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«È successo qualcosa di brutto?» «Non lo so… Dove?» «A lei.» «No, vivaddio, cosa le prende?» «Così, pensavo…» «Prego, si accomodi, posso offrirle una grappetta? La vedo pallido, giornata pesante?» «No, piuttosto volevo vedere se era tutto a posto.» «Perché mai non dovrebbe esserlo?» «Pensavo al telegramma, quello di ieri… Dovesse servirle qualcosa…» «Uh, perdio, ha fatto bene a dirmelo, non l’ho neppure aperto.» Il professore e il Postino stavano seduti sul balcone, il Postino beveva la travarica rimasta ancora dai tempi del povero Dominis, professore di lingua e letteratura croata, andato in pensione e trasferitosi a Jelsa, dove ogni anno distillava grappa affogandoci dentro delle erbe amare e medicamentose, finché un giorno non l’avevano trovato stecchito. Era morto come Ivanka: davanti agli occhi gli passavano galassie, eoni e vasi con viole del pensiero. Sono dieci anni che il Postino beve la grappa di Dominis ogni volta che il professore lo invita a entrare, per giunta ne riceve in regalo una bottiglia per Natale e per Pasqua, non si è arrivati neppure a consumare metà della riserva, tanta è la grappa che Dominis ha lasciato in eredità. Il professore teneva davanti a sé il telegramma e non smetteva di sorprendersi. «Tadija Melkior Adum, a dire il vero, è stato un mio zio, come no, quel diavolo d’uomo era mio zio, fratello maggiore di mio padre, Ilija Baltazar Adum, ma, vede, io ho quasi sessantasei anni, sono vecchio ormai, mio padre se n’é andato al cospetto divino cinquantadue anni or sono, come potrei credere che soltanto ora sia morto suo fratello? Aveva persino cinque anni di più! Se non faccio male il conto, il mio povero babbo ora avrebbe novantasette anni… Ma no, non è possibile! Penso che qualcuno abbia voluto farmi Freelander


uno scherzo, oppure che stiano tentando di coinvolgermi in chissà quale sporca faccenda. Sa lei i tempi che corrono e in quale mondo viviamo. Bisogna essere prudenti, caro il mio Postino!» «Quando l’ha visto l’ultima volta?» chiese il Postino. «Ecco, vede, questo è un altro problema. Io non l’ho mai visto. I due fratelli avevano litigato poco dopo la mia nascita, potevo avere circa sei mesi. Non era una baruffa qualsiasi, c’era del sangue, sulle scale volavano pistole e asce, e in tutto questo casino mio padre era rimasto senza il pollice destro. Sa lei cosa vuol dire rimanere senza un dito della mano, senza il pollice? È come se ti tagliassero una mano intera, anzi, peggio, ti rimangono soltanto quattro dita per ricordarti ogni momento che con loro non puoi far niente. Senza il pollice con le altre dita non puoi proprio far niente, nulla di nulla. Così, per la disperazione, il mio povero padre si metteva a grattare sulle pareti della cucina, finché non cominciavano a sanguinargli le dita rimaste. Quel pollice perso lo ha portato alla morte. È crepato come un cane, soltanto perché non sapeva che farsene delle altre dita. Avrebbe certamente vissuto altri venti o trent’anni se il fratello gli avesse fatto fuori pure le altre quattro dita.» «Per quale motivo era scoppiata la baruffa?» «Non lo so, a casa non se ne parlava.» «E suo padre nominava qualche volta lo zio?» «Sì, eccome se lo nominava! Raccontava spesso che durante la prima guerra mondiale, in quell’inverno del 1915, il peggiore di tutti, quando erano rimasti senza legna da ardere e il nonno combatteva in Galizia, loro si scaldavano sotto il piumino. Appoggiavano le piante dei piedi l’uno su quelle dell’altro e poi giravano con le gambe come se fossero in bicicletta. Percorrevano così, con le loro biciclette, la strada verso l’America, loro due da soli, ma senza mai giungere a destinazione, in quella lontana, fantasticata America, perché a metà strada si addormentavano. Quell’inverno i bambini morivano in massa nei loro letti per via del freddo, loro due invece si erano salvati grazie alle pedalate, più che alla 14 15


