra il suo tubare breve e sempre più strascicato, nel punto in cui l’ultimo tono andava spegnendosi lento nella lunga corona. Forse è rimasta imprigionata nel sonno, pensò Bruno, come un dormiente nel bosco sulla strada di Lisignana, che nessun urlo, neppure il proprio stesso urlo, riesce a destare. Bruno si alzò e si affacciò alla finestra aperta. Il muro sotto il bastione del Castello, coperto da un folto e scuro drappo verde di edera, stendeva un’ombra profonda sul cortile. Dalla base del cespuglio di bosso sbucò il becco arancio del merlo. L’ uccello saltellò con cautela fino allo spiazzo, alzò la testa e, per un istante, disturbò con il suo cinguettio la melodia uniforme del cuculo. Sulla superficie mossa dell’edera i raggi del sole delineavano irregolari immagini geometriche dai toni chiari, cosicché a Bruno le umide foglie a forma di cuore sembrarono lucide scaglie di armatura. Riconobbe la punta della lancia, la testa del cavallo con la mandibola spalancata, la figura del cavaliere imprigionato nel drappeggio ondeggiante. Il merlo se ne andò saltellando nella macchia fitta, mentre il richiamo sempre più intenso e dolente della tortora ricordò a Bruno l’urlo del dormiente indifeso nel bosco sulla strada di Lisignana, dove il giorno prima lui e suo padre raccoglievano asparagi. Con un senso di sollievo inspirò l’aria. Il profumo del ligustro gli trasmise una strana sensazione di rapimento, come quando, ansimante, si avvicinava su per un’erta alla larga porta di Monte Ghiro. Un groppo invisibile pulsa sul fondo della gola. La ghiaia scoppietta sotto i piedi. 16 17


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