Il poeta e gli dei

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Walter Friedrich Otto

Il poeta e gli antichi dèi

Introduzione di Gianni Carchia Premessa di Giampiero Moretti



Introduzione

di Gianni Carchia

Raccolte nello spazio di un piccolo libro, agile e nervoso, denso di scorci improvvisi e di suggestive meditazioni, queste pagine di Walter F. Otto, pubblicate nel 1942, si situano al culmine della maturazione spirituale dell’ autore che, all’ epoca, aveva già lasciato dietro di sé i suoi capolavori, Die Götter Griechenlands del 1929 e il Dionysos del 1933.1 In conformità con la scansione stessa dei capitoli che le costituiscono, possiamo scorgervi tre ambiti tematici fondamentali che, sebbene reciprocamente autonomi, pure si richiamano fra loro, convergendo tutti intorno a un’unica idea. Come è evidente fin dal titolo, il libro di Otto si qualifica innanzitutto come un’importante discussione intorno a Griechentum und Goethezeit, per riprendere il tema posto dal celebre saggio di Walter Rehm.2 Il capitolo iniziale, mettendo a confronto Goethe e Hölderlin, si chiede quale sia l’ orizzonte mitico-religioso legittimo, al quale ancora possa rifarsi come al suo fondamento la poesia in seno alla modernità. Qui, per Otto, non v’è dubbio che, a fronte del naturalismo in qualche modo astorico di Goethe, che finisce con lo scavalcare la stessa opposizione fra antico e moderno, una riscoperta reale, non allegorica, degli antichi dèi si profili piuttosto nell’ espe1   Walter Friedrich Otto è stato definito da Károly Kerényi «colui che ha riscoperto la religione greca» (K. Kerényi, Humanistische Seelenforschung, Langer Müller, München-Wien 1966, p. 274). Per una presentazione in italiano della sua opera, ricca di indicazioni critiche e bibliografiche, si veda la Prefazione di Alberto Caracciolo a W.F. Otto, Theophania (1956), il melangolo, Genova 1983, pp. 5-18.

2   W. Rehm, Griechentum und Goethezeit, Francke, München-Bern 19694. Sul tema si veda anche la bella sintesi di J. Taminiaux, La nostalgie de la Grèce à l’ aube de l’idéalisme allemand, Nijhoff, La Haye 1967.

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rienza umana e poetica di Hölderlin. Il secondo capitolo del libro, quello più ampio e in ogni senso centrale, si determina così come un momento essenziale di quella storia della critica hölderliniana,3 che tanto rilievo ha avuto nel Novecento in rapporto a una più generale comprensione del valore e del significato della poesia nell’ epoca moderna. La ricostruzione sensibile e partecipe di alcuni momenti decisivi della poesia e della riflessione hölderliniane consente a Otto di farne il paradigma del tentativo più alto e più religiosamente ispirato di riafferrare l’ antico in seno alla modernità ma, al tempo stesso, il paradigma anche del suo ineluttabile fallimento. La definizione di ciò che è il “tragico” dell’ esperienza hölderliniana, dietro la quale s’intravede l’ ombra lunga dello scacco per molti versi analogo di Nietzsche, è la premessa dell’ ultima mossa dell’indagine di Otto. Essa consiste nella riproduzione, dinanzi al fallimento del naturalismo goethiano con il suo anarchico individualismo così come dinanzi al fallimento della mistica cultualità hölderliniana, della religiosità olimpica come autentica, eterna creazione del genio greco, nell’ ambito di una Kulturkritik radicale, senza nostalgia né utopie. Se tale è dunque la linea ispiratrice del libro, che si risolve nella constatazione dell’incapacità della poesia moderna di rivivere l’ esperienza della grecità olimpica, di rifarsi epos eroico, si tratta ora di osservare più da vicino la struttura argomentativa che la sostiene. Non si può intendere il senso effettivo dell’ atteggiamento di Otto, finché non sia chiaro chi sono e che significato abbiano per lui “gli antichi dèi”. Da questo punto di vista, è subito evidente che la sua posizione è, nell’ ambito degli indirizzi che dominano gli studi storico-religiosi novecenteschi, del tutto eccentrica; è il percorso di un isolato e di un solitario. Con la sua vigorosa reinterpretazione della religione greca come religione, innanzitutto, degli dèi olimpici cantati da Omero e da Esiodo, 3   Cfr. A. Pellegrini, Hölderlin. Storia della critica, Sansoni, Firenze 1956, in particolare pp. 206-218. Una più recente rassegna si trova in R. Ruschi, Hölderlin “filosofo” dell’idealismo tedesco. Un tema ricorrente nella storia della critica, in “Cultura e scuola”, nn. 107-108, 1988, rispettivamente pp. 131-144 e pp. 116-128.