perina, il coltrone caldo. Quando la loro madre, mia nonna Anka, disse ai bimbi che in America in bicicletta non si poteva andare, perché la bicicletta sarebbe affondata nel grande mare, si ammalarono tutti e due beccandosi la difterite e la pertosse, e salvandosi per un pelo. Per fortuna che era già arrivata la primavera. Ecco, così parlava mio padre dello zio Tadija. Pure negli altri racconti Tadija era sempre bambino, il caro e buon fratello maggiore, quello che lo difendeva dal mondo e con il quale pedalava verso l’America.» «Non ha mai raccontato cos’era successo dopo?» «No, mai.» «È molto strano che non l’avesse mai nominato da adulto.» «Sì, certo che lo nominava. Per lo più con minacce e imprecazioni. Diovoglia che gli si secchino gli occhi, diovoglia che ogni suo dito sia un alluce, diovoglia che un’unghiata gli strappi via la lingua e quel coso tra le gambe… Così parlava grattando la parete con le unghie. Ma, povero lui, non riusciva nemmeno a inventarsi una buona imprecazione, si limitava a borbottare, così, senza ordine né senso, stupidaggini che non facevano paura neppure ai bambini. E graffiava, graffiava, eh sì, quello sì, eccome se graffiava, fino a quando le unghie sulla mano difettata non smisero di crescere. A me, invece, ci vollero anni prima di capire a chi si rivolgeva nelle sue maledizioni. Parlava dell’infanzia del fratello maggiore, senza menzionare mai Tadija Adum adulto. E quando raccontava la storia del “diavolo Tadija”, non lo collegavo mai a suo fratello.» «E lo zio si è mai interessato a voi?» «Per quanto ne sappia io, no. Forse l’ha anche fatto, ma mia madre non me lo ha mai detto. Lei è morta cinque anni fa e lo ha nominato, mi pare, soltanto due o tre volte. Quando andavo a trovarla in ospizio, se non sbaglio era durante quest’ultima guerra, arrivavo mentre trasmettevano il telegiornale, sullo schermo scorrevano le immagini di Sarajevo e lei era solita dire: “Eh, il vecchio diavolo ha avuto quello che si meritava, Dio c’è!”. Poi si faceva il segno della croce e io venivo scosso come dalla corrente elettrica. La televisioFreelander


ne mostrava le vie insanguinate della città e lei che faceva? Lei ringraziava Dio di tutto ciò. Mi creda, non era facile.» «Eh no, non era facile davvero!» confermò il Postino versandosi un’altra grappa. Stavano seduti sul balcone, era già passato mezzogiorno, ma il sole non bruciava più con lo stesso calore; agosto era passato, si avvicinava quella stagione che non è né autunno né estate, la più piacevole di tutte. Buttato l’occhio sull’orologio il Postino si alzò, e con quel tipico lamento che si pronuncia invece del saluto, si avviò verso la porta d’uscita. Il professor Adum si sedette di nuovo sulla sdraio con il volto girato al sole e chiuse gli occhi. Sarebbe potuto star così fino a sera, non avrebbe sentito né freddo né caldo. Sentiva invece le voci provenienti dal campo giochi della scuola, alcuni ragazzi giocavano a calcio, uno gridava: «Saša, Saša, eh, fanculo, Saša» come in un film sui partigiani nel quale, quasi fino alla fine, non sai se Saša sia maschio o femmina. Dal mercato rionale di Utrine giungeva l’odore di čevapi e di petrolio; lì, da qualche parte sulla strada, ronzava un camion in panne, non aveva abbastanza spazio per girare e la cosa mise in agitazione il professore, visto che la sua vecchia Volvo era parcheggiata davanti al supermercato e i camion spesso andavano proprio là a fare manovra. Si alzò e guardò sotto. Dal sedicesimo piano si sarebbe dovuto vedere ogni cosa, tuttavia non riusciva a capire da che parte provenisse il rumore del camion. La Volvo era coperta dagli alberi. Si infilò le scarpe, controllò il baffo allo specchio e uscì. L’ascensore non arrivava mai e lui cominciò a innervosirsi. Davanti all’edificio, dei bambini raccoglievano bottiglie vuote. «Zio, zio!» gridò uno dietro di lui. Il professore si girò e i bimbi si misero a ridere. «È stato lui, è stato lui» dissero puntandosi il dito l’uno contro l’altro. Potevano essere una decina, forse anche di più, pareva che da scuola li avessero mandati a raccogliere bottiglie vuote. Guardò verso di loro, avrebbe voluto dire 16 17


