Fino all'ultimo respiro

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Rade Šerbedžija

Fino all’ultimo respiro Riflessioni e scritti autobiografici

A cura di Dunja Badnjević Con una nota di Miljenko Jergović



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In visita alla terra natale [Del passaporto, della Milizia e dei poliziotti (sul set e sulla strada), di Igor Galo, della prima volta in Istria, della visita di Šuvar, della finestra dalla quale Tito sparava alle anatre, della casa natia nascosta tra l’erbaccia, del cd rotto di Non mollare, Ines, dei fili d’erba sulle tombe degli antenati] Se sapeste quanto sono pericoloso… non me le avreste mai date… sono capace di provocare turbolenze… di far palpitare le masse…. Non mi occupo di politica… ma so far innervosire i governanti… ora sono troppo vecchio per convincere le ragazze a protestare contro il partito al governo… ma con i ragazzi faccio miracoli… a loro piace il modo in cui mi giro la sigaretta fra i denti… e il mio perenne alcolismo… naturalmente… se fosse possibile… rinuncerei facilmente alla mia vita passata… soprattutto al mio nome e cognome… sto molto meglio quando non sono nessuno… cioè ora… in realtà volevo dire che le targhe verdi che mi hanno dato poco fa a Lubiana… rappresentano un mio grande successo… ora sono finalmente uno straniero in patria… un emigrante… con buone probabilità di guadagnare qualcosa… e di far sopravvivere la mia numerosa famiglia… nella Jugoslavia frantumata… Rade Šerbedžija, Le targhe verdi

Nell’ anno 1993, nel mese di maggio, io e Lado Leskovar ci mettemmo in viaggio con la mia Golf dalle targhe verdi, che sancivano la mia appartenenza slovena, per fare visita al nostro amico Igor Galo a Pola, più precisamente nel piccolo villaggio di Roč, dove nel mese di maggio si svolge il tradizionale festival della “Triestina”, come chiamano in Istria la fisarmonica a bottoni. Viaggiammo per l’ Istria verde e rossa, con i finestrini aperti per respirarne tutti gli odori, l’ Istria che risvegliava i ricordi dei Festival del Cinema a Pola, l’ Istria con le sue città esotiche e sconosciute nelle cui mura ci infilavamo come scorpioni gelati, desiderosi del calore delle pietre. Per tutta la strada io e il mio caro amico Lado, che a Lubiana leniva le nostre ferite dell’esilio, cantammo le vecchie hit dei Fe247


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stival di Opatija (Abbazia). Anche il suo grande successo Cercami in periferia 37 e, ovviamente, tutte le canzoni di Arsen che amavamo entrambi. E proprio a un passo dalla nostra meta, all’ ultimo incrocio prima del ristorante dove ci aspettavano i nostri amici Igor, Mirjana e altri, comparve un giovane e diligente poliziotto croato, su una moto BMW. Ci fermò e ci chiese i documenti. Gli mostrai il mio passaporto croato, ottenuto nel 1992 senza problemi, con l’ aiuto dell’ amico cantautore Miroslav Ilić. Gli feci vedere anche i documenti dell’ auto sloveni, regolari. Era sorpreso. Non si aspettava, in quella giornata di sole sulla strada isolata tra Lupoglav e Buzet, di imbattersi in un odioso “nemico dello Stato”! Non riuscendo a credere che ne stava guardando la foto, il nome e il cognome su un passaporto croato, abbellito dalla bandiera a scacchi, girava i fogli, poi di nuovo guardava la mia foto e si grattava dietro l’orecchio non sapendo cosa fare. «Com’è che hai il passaporto croato?». Non mi aspettavo una simile domanda. Probabilmente immaginava che il passaporto fosse falso; c’era qualcosa di sospetto, che ora lui avrebbe scoperto sistemando tutto. «Me lo hanno dato delle brave persone». Silenzio. Uno stormo di uccelli neri volò basso sopra le nostre teste. «Signore… è Rade Šerbedžija…» cominciò Lado. «A te non ho chiesto nulla». Sorrisi a questa frase, aveva un’ intonazione che in quel vecchio Paese distrutto avevo sempre sentito. L’ uniforme non aveva cambiato nulla, la scuola era rimasta la stessa. Una volta mi ricordo che alle sei del mattino, quando la gente ancora assonnata corre al lavoro «con il cuore sotto le tute blu»,38 giravo il film Il giornalista con Fadil Hadžić.39 Con i suoi molteplici talenti Fadil era molte cose ma soprattutto uno scrittore, anche se ha diretto alcuni ottimi film. Quel mattino il nostro brillante cameraman Tomislav Pinter – che con la poesia della sua ci248