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Otto si è situato, infatti, agli antipodi di tutta quella tradizione interpretativa che, muovendo dalla mitologia romantica e da Nietzsche, giunge a gran parte della scienza del mito contemporanea. In lui si ribalta la tavola dei valori imposta, quanto alla comprensione della grecità, dal Romanticismo. Lo sforzo romantico era stato infatti volto, sui presupposti della spiritualità cristiana, a evidenziare in seno alla religione greca quei momenti per così dire “eretici”, capaci di contraddire l’immagine ottimisticamente superficiale, di calmo e composto equilibrio, suggerita dalla religione olimpica, con la sua risoluta separazione di mondo umano e mondo divino. Nasceva da qui la riscoperta romantica di una linea profonda, al di sotto della bella apparenza olimpica, capace di collegare non senza contraddizioni l’ antico strato cultuale della religione preellenica alle religioni misteriche della tarda grecità, per il tramite soprattutto dell’ esperienza supposta eccentrica del dionisismo, religione “democratica” e sovversiva dell’ ebbrezza opposta alla religione “aristocratica” dell’ ordine olimpico. Di tutto ciò, importanti furono soprattutto le implicazioni sul piano estetico dove l’ esperienza del “tragico”, fenomeno peculiarmente “dionisiaco”, finì con il diventare il paradigma stesso dell’ opera d’arte della classicità in tutta la riflessione che prende le mosse dall’ estetica dell’idealismo tedesco. Quanto abbia pesato e quanto continui a pesare una simile tradizione esegetica, si può scorgere da numerosi indizi; uno dei più notevoli è, per esempio, la lettura in chiave “borghese” del mondo omerico proposta dalla Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno.4 È qui evidente, allora, il ruolo fondamentale che, nella prospettiva di Otto, ha svolto la sua ricerca su Dioniso. Nel libro del 1933, contestando il tentativo esemplarmente realizzato da Erwin Rohde di vedere in Dioniso un dio straniero, alternativo in origine alla cerchia degli dèi olimpici, Otto smantellava implicitamente la proposta nietzscheana, che riassume e conclude il tragitto ro4   Fra le poche eccezioni vi è, come è noto, L’Iliade ou le poème de la force (1939-41) di Simone Weil (cfr. S. Weil, La Grecia e le intuizioni precristiane, trad. it. di C. Campo, Borla, Roma 1984, pp. 11-41).

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mantico, di opporre alla trasfigurata e illusoria apparenza della religione olimpica il crudele fondamento dionisiaco dell’ esistere. In parallelo con questa messa a distanza di ogni contegno romantico – ciò che in Otto equivale a un più o meno sfumato rigetto del mondo “cristiano” ovvero “moderno”5 – si situa, però, una non meno salda volontà di difendersi dalla tradizione del neoclassicismo d’impronta letteraria e umanistica. Per Otto, il mondo degli Olimpici non è un mondo di sublime apparenza, non si riassume nell’ esclusivo dominio del dio della distanza, di Apollo; olimpicità non significa per lui, semplicisticamente, un dominio di forme emancipatesi dal reale. Al contrario, la bella apparenza del mondo classico non si pone come oblio, come allontanamento esclusivo dalla religione ctonia delle origini. Anziché scorgere nella religione olimpica una repressione o una rimozione dello strato cultuale originario preellenico, Otto vi ha sempre letto un suo inveramento, una sublimazione capace di accogliere tutta la forza dell’ origine in seno a un rischiarato ordine della forma e del rigore spirituali. Il mondo degli dèi olimpici è, in questo modo, un dominio religioso egualmente lontano dagli estremi dell’irrazionalismo romantico come del formalismo classicistico. Solo se si muove da una ricognizione esatta dei contrassegni attribuiti da Otto alla genuina religione olimpica, da lui assunta come pietra di paragone, emergerà allora il significato dell’ ambivalenza che sembra guidare il suo giudizio nei confronti dell’ esperienza hölderliniana. Non c’è dubbio, innanzitutto, che, secondo Otto, non meno che al titanismo soggettivo di Goethe e alla nostalgia classicistica di Schiller, la comprensione del carattere di realtà degli dèi olimpici dovesse restare preclusa anche a Hölderlin. Nella condizione lacerata della modernità, infatti, là dove la ragione è asservita alla natura disincantata e meccanica che pure crede di dominare, l’ aspirazione hölderliniana a una riconciliazione fra spirito e natura non può non   Su questo punto è importante soprattutto il libro del 1923, Der Geist der Antike und die christliche Welt (cfr. W.F. Otto, Spirito classico e mondo cristiano, trad. it. di C. Calabresi, La Nuova ltalia, Firenze 1973).