che dovevano vergognarsi, ma non riuscì a proferir parola. Teneva la bocca aperta come un luccio in una pescheria, finché non gli scappò: «Andate a farvi fottere, voi e le vostre madri!». Fu spaventato dalla propria voce, poteva sentirlo qualche vicino di casa, sicché si girò e corse in un’altra direzione. Erano stati i maschietti o le femminucce? Oppure gli uni e le altre insieme? Molto strano, ma ormai negli ultimi tempi non prestava più attenzione a simili dettagli. La Volvo stava parcheggiata così come l’aveva lasciata due giorni prima, al ritorno dalla città. Colore arancione, vernice originale, anno di produzione 1975, mai scheggiata, unico proprietario… L’ anno prima voleva venderla, ma quando un gaglioffo gli offrì duecento miseri euro, lui rinunciò e non rispose più agli annunci. Doveva ricavarne almeno tre o quattromila. Era una buona macchina, affidabile, che non t’avrebbe mai lasciato a terra. Se n’era preso cura tutti quegli anni: tagliando completo due volte all’anno, controllo dell’olio, mai uscita da una strada asfaltata, neppure corso a più di centotrenta… Poteva tirare anche di più, forse addirittura fino ai centosessanta, centosettanta, ma il professore si atteneva a quella vecchia regola secondo la quale la macchina è come un buon cavallo: al trotto può attraversare mezzo mondo mentre al galoppo puoi farlo andare soltanto se tua moglie sta per partorire oppure se ti trovi in pericolo di vita. Il professore non si era trovato mai in pericolo di vita, né la signora Ivanka, che Dio l’abbia in gloria, poteva avere figli, sicché la Volvo non l’aveva mai tirata oltre i centotrenta, la portava sempre al trotto, ecco, e così l’aveva conservata per trent’anni più uno. Ora invece, vecchi e stanchi, il professore e la sua macchina stavano l’uno al cospetto dell’altra, l’uno attratto inesorabilmente dalla forza gravitazionale della tomba, mentre l’altra, così dicevano, non valeva neppure duecento euro, a mala pena due pieni di benzina, tanto quanto gli ci era voluto, nel 1975, per arrivare a Stoccolma, la Venezia del Nord, allorché il professore e la signora Ivanka erano andati a trovare la zia di lei, Silva, veFreelander