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nepresa riusciva sempre a conferire ai nostri film la necessaria dimensione “pinteriana” e, nonostante la loro incompiutezza drammaturgica, a elevarli sopra la superficialità provinciale – era salito al quarto piano di un edificio all’angolo tra la via Šubićeva e via della Rivoluzione socialista a Zagabria per riprendere con la candid camera la scena che poi si sarebbe girata giù all’ incrocio davanti all’edicola. Tutta l’équipe era posizionata (meglio dire nascosta) in un piccolo parco, protetto dagli sguardi dei passanti da un’ alta siepe. Al segnale dell’assistente alla regia mi misi in azione. Indossavo un eschimo verde, che in quegli anni amavano portare i nostri giornalisti, e gli occhiali: ero abbastanza ben camuffato perché i passanti non mi riconoscessero. Arrivato all’edicola, cominciai a buttare i giornali del mattino da tutte le parti, gridando che tutto era una menzogna e che non bisognava leggere quei mucchi d’ immondizia che ogni giorno ci mentono e ci ingannano. La gente reagì come ci aspettavamo. Nessuno sembrava avermi riconosciuto e, in caso contrario, avrebbe comunque pensato che un attore ubriaco stava di nuovo combinando le sue porcherie e disturbando le mattinate tranquille della classe operaia che ogni giorno si reca al lavoro e senza la quale la città non potrebbe cominciare una nuova giornata. Ah, questi artisti, anche se talvolta ci piacciono, fanno sempre casini e seminano il panico con le loro vite lascive e le loro sbornie mattutine! Nel bel mezzo della recita, avevo visto avvicinarsi un poliziotto vero, e non il nostro Vlado Kovačić che aspettava, dietro la siepe, il segnale per entrare in scena con me e, secondo la sceneggiatura, chiedermi i documenti e arrestarmi. Per qualche secondo pensai a cosa fare, la scena non veniva interrotta, il che significava che Fadil aveva trattenuto il poliziotto finto per vedere cosa sarebbe accaduto con quello vero, che era apparso inaspettatamente. Il poliziotto era grosso e alto, con baffi alla Francesco Giuseppe che gli conferivano un aspetto austroungarico o da vecchio funzionario del Regno di Jugoslavia, non quello di un poliziotto temprato dallo ju jitsu. «Ehi, amico, cosa stai facendo?» mi chiese avvicinandosi. 249


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Mi sistemai soltanto gli occhiali, facendo un gesto con la mano e pronunciando qualcosa di incomprensibile che voleva significare «lasciami in pace». In quel momento il ju jitsu in divisa azzurra mi prese la mano e con incredibile velocità e abilità mi rovesciò sopra le sue spalle, così volai come una piuma oltre il suo berretto azzurro finendo con tutto il peso sul marciapiede di cemento di via della Rivoluzione socialista. Vidi davvero le stelle, che dalla mia prospettiva di cemento volteggiavano intorno alla sua stella rossa. Di colpo entrò in scena il nostro poliziotto cinematografico, Vlado Kovačić, e gli disse con quella sua voce roca e rasposa: «Lascia stare collega, ci penso io!…». Mi portò fuori dall’ inquadratura, nel giardino dove la nostra équipe stava bevendo il caffè. Non passò molto tempo che il miliziano venne verso di noi. All’edicolante, che gli aveva spiegato «che si trattava di un film, che l’attore era Rade Šerbedžija» e che lui lo aveva appena catapultato sul cemento umido di via della Rivoluzione socialista, rispose in tono professionale che a lui non gliene fregava nulla di chi fosse Rade Šerbedžija e che non si poteva «fottere di mattina la classe operaia» e buttare da tutte le parti i giornali che, in fin dei conti, erano proprietà dello Stato. Una settimana dopo la mia caduta mattutina, in seguito alla quale sentii un dolore al collo per mesi, mi svegliò il campanello della mia casa in via Medulićeva. Mia moglie Ivanka, con quel tono di voce ufficiale con cui mi si rivolgeva sempre quando rincasavo a notte fonda e quando si annunciava qualcuno dei miei parenti al telefono o sulla porta, disse: «È arrivato tuo zio!». Mio zio Mito Matijević non veniva spesso a trovarmi e mi chiesi cosa lo avesse indotto a presentarsi da noi così di buon mattino. Era in uniforme da poliziotto con le stelle gialle che brillavano e annunciavano il suo alto grado. Era il comandante della stazione di polizia di Medveščak. Dopo i saluti di rito e una grappa bevuta d’ un sorso (secondo l’ abitudine della Lika gliela offrii subito), si rivolse a me con una voce seria e formale, che sottointendeva un sincero rimprovero. 250


