La finestra russa

Page 1



La finestra russa



Si vive non visti Era l’unico ospite sulla terrazza del caffè, sotto la volta a vetri della stazione ferroviaria centrale di Amburgo. Con l’impermeabile addosso, sedeva a un tavolo vicino alla ringhiera, bevendo il terzo cappuccino della mattinata. Aveva lavorato per mesi in un luogo gelido, così anche d’inverno si sentiva meglio dove non c’era il riscaldamento. Là sotto, sulle larghe banchine, nei ristoranti e nei caffè, nei sottopassaggi e nei negozi, vorticavano storie distinte. Il labirinto tremava. Sguardi e contatti. Lunghi baci prima della partenza del treno. Il petto si gonfia, le ghiandole pulsano e ovunque si vada si viaggia sempre verso l’ultimo indirizzo. Lui lo sapeva, lui che era appena arrivato alle soglie del quarto decennio e si chiamava Rudi Stupar. Il nome lo doveva alla lontananza, a un amore segreto della madre quando era ancora una ragazzina, innamorata del subaffittuario, un giovane ufficiale che un giorno fu trasferito nel lontano Nord del Paese. Quattro mesi in un luogo gelido. I suoi interlocutori non li registrava più sul dittafono, come aveva fatto prima, a Belgrado. I loro racconti si spegnevano subito nel profondo del suo orecchio, perché non venivano da fuori, dalla voce di un altro, ma sempre da lui stesso. Come le meduse giunte ad arenarsi su una spiaggia ed evaporate nell’acqua bassa per l’arsura di una mattina soleggiata, le parole si sciolgono, gli sguardi si mescolano come i pigmenti e le scaglie di pelle. Tutto finisce in una salvifica onda di alta marea che rinnova il ciclo per un altro giorno. Nulla svanisce del tutto. Ogni cellula ricorda. Per questo ricordiamo che sono già le sei e mezzo, che nella scatola di latta non c’è più caffè, che bisogna sostituire la lampadina 77


fulminata nell’ingresso, che tutte le matite nel bicchiere sono spuntate, che occorre sviluppare il filmino della gita a Lüneburg e andare assolutamente in libreria. Le luci al neon dei negozi e dei caffè della stazione proiettano una luce spettrale nell’aria grigia della fredda mattinata di marzo. Di fronte al tavolo di Rudi si apre e si richiude la porta dell’ascensore, preceduta dal leggero suono di un campanello. L’enorme cabina, catapultata dal possente meccanismo, corre su e giù nella torre di cristallo. Manca ancora un’ora intera alla partenza del treno. Lui inganna il tempo scegliendosi una persona in mezzo alla folla e seguendola con lo sguardo finché non sparisce sul binario o nella porta di un vagone. Appena questo accade, individua in men che non si dica un secondo viaggiatore, appena arrivato, che col bagaglio in mano si incammina lentamente verso una delle uscite. Là ne appare un altro che lui accompagna con lo sguardo in mezzo alla folla in direzione della biglietteria. Dal posto in cui è seduto, come un regista invisibile, Rudi controlla il movimento delle comparse del film che quella mattina si svolge alla stazione ferroviaria. Solo a prima vista sembra che ciascuno si muova secondo una linea ben marcata. Tuttavia, quando osserva con maggior attenzione la persona prescelta, Rudi vede che si verifica sempre una variazione dell’intento originario, di cui certo non si può sapere nulla con certezza, eppure lui ipotizza che la ragione dell’arrivo alla stazione non sia la vetrina del fioraio, o il negozio di specialità alimentari, davanti ai quali la persona seguita si ferma in quel momento, né quella di contare gli spiccioli, come sta appunto facendo la donna che lui ha accompagnato fino al distributore di bevande analcoliche. Tutti quegli sconosciuti, sin dal momento del loro risveglio, si sono abbandonati al labirinto del giorno che li attende. Orientarsi in uno spazio piccolo rassicura che non ci si possa perdere. Toccare di tanto in tanto con il palmo il corrimano delle scale, lasciar vagare lo sguardo sulla scacchiera delle cassette della posta sulla parete dell’androne, constatare che il vicino del pianterreno da tempo non ritira la sua posta, perché gli angoli delle buste fuoriescono dalla cassetta come frecce da una faretra. La similitudine è dovuta al western visto la notte precedente. La finestra russa