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nutrirsi dell’immagine di un passato che antecede il mondo olimpico. Lo stato di scissione moderno non è, infatti, se non una sinistra parodia dell’ ordine cosmico imposta dal governo di Zeus, all’indomani dell’ arcaica fusione culturale fra uomo e natura, con l’irrimediabile separazione fra il divino e l’ umano. Non già quest’ultimo equilibrio, quello classico-olimpico, bensì un’armonia più originaria, la riunificazione dell’ umano e del divino, pur nell’ ammissione della loro differenza, è la meta della pia religiosità di Hölderlin. Ora, il carattere assolutamente originale della lettura che Otto ha tentato di questa esperienza hölderliniana consiste nella dimostrazione dell’identità esistente fra la sua idea della poesia e la primitiva, preellenica unità di culto e mito. L’ esito “tragico”, quella drammatica conflittualità di ogni arcaica aspirazione mistica all’ unità che solo la nuova chiarezza spirituale della religione olimpica fu capace di trascendere, si ripete come in miniatura nell’ esperienza poetica di Hölderlin. Al centro dell’interpretazione di Otto si situa una lettura in chiave tragica dell’ Empedocle hölderliniano, sorretta da un’analisi minuta del testo teorico che lo giustifica, il Fondamento dell’Empedocle [Grund zum Empedokles], giustamente riconosciuto nella sua densità speculativa come uno dei testi decisivi dell’idealismo tedesco.6 In sintesi, la tesi di Otto è che la dialettica hölderliniana dell’“organico” – il particolare, il limitato, l’ ordine, la forma – e dell’“aorgico” – l’ universale, l’illimitato, l’infinito, l’informe –, quella divinizzazione dell’ uomo (culto) e umanizzazione del divino (mito), poterono realizzarsi solo nell’inconsapevolezza originaria, nella dimensione arcaica della comunità e della festa. Lo spazio della vita “pura”, l’ armonia originaria dei distinti lasciano invece il posto alla tragedia, allorché si presentano non più realmente, ma riflessivamente “in figura”, come mediazione sacrificale di un singolo (Empedocle, ma in fondo anche Cristo), come volon  Per una ricostruzione storico-filosofica dell’impostazione hölderliniana, si veda l’importante Introduzione di Remo Bodei a F. Hölderlin, Sul tragico, Feltrinelli, Milano 19892, in particolare pp. 30 ss. Un’interpretazione differente del Grund zum Empedokles, centrata sulla figura del Gegner, è quella che ho proposto nel mio Orfismo e tragedia, Celuc, Milano 1979, pp. 63 ss. 6

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tà individuale di riconciliazione, che arriva unilateralmente, troppo in fretta al divino, e così fallisce. La figura tragica di Empedocle, con la cui morte si realizza e naufraga al tempo stesso il progetto della riconciliazione, è allora la figura del destino stesso della poesia moderna, che vorrebbe tornare a riunire comunitariamente, nell’ unità del proprio canto, gli umani e i divini. Lo scacco di Empedocle è, per Otto, come in un circolo, l’immagine dello stesso tragico destino di Hölderlin. È sul valore che si debba accordare a questa costitutiva tragicità della poesia religiosamente ispirata – in quanto utopia di una rinnovata, consapevole armonia fra l’ umano e il divino capace di rinnovare l’ antica solidarietà fra mito e culto – che, alla fine, più oscillante diviene il giudizio di Otto. Nelle pagine che concludono il secondo capitolo, la nascita con Hölderlin di un nuovo mito della poesia, sottratta alla profanità, resa “pura” e “pia”, viene considerata il segno, proprio nella sua tragica impossibilità, dell’ avvento di una nuova comunità umana, la profezia del possibile ritorno degli antichi dèi del culto, della libera natura del regno di Saturno.7 Qui Otto sembra caricare la poesia di valenze salvifiche e fare del moderno un tragico in attesa della sua catarsi. È questo il punto dove, per un attimo, la sua posizione sembra incontrarsi con l’ escatologia negativa che, intorno al tema dell’“assenza degli dèi” dopo l’ estrema apparizione di Cristo (Brod un Wein), Heidegger ha creduto di poter trarre da Hölderlin.8 Se si persegue, però, fino in fondo il dettato più originale e più caratteristico della lettura di Otto, diventa in ultimo chiaro che il “tragico”, il fondo cultuale evocato dalla poesia, la profezia della comunità a venire sono soltanto un’altra testimonianza dello stato di scissione della modernità, la prova romanticamente evidente della sua “peccaminosità”. Davanti a ciò, per Otto, propriamente non c’è 7   L’interpretazione di Otto si rifà soprattutto a Natura e arte ovvero Saturno e Giove (cfr. F. Hölderlin, Poesie, a cura di Giorgio Vigolo, Einaudi, Torino 1963, pp. 64-65).

Un interessante apprezzamento di Heidegger nei confronti di Die Götter Griechenlands si trova in M. Heidegger, Parmenides, Klostermann, Frankfurt a.M. 1982 (vol. LIV della Gesamtausgabe) p. 181; trad. it. Parmenide, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1999, p. 222.

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scampo, non c’è futuro. Stoicamente non resta che il disincanto, disincanto anche rispetto a ciò che – come la poesia – tragicamente si oppone al moderno ma, pure, intimamente ne fa parte. Un’ascesi antitragica e antimoderna, antitragica perché antimoderna, vuole così alla fine sottrarre per sempre al tempo le figure, nate storicamente ma spiritualmente immortali, degli dèi olimpici. Non più soltanto figure, esse divengono allora gli archetipi, i simboli di un eterno presente.

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