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«Senti nipote, va’ a farti fottere, come hai potuto permettere a quel moccioso di buttarti per terra come fossi un pivellino? Per colpa tua tutta la stazione mi prende per il culo». Di nuovo, secondo certe nostre leggi balcaniche, il circolo si chiudeva. Come potevo protestare contro quell’omone arrogante se mio zio era un comandante di Polizia e, pur essendo un uomo onesto e buono, anche lui qualche volta aveva torto le mani o il collo a qualcuno… «Non puoi guidare una macchina con la targa slovena e i documenti croati» disse quest’ altro omone erzegovese di cui conoscevo bene l’ accento dopo il ruolo di Matan di Imotski.40 «Posso» dissi. «Eh no, non puoi». «Ho la residenza temporanea, o come si dice da noi, momentanea, in Slovenia». «Non credo funzioni così». Persi le staffe. Tirai fuori il mio passaporto sloveno e gli dissi: «Così, invece, posso?». «E adesso cosa sarebbe questo?». «Questo cosa?». «Questo» disse sventolando davanti ai miei occhi il passaporto sloveno. «Un passaporto. Il mio documento di viaggio». «Com’è che hai il passaporto sloveno?». Non volevo dire: «Me l’hanno dato delle brave persone» per non provocarlo ulteriormente. «In Croazia non si possono avere due passaporti». «Sì che si possono avere, invece» dissi. «Mi sono informato. La legge lo permette». «La legge?». «La legge». «La nostra legge?». «La legge». Prese i miei documenti e si diresse verso la sua moto. Aveva un radiotelefono e chiamò la sua stazione. 251


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Il suo forte accento dell’Erzegovina stonava con l’ amenità del paesaggio circostante, dove la versione “ciakava”41 del croato mischiata con l’ italiano aveva creato una lingua particolarmente armoniosa. Anche se era distante cinque o sei metri, si poteva sentire cosa diceva; una delle caratteristiche principali degli erzegovesi consiste nel gridare forte al telefono. «Ha due passaporti… Sì, sì… Il passaporto sloveno e quello croato. Sì» strillava. Poi qualcuno dall’ altro capo probabilmente gli chiese se mi aveva riconosciuto. «Su una foto gli assomiglia, ma sull’ altra per niente». Quindi pronunciò il mio cognome ed evidentemente rimase sorpreso quando una voce istriana gli ordinò di lasciarmi andare. Non mi lasciò in pace. Continuò a lungo con le sue minacce e i suoi sospetti. Si passava tra le mani i miei documenti, i due passaporti, chiamava ancora la stazione, faceva di tutto per riuscire ad acchiappare la preda e realizzare la grande impresa della sua carriera. Poi apparve un altro suo collega sulla moto, sicuramente inviato dalla stazione di polizia; cercò di spiegargli qualcosa ma il primo lo cacciò via deciso e arrogante, dicendogli di farsi gli affari propri. Il nostro omone camminava su e giù per la polverosa strada provinciale, alzando e abbassando la cornetta, ponendomi domande che avrebbero dovuto farmi perdere le staffe, come avevano sempre fatto i suoi predecessori, inclusi i miei parenti della Lika, riuscendo quasi sempre con simili metodi a raggiungere il loro scopo, e concludendo per lo più la faccenda con un amichevole tocco di manganello o con una stretta delle loro mani forti e nodose. «Questa volta, caro mio, non ci riuscirai» dissi a me stesso. «Non ti libererò dal mio abbraccio. Creperemo entrambi su questa strada polverosa, tu con le tue pistole, io con le mie poesie». E chi sa quanto saremmo rimasti così, perché avevo deciso di pazientare all’ infinito – qualche cosa me l’ avevano pur insegnata 252


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le pericolose avventure degli ultimi anni – se il suo telefono non si fosse messo a squillare di nuovo. Nel rispondere lui si drizzò sull’attenti e abbassò persino la voce. Questi nostri omaccioni sanno trasformarsi rapidamente da lupi in agnelli, così anche quest’esemplare, dopo aver parlato con qualcuno d’ importante, si ammansì di colpo. Mi restituì i miei passaporti quasi scusandosi e ci lasciò andare verso l’osteria del piccolo villaggio istriano di Roč, da dove si sentivano la musica della “Triestina” e i profumi dell’ agnellino e della malvasia della casa.