Quindi, percorrere la strada, come se si camminasse in un appartamento, circondati da cose e oggetti noti. Si vive non visti, obbedendo alle lancette dell’orologio. Le vetrine dei negozi con le agende, i bloc-notes, i quaderni lussuosi, un’intera industria di biglietti da visita. Ogni sera annotare nell’agenda il piano dei movimenti del giorno successivo. Tra la visita mattutina al dentista e la serata al cinema si spalanca l’eternità del quotidiano. Nello sgradevole silenzio della sala d’attesa del dentista, o davanti alla cassa del cinema, si consumano scampoli d’infinito, perciò i lacci delle scarpe della persona che aspetta in fila, lacci multicolori, vengono registrati con la stessa intensità del volto pensieroso della giovane donna resa inquieta dal rumore del trapano che arriva dall’ambulatorio. Tuttavia è ancora mattina e le impalcature annunciano un giorno che sarà uguale al precedente solo per la quantità di tempo disponibile. Nel brulicare del formicaio, nell’attesa degli eventi, cambia il rilievo della quotidianità. Gli orologi della stazione, in questo momento, indicano le otto meno un quarto. Dall’ascensore escono tre giovani che, dopo aver riflettuto un istante, si siedono a uno dei tavoli sulla terrazza. Rudi sembra aver aspettato proprio questo per chiedere il conto al cameriere. Prende la sua roba ed entra nell’ascensore. Giudicando dalla quantità del bagaglio, si direbbe che non va lontano o che, nel caso ci andasse, sarebbe solo per uno o due giorni. Uno zaino di pelle e un borsone di tela cerata sono i requisiti di base per un breve viaggio. Nella sua tasca, però, si trova la chiave 3237 con la quale tra mezz’ora aprirà uno dei cento armadietti metallici del deposito ferroviario. Quella mattina, appena arrivato alla stazione, ha lasciato la valigia grande al deposito per potersi muovere più liberamente durante le due ore che lo separavano dal lungo viaggio. Dopo aver raggiunto con l’ascensore la banchina del pianterreno, si diresse verso l’edicola che in realtà era una libreria. In posti simili approdano spesso, attraverso un’imprevedibile e composita rete di distribuzione, libri curiosi di argomenti vari. Un anno e mezzo prima, alla stazione di Hannover, aveva comprato un libro sulle porte. In quell’antologia c’erano le foto di centinaia di porte: dai cancelli imperiali delle ville 78 79


romane, alle assi rozzamente tagliate delle dacie russe, dalle porte pesanti delle case vittoriane di Londra e Dublino a quelle finemente intarsiate del Cairo e di Alessandria, poi varie tipologie di porte del Rinascimento, fra le quali lo avevano attratto soprattutto le “porte del morto” sulle facciate delle case di Gubbio, passaggi simili a finestre basse posti a un metro sopra il livello della strada. Il carro funebre si arrestava davanti a tali aperture e la bara veniva trasferita, per la via più breve, sul mezzo che l’avrebbe portata all’ultimo indirizzo. Si avvicinò allo scaffale su cui si trovavano i giornali del Sudest europeo. L’estate precedente, quando si era trasferito da Monaco ad Amburgo, solo in pochi posti riusciva a trovare i giornali del suo Paese. Ora quasi in ogni edicola si vedevano titoli di giornali belgradesi. Comprò due settimanali. Lo attendeva un lungo viaggio. Si era deciso per il treno perché voleva percorrere la stessa strada lungo la quale quattro anni prima aveva lasciato il suo Paese. Pagò i giornali alla cassa e si diresse agli scaffali con i libri. Si fermò accanto all’espositore girevole di vetro. Lo fece ruotare lentamente, lasciando scivolare lo sguardo sui dorsi dei tascabili. I titoli pieni di pathos non promettevano molto. Tirò fuori qualche libro, lo aprì a caso e poi lo rimise a posto. Sorrise leggendo l’incipit del best seller di un famoso scrittore americano: «Mi avvicinavo al mare. Sapeva quanto lo amassi?». Per esaminare gli scomparti inferiori dell’espositore si accoccolò appoggiando la schiena contro il bordo di uno scaffale. Nell’ultimo ripiano trovò un libro sul fenomeno delle piogge acide. Si chiese come un libro scientifico di quel genere fosse arrivato alla libreria della stazione. Per una svista di chi lo aveva ordinato o per un altro motivo? Poi trovò una raccolta di fiabe indiane. Quando ormai aveva deciso di rialzarsi e di cercare una lettura per il suo viaggio sugli altri scaffali, vide il verde dorso sottile di un libro dove a caratteri bianchi era scritto: Stefan Gurecki, Il mondo invisibile. Tirò fuori il libro. In copertina una foto: la sagoma di un uomo sulle rotaie del tram che, accorciate dalla prospettiva e dall’oscurità, si perdevano in lontananza. Le facciate dei palazzi ricordarono a Rudi una strada di Belgrado che percorreva spesso di notte tornando a casa. Trovò una breve biografia sul La finestra russa