dova del feldmaresciallo Pozaić, il cui nome non doveva mai essere menzionato nelle lettere perché una volta era comparso in una foto, scattata in occasione di una qualche parata militare, nella quale, seduto su un cavallo bianco e con la sciabola sguainata, faceva rapporto a Pavelić in nome degli ufficiali croati dell’Isonzo e del Piave, ufficiali austroungarici in congedo, tutti di settanta, ottant’anni, a cui il Poglavnik aveva concesso l’onore di accedere alle file della riserva della Vojnica croata, o come chiamavano quelle formazioni, e che non si era mai più visto in uniforme militare per tutta la durata di quello Stato sciagurato, neppure vicino a qualche ustascia, ma quando avevano presentito l’imminente arrivo dei partigiani, zia Silva si era spaventata così tanto di quella fotografia pubblicata sulla copertina della rivista “Spremnost”, che aveva convinto il vecchio ad andare in esilio in Svezia, a Stoccolma, dove il feldmaresciallo era morto ormai centenario nel Sessanta e passa, sicché zia Silva cominciò a sentire nostalgia per la sua natia Zagabria, ma non aveva il coraggio di tornarci, benché non avesse mai fatto del male a nessuno, e così invitava nipoti e nipotine, grazie al Cielo ce n’erano di numerosi, a venirla a trovare a Stoccolma, ospitandoli nella sua casa ampia e luminosa proprio accanto al canale dove nuotavano papere e altri uccelli acquatici, che fissavano le finestre come se avessero voluto controllare se c’erano ospiti provenienti dal lontano Sud. Stava davanti al supermercato, fissava la sua macchina e pensava com’era possibile che non valesse più della benzina necessaria ad andare fino a Stoccolma. Già, ora per Zagabria girano parecchie macchine molto più costose, ma a Stoccolma non arriverebbero neppure, andrebbero in ebollizione già a metà strada, si fermerebbero da qualche parte nel cuore della Germania, si dissolverebbero in mezzo all’autostrada, mentre lei, la Volvo, sarebbe in grado, ne era certo, di tirare dritta fino al Polo Nord, e ora, improvvisamente, non vale un fico secco. Di quel vegliardo vale meno soltanto la sua vecchia automobile. Ecco, è così che gira questo mondo! 18 19


Peccato che nessuno lo abbia mai scritto, pensa il professore, in un qualche articolo di giornale, o meglio in un libro, perché questa frase verrà ricordata come una pura verità, una delle dieci o quindici pure verità. Era legato alla sua Volvo come ci si lega all’ultimo amico, tuttavia voleva sbarazzarsene perché gli faceva tornare alla memoria un qualcosa che gli incuteva paura anche se ne ignorava il nome. In quel 1975, quando al cospetto di tutta la sala insegnanti aveva comperato una Volvo nuova di zecca, come non l’avevano mai avuta neppure i centrocampisti della Dinamo o quel famoso scultore che innalzava i monumenti a Tito, Karlo Adum aveva trentaquattro anni. Con quel denaro, ai tempi, avrebbe potuto acquistare una casa nel rione di Šestine, oppure due case per le vacanze sull’isola di Lesina, ma lui non ci badava, era giovane, e se uno è giovane deve soddisfare tutti i desideri, e il suo desiderio più grande, appunto, era quella Volvo. Con il progresso sarebbero arrivate nuove macchine, meno costose e più economiche in fatto di consumi, ma a patto che ci fossero state la salute e la testa sulle spalle, Karlo avrebbe sempre trovato il modo di riempirsi la pancia, e se la gente un giorno si fosse trasferita sulla Luna, lui, diovolesse, si sarebbe messo a guidare pure le macchine lunari… Non gli passava neppure per la testa che la Volvo l’avrebbe accompagnato fino alla vecchiaia e che insieme a lei avrebbe seppellito i suoi cari, tutti, nessuno escluso. Esattamente ciò che era accaduto: con la Volvo aveva seppellito la madre, il fratello di lei Antun e Ivanka. Ora aveva un’idea fissa, insensata ma allo stesso tempo incrollabile com’è ogni idea fissa, cioè che la sua vita avrebbe avuto un altro significato, non sapeva dire quale, se solo avesse potuto vendere la Volvo e comperare un’altra macchina. Sarebbe stato un segnale preciso che la sua vita non s’era fermata all’età di trentaquattro anni. In effetti, il professore si disperava per una cosa che avrebbe fatto felice chiunque. Freelander


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