Paura… Igor e Mirjana Galo hanno fatto nascere la fondazione benefica “Homo”, con la quale combattono per i diritti umani. Il loro nobile lavoro li ha ricompensati con la soddisfazione dei giusti e la corona del coraggio civile e umano. Hanno aiutato senza risparmiarsi la gente delle regioni croate, soprattutto della Lika e della Krajina, ma spesso ciò li ha esposti a minacce e persino a bastonate da parte del primitivo potere poliziesco locale. In tutti i miei anni di esilio in Slovenia e a Londra, il loro numero di telefono ha collegato con un filo incandescente le nostre lontananze. Nel 1998 Igor mi aveva invitato al suo Festival del Cinema a Oprtalj (Portole) che, con grandi sforzi e l’ aiuto di qualche amico, riusciva a organizzare ogni estate sulla piccola piazza davanti alla chiesa. Aveva visto il film di Francesco Rosi La tregua, nel quale facevo la parte del Greco. Amavo questo film. Mi piaceva Rosi e soprattutto John Turturro, con il quale strinsi amicizia. In Croazia non ha avuto distribuzione e nessuno l’ha visto, così come del resto nemmeno Broken English. Mi dispiace perché i film che interpreto all’estero li faccio anche perché il pubblico nel mio Paese possa essere orgoglioso di me, e credo che questi due ruoli siano anche i miei migliori tra quelli realizzati nei film angloamericani. 253


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Prima della proiezione tenemmo un piccolo concerto con mio figlio Danilo e le mie figlie Nina e Vanja. Lenka doveva inseguire la piccola Milica, che correva intorno alla piazza: aveva appena iniziato a camminare. Era venuta molta gente da Pola, ma anche da Zagabria. Era venuto a vedermi anche Stipe Šuvar. Ero davvero felice. Mi chiamò a lato della chiesa, dove mi aspettavano i suoi vecchi compagni di partito, oggi tutti clandestini provetti. «Eh, mi mancavate giusto voi» ridevo dentro di me pensando a quanto fosse tragicomica quella mia resurrezione croata semiclandestina, se alcuni vecchi comunisti, membri del Partito dei Lavoratori di Šuvar, venivano a vedermi in un piccolo luogo dell’ Istria per sostenere la mia prima apparizione semiufficiale in Croazia. Da Oprtalj Lenka e io andammo con i ragazzi a trascorrere una settimana in un piccolo bungalow a Verudela, vicino all’ albergo Histria di Pola. Era la prima volta dopo molti anni che facevo un bagno nell’Adriatico. Giocavo con le mie bambine in una piccola baia, raccogliendo insieme a loro granchi e conchiglie, e aiutando Milica a costruire il suo primo castello di sabbia. Di sottecchi osservavo i bagnanti, poco lontani da noi, che sembravano distogliere lo sguardo. Fingevo di essere molto preso da Nina e dal suo castello sulla riva, ma seguivo ogni mossa dei vicini. Un uomo dai capelli rossi si alzò e guardò verso di me, mentre la sua, suppongo, compagna gli spalmava con particolare tenerezza l’olio di oliva sulla schiena, sussurrando qualcosa nella mia direzione. «E che cosa ci fa lui qui?» esclamò l’ uomo mentre la donna iniziava a calmarlo. Presi Milica in braccio e la portai da Lenka, che stava insegnando a Vanja e a Nina a fare i tuffi da uno scoglio vicino. Le dissi che sentivo troppo caldo e che andavo in stanza a riposarmi un po’, mentre non vedevo l’ora di andarmene per non sfidare il destino con la mia presenza. Mi sdraiai nel nostro piccolo appartamento ascoltando le voci delle mie figlie che giungevano dalla spiaggia attraverso la pineta. 254