retro di copertina: Stefan Gurecki, nato a Cracovia nella metà del secolo scorso, poeta e romanziere, autore di un libro su Bruno Schulz, La geometria della soffitta. Aprendo il libro lesse la prima frase. Soffriva di una certa tensione nervosa che negli anni aveva occupato per intero la sua mente. Decise immediatamente di comprare il libro. Non provava più disagio davanti al lungo viaggio, l’istinto non lo aveva tradito nemmeno questa volta: quella lettura gli avrebbe abbreviato le ore di treno. Rimandare il piacere dopo Hannover, iniziare il libro il più tardi possibile. Fino a Budapest c’era un’intera giornata di viaggio. Uscendo dalla libreria, Rudi aprì a caso il libricino verde e su una pagina lesse: Viveva nell’Europa fra le due guerre, in un’Europa senza confini, in un mondo che è solo un intervallo tra due rappresentazioni. Viveva nel sistema delle dinastie circensi, nel mondo di Julius Meinl, il cui emblema – la testa di un nero con un fez rosso – accompagnava i suoi viaggi. Mise il libro nella borsa e si diresse verso gli armadietti del deposito bagagli. Sentì un senso di soddisfazione fluire nel suo corpo, dovuto allo slittamento dei piani della memoria. Respirava profondamente, le narici gli tremavano per la pressione dell’aria; tutto proteso nell’attesa, come gli accadeva un tempo nel teatro di provincia prima che cominciasse la rappresentazione. Le luci si spengono, il brusio si affievolisce, sul palcoscenico si mostra una fessura che si allarga con l’aprirsi del sipario, una fessura che inghiotte Rudi bambino. E sin dal momento successivo si sarebbe ritrovato in una stanza sconosciuta, circondato da mobili pesanti, o su una piazza rinascimentale, sotto il balcone su cui si affaccia una ragazza. Al deposito Rudi percorse lo stretto passaggio tra gli armadietti metallici, guardando i numeri sopra le serrature. Gettò uno sguardo nell’interno buio degli scomparti, come per verificare che dentro non ci fosse nulla. E ogni volta pensava agli ampi cassetti metallici della ditta Paradiso. Si fermò davanti al suo armadietto. Il quadrato rosso sarà subito sostituito da quello verde, appena girerà la chiave. Ancora per qualche istante quello è il suo armadietto e nasconde nel buio al suo interno un’enorme valigia, ma tra un attimo o due Rudi lascerà dietro sé uno spazio scuro e vuoto la cui gola sarà presto occupata da un nuovo boccone. Tirò fuori la valigia e si diresse 80 81


al binario. Davanti al lungo chiosco della caffetteria vide una brunetta alta che si voltava guardandosi intorno come se stesse aspettando qualcuno. Pensò che la giovane donna dovesse sentirsi a disagio perché non c’era nessuno ad attenderla, e che si girasse solo per depistare i curiosi. Mentre le passava accanto, si scambiarono un’occhiata. A Rudi sembrò che le labbra della donna sconosciuta si fossero dischiuse, accennando a un sorriso, ma già si erano superati, e solo dopo una ventina di passi Rudi si voltò. Troppo tardi. Era sparita nella mischia, sulle scale mobili che portavano alla metropolitana. Alisa Quattro mesi in un ambiente freddo. Là si conservano negli scomparti del frigorifero le storie finite, i registri degli arrivi, le cartelle con le diagnosi del patologo, l’ora e il luogo del referto. E la mano di Alisa quando aveva spostato la rotellina del termostato. Perché fa così freddo qui da te? Gli disse che aveva i palmi delle mani morbidi. Che il suo tocco infondeva calma. Erano forse le mani di un pittore? O di un terapeuta? Lui sorrise e le disse che non intendeva rompere il patto siglato durante il loro secondo incontro alla Reeperbahn. Tu continua a disegnare i tuoi motivi per cravatte e foulard, cerca idee nuove alla Reeperbahn. Io dipingerò, aggiunse Rudi. Era un gioco che divertiva entrambi, perfezionavano la comunicazione senza domande e risposte. Quando si trovavano nell’appartamento di Rudi, insieme ai vestiti si toglievano la ragnatela della quotidianità e rimanevano corpo a corpo. Affondavano l’uno nell’altra, liberi dal dover creare un rapporto sempre tendente a dettare posizioni che poi bisogna correggere: prima o poi l’intensità diminuisce. Loro mantenevano il legame con incontri stabiliti un giorno prima. Un’ora o due, talvolta una notte intera. Ma anche quello era un rapporto. Nelle ultime settimane a Rudi sembrava che vivessero nelle due ali dello stesso castello, e anche se non si vedevano per un paio di giorni, l’idea della presenza dell’altro era gradevole. Era sufficiente che Alisa partisse per qualche giorno, che lasciasse, dunque, quel castello immaginario, perché Rudi venisLa finestra russa