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Era la prima volta che venivo con loro in Croazia e più la notte avanzava più sentivo un certo timore. In tutti gli anni in cui ero venuto da solo non avevo avuto paura, perché sapevo che il ghiaccio intorno a me si sarebbe sciolto, oppure me ne sarei andato via per sempre da queste mie calde sponde verso i freddi mari del Nord. Il sole tramontava lentamente: a quell’ora molti anni prima Ljubiša Samardžić fischiettava sotto la mia finestra dell’hotel Brioni perché andassimo insieme a giocare a calcetto, cosa che durante il Festival del Cinema di Pola facevamo ogni giorno a Verudela. Poi apparve la mia bella moglie, con la sua pelle scura da boliviana, che sotto il sole istriano risplendeva come non mai. Camminava con i movimenti di una danzatrice di flamenco insieme alle mie bambine che, felici, corsero ad abbracciarmi. La notte, calda e afosa, era scesa su Verudela. Lenka e le bambine si addormentarono, stanche delle loro avventure diurne. I corpi nudi e abbandonati sudavano nella morsa d’ afa e nell’umidità della sera estiva. Invece di aprire porte e finestre, avevo sbarrato tutti gli ingressi al nostro piccolo bungalow. Non riuscivo ad addormentarmi. Svegliai Lenka alle cinque, chiedendole di fare le valigie e di tornare subito in Slovenia. Le dicevo frasi sconnesse: avevo visto che mi guardavano male e non volevo subire provocazioni pubbliche, di matti in giro ce ne sono sempre e così via. Cercò di convincermi a non fare stupidaggini e a calmarmi, le bambine erano così felici al mare e sotto la pineta, ed era benefico per la bronchite di Nina. Erano lì anche Igor e Mirjana e Branka e Tonči, Danilo e Paola e il mio amico Delbianco, ai tempi sindaco di Pola. Quando capì che il mio panico era davvero serio, accettò di andare via, ma mi propose di dormire un po’ perché bisognava guidare fino a Lubiana. Accarezzandomi teneramente si mise a sussurrare parole d’ amore come solo lei sa fare e alla fine riuscì a farmi addormentare. Mi svegliarono le voci delle mie bambine che cinguettavano di felicità e si preparavano a nuove avventure. Vanja si era già messa il costumino e i braccioli. Nina correva in continuazione 255


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sul terrazzo raccomandandosi di fare in fretta, mentre Milica mi porgeva la sua ciambella perché gliela gonfiassi. Dalla cucina si sentiva l’ aroma del caffè caldo e Lenka gridava come sempre: «Colazioneeeeee!». La notte era dietro di noi e il nuovo giorno portò con sé l’ottimismo. Le mie paure svanivano lentamente davanti a quel mattino pieno di sole e davanti alle mie bambine che mi tiravano fuori dal letto trovai la forza di restare. Presto fummo di nuovo sulla spiaggia circondati dalle stesse persone del giorno precedente e Lenka, sorridendo come sa fare solo lei, disse: «Qui non ti guarda male nessuno, scemo che non sei altro. Ci sono solo cechi e ungheresi. Nessuno ti conosce». Sorrisi anch’ io e provai un gran sollievo, ma non guardai dalla parte dove poche ore prima quell’ uomo aveva gridato: «E cosa ci fa lui qui?». La notizia che ero in vacanza a Verudela dilagò in tutta Pola e volò fino a Zagabria, mettendo in subbuglio molti dei miei amici. Per primo chiamò Darko Rundek. E non solo chiamò. Prese il pullman e ci raggiunse. La sera stessa era seduto sul nostro piccolo terrazzo, dove ci scolavamo la malvasia come un tempo vino e soda a Zagabria, suonando la chitarra fino a notte fonda. Restammo a Verudela una settimana e riuscimmo a vedere molti amici: tra gli altri, Marjan e Majda di Kranjska Gora. Marjan Pogačnik era il più giovane ammiraglio dell’Armata popolare jugoslava. La nostra amicizia era iniziata negli anni ottanta ed è proseguita fino a oggi. Fu lui a portarmi a Brioni la prima volta, quando era vietato l’ accesso ai civili. Mi aveva mostrato l’ isola di Vanga e la residenza di Tito. Ammiravo quello strano paradiso umano e animale, dove tutto irradiava una calma assoluta. I cervi e le cerbiatte passeggiavano per il loro regno e tutto ricordava le serene valli del paradiso. L’ unica cosa che mi aveva scioccato era la stanza personale di Tito, scavata nella terra e lussuosamente arredata, da dove, seduto su comode poltrone di pelle, attraverso le aperture nella 256


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parete e da dietro le sue grandi lenti oscurate, il Maresciallo sparava sulle anatre che volavano sopra il laghetto artificiale. Percependo il mio disagio, il leggendario Šandor, che ci aveva accompagnato attraverso le bellezze delle isole Brioni, ci spiegò che cacciare gli animali era necessario per rispettare l’equilibrio della fauna. Facevo cenno di sì con il capo, anche se non riuscivo affatto a capire perché mai proprio Tito dovesse occuparsi di questo equilibrio sull’ isola ammazzando anatre innocenti, accomodato nella sua poltrona di pelle nera con il Chivas Regal in mano. Nel 1991 Marjan Pogačnik si rifiutò di obbedire agli ordini del Comando supremo e si dimise da comandante della regione di Pola. Non voleva usare la forza militare contro il suo popolo e con questo comportamento suscitò la reazione dei capi dell’Armata. Poiché non aveva aderito subito al neonato esercito sloveno, non era un ospite gradito nemmeno alla nuova gerarchia politico-militare slovena.42 Cambiò professione e, come rappresentante di commercio, si mise a vendere prodotti italiani in Slovenia e in Croazia. Della vita precedente gli era rimasta solo la passione per il mare, così con la sua Majda e una piccola barca visitava le isole adriatiche, dall’ Istria a Dubrovnik, dove una volta, come capitano di sottomarino, esaminava le azzurre profondità e disegnava linee militari strategiche lungo i fondali. Lenka e io ci eravamo accordati di incontrare a Sarajevo la nostra amica Eve Ensler, nota scrittrice americana, che in un teatro della capitale bosniaca teneva uno spettacolo sulle donne bosniache torturate nei campi di internamento. Igor e Mirjana si erano offerti di portarci a Sarajevo in macchina perché anche loro avevano degli affari da sbrigare in Bosnia. Partimmo con due fuoristrada, con noi c’era anche un gruppo di attivisti della loro organizzazione. A Igor piaceva fare sorprese agli amici, quasi volesse prolungare la nostra fanciullezza e gioventù. Per questa sua particolarità tutti noi amici gli volevamo un bene dell’anima. Guidando attraverso Senj e la Lika, verso la Bosnia, a un certo momento fermò l’auto 257


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su un’altura. Ci fece uscire tutti dalle macchine. Sotto di noi si vedevano la Korenica di Tito43 e il monte Pogledalo, che avevo attraversato tante volte con mia madre, a piedi dal nostro villaggio di Bunić fino a Korenica, per andare alla fiera o a trovare i parenti. «Vogliamo andare a Bunić?» mi chiese sorridendo con i suoi occhi dolci da bambino. Provai di colpo un’emozione così forte che mi si serrò la gola. «Sì» mormorai. Scendemmo a Korenica e attraversammo una delle strade che portavano verso l’uscita dal paese. Su una delle case leggemmo la scritta “Casa dei difensori croati”, con una grande immagine di Ante Pavelić incorniciata da fiori. Per tutti i dodici chilometri della strada tortuosa non pronunciammo una parola. Si erano calmati anche i bambini, sentendo istintivamente l’ importanza e la particolarità di quel momento. Qui, sul ciglio della strada, al ritorno mi fermavo con mia madre a raccogliere nocciole e, seduto su una collinetta, le rompevo schiacciandole tra due pietre mentre ci riposavamo dal lungo viaggio a piedi. Arrivammo poi a Ruka, la “mano”, così si chiama il crocevia dove si fermava la corriera per Gospić e dove il nonno o lo zio ci aspettavano con il carro quando arrivavamo da Vinkovci carichi di valigie pesanti. Mia madre portava sempre qualcosa per i parenti mentre io saltavo in serpa accanto al nonno e allo zio, prendendo le redini e facendo volare la frusta sopra i musi di Ljuban e Bećar, che per me erano i cavalli più belli del mondo, quelli a me più cari e dai quali non scendevo per tutta l’estate.

La vecchia casa e l’erba alta Igor conosceva la strada che porta al mio villaggio natale, perché loro, disse, ci erano già venuti diverse volte per aiutare i pochi paesani serbi che vi avevano fatto ritorno, tra i quali c’erano anche due miei zii e una zia con la figlia Danica. Entrando nel villaggio, le 258


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macchine sobbalzavano sulla strada bianca e polverosa, mentre in me riecheggiavano i campanelli delle mandrie di pecore e le voci dei pastori che si chiamavano da una cima all’altra. Mi scorrevano negli occhi i volti dei nonni morti da tempo e della nonna Marija, l’ immagine della piccola vecchia cucina e della stufa di ghisa sulla quale si arrostivano le patate e ribolliva il latte. Quell’ infanzia da fiaba in pochi attimi mi riaffiorò alla mente, mentre il mio corpo era scosso da una gran febbre, la stessa con la quale avevo abbracciato mia madre morta a Belgrado. Fra le prime incrociammo proprio la strada davanti alla nostra casa, che non si vedeva nemmeno più per via dell’erba alta che ricopriva l’intero villaggio. Nessuno in macchina voleva interrompere il drammatico silenzio che ci aveva avvolti. Arrivammo davanti alla casa di zio Dušan, il fratello più piccolo di mia madre. Avevo sentito dire che lui e lo zio Mito, l’ex comandante della stazione di polizia del municipio di Medveščak, erano tornati da Belgrado un paio di mesi prima dicendo di non poter vivere lì e che preferivano tornare nella loro Lika, anche se qualcuno li avesse uccisi: sarebbero almeno morti nella loro terra. Appena mi vide, lo zio Dušan avvertì la moglie che, in fondo al cortile, stava dando da mangiare alle galline. «Danica, prendi un agnello, è venuto a trovarci mio nipote Rade!». Con gran difficoltà lo convinsi a non ammazzare l’ agnello, ne aveva solo quattro che era riuscito a comprare al ritorno nella Lika, insieme a una mucca. Era l’ intero capitale di quel contadino un tempo benestante. Bevemmo una grappa, poi andammo a piedi lungo un vicolo a salutare lo zio Mito che stava riparando l’ arnia. Era solo, i figli erano da qualche parte in Olanda, con la moglie non aveva più funzionato. E in nessun luogo, diceva, stava meglio che lì, anche se in tutto il villaggio erano rimasti solo in dieci. Mi diceva con orgoglio, versandosi la terza grappa di miele, che lui era un attivista del partito di Šuvar, l’unico in cui cre259


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deva, perché era un vero partito operaio, mentre gli intellettuali «prima complicano sempre tutto, poi lo rovinano e mandano ogni cosa a farsi fottere». Dopodiché ci incamminammo, facendoci strada tra l’erba alta, per i sentieri della mia infanzia, nel mio piccolo villaggio, attraversando gli stessi passaggi di pietra e i recinti di legno dove lasciavo le mie orme di bambino. Arrivammo al podere del nonno Vujadin e al vecchio ciliegio “asprigno” che, colpito da un fulmine, era spaccato a metà e sembrava un cumulo di rovine. Mi si contorsero le labbra al pensiero delle sue ciliegie, che pur così aspre, erano le più dolci di tutte! Non lontano, tra i susini, che ogni anno davano ricchi frutti (per questo il villaggio porta il nome di “Grasso Colle”, per via degli alberi dai rami piegati sotto il peso dei frutti violacei, e che ricoprivano rigogliosamente tutte le colline), c’erano due fossi con i resti di grandi lastre di pietra che spuntavano dalle erbacce. Lì un tempo c’era la casa dove sono nato e scoppiammo tutti a ridere alla domanda di Vanja: «E dov’è ora questa tua casa? Chi l’ha portata via?». Davvero, chi l’ha presa? Se la casa è sparita, pensai, le tombe dovrebbero essere ancora qui. Scendemmo lungo il pruneto fino alla nostra seconda casa, costruita tra il Quarantanove e il Cinquanta. Era accanto alla strada e si vedeva a malapena per gli alti cespugli che l’ avevano avviluppata. Eravamo seduti nel cortile, e Igor filmò con la cinepresa i miei capelli diradati e spettinati dal vento sopra i vecchi tetti sconnessi, mentre in un cumulo di ciarpame rimasto in mezzo alla stanza, tra foto, carte e vecchie scarpe, c’era un 45 giri rotto, quello di Non mollare, Ines, con una foto mia e di Arsen ingiallita e bruciacchiata. Poi volli andare al cimitero e come un samurai, con Nina sulle spalle che mi abbracciava forte intorno al collo con le sue manine, così minuscola che sembrava quasi appiccicata al mio corpo, vagai per i campi deserti e abbandonati. Quando arrivammo al cimitero cercai tra l’erba alta, i rovi e le croci piegate, quel piccolo monumento di pietra con una sbiadita stella a cin260


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