se pervaso da un sentimento di abbandono. E da lì mancava solo un passo per chiedersi se Alisa recitasse anche su un altro palcoscenico, così come da mesi recitava sul suo. In quei momenti Rudi pensava che ogni vita compressa in una storia, nella cornice di una biografia, somiglia a una carta geografica in cui le linee delle insenature, delle pianure e dei monti seguono la forma naturale del rilievo dando l’illusione di una completezza che in realtà non è visibile e quindi non esiste. Perché, così come la carta geografica non riporta le rocce e le baie, le acque basse e le rocce sottomarine, né fa vedere i profili delle caverne e dei tronchi di querce centenarie sui crinali delle montagne, anche la vita raccontata non contiene forse nemmeno un dettaglio importante tra quelli che le hanno dato un senso e l’hanno riempita di desiderio e di attese. Stava alla finestra. Ad appena venti metri di distanza, all’altezza del suo appartamento al secondo piano, passava la sopraelevata. I treni correvano di giorno e di notte. La parete della stanza, come un video, rifletteva i finestrini illuminati dei vagoni. Talvolta di notte, improvvisamente strappato al sonno, Rudi osservava le fiamme bianche, sentiva un forte stridore nelle profondità della casa. Tutta la scena vibrava come un film in celluloide. Nel corso di quei secondi così rumorosi desiderava che l’intera stanza, lui incluso, diventasse un’inquadratura già sul punto di dissolversi insieme alle luci rosse posteriori dell’ultimo vagone alla curva del viadotto. Poi tutto sprofondava di nuovo nel silenzio. Rimaneva solo, smarrito, su un unico fotogramma strappato da una pellicola avvezza a portar via con sé gli eventi importanti. Un sipario che cala dopo la rappresentazione. Come tanto tempo prima, nell’infanzia, sulla strada polverosa della cittadina dove era nato, dove era cresciuto, di cui Alisa non sapeva nulla. Lei, nata in una grande città portuale, non avrebbe potuto nemmeno immaginare la desolazione di quella strada, una superficie d’asfalto che si estende, senza alcun senso, in un luogo addormentato, nell’infinito del fondale marino. E persino il nome della cittadina era opaco come il colore che lì dominava, non era neanche un colore ma qualcosa a metà tra il balenare del bianco e la compattezza dell’oscurità. Grigiore e fumo. E quando, alla vigilia del suo primo anno di liceo, si trasferirono in una città vicina, 82 83


a Rudi sembrò di aver cambiato pianeta, non solo per il teatro e gli edifici che si stagliavano dando forma a strade e non più a desolanti cammini, ma anche per quegli ignoti, pur se intuibili interni i cui profili il suo sguardo afferrava nel passarvi davanti. Non è importante in quale direzione svaniscono i treni: se verso il porto di Amburgo o in direzione di Ostrvica. Questa è la voce di Danijel, che gli dice di non andarlo mai a trovare malato. In Giappone le persone raffreddate portano mascherine bianche anche per la strada, e nella metropolitana ci sono scompartimenti speciali per gli influenzati. Bisogna sempre lavare le banane, diceva Danijel. Chissà quante scimmie in Africa vi hanno pisciato sopra. Sul palcoscenico ora è un altro tempo, un altro spazio. E lui, Rudi Stupar, ansimante come un treno, collega con il suo movimento tutte quelle stazioni che senza di lui sarebbero deserte. Basta un solo sguardo che di sfuggita inglobi l’interno di una casa o il volto di una giovane donna sola al tavolo di un caffè, perché nelle vene di Rudi affluisca il sangue, perché provi quella stessa estasi che lo aveva condotto per le vie della cittadina di provincia dopo che vi si era trasferito dalla sua città natale. Il mondo si apriva, le tende si scostavano, Rudi correva verso eventi promettenti. E qualunque cosa accadesse nel frattempo, anche se spesso le circostanze non gli erano favorevoli, il fruscio del sipario accresceva l’impazienza nel suo petto, riempiendolo di un dolce timore. Alisa si spogliò e rimase in piedi nuda accanto alla finestra d’angolo. Il panorama del piccolo parco e delle navi nel porto era tagliato in due dalla costruzione in acciaio del viadotto. Un raggio di sole, penetrato attraverso le fessure delle tapparelle di legno, affondava nel volto di Alisa. Teneva gli occhi chiusi e dilatava le labbra. Il calore del termosifone le procurava piacere. Appena Rudi posò i palmi delle mani sulla sua schiena, si voltò avvicinandosi a lui, come se solo quel contatto la tenesse in vita. Il pensiero dei fianchi generosi di Alisa, lo scatto con cui si sollevava sempre dal letto per circondarlo forte con le gambe nell’attimo in cui lui si introduceva nel suo corpo, lo fece eccitare. Si liberò dei vestiti gettandoli a terra senza mai allontanare le sue labbra dalle labbra di Alisa. La baciava sul collo, sui seni, ma con ogni movimento, con ogni pensiero che La finestra russa


per un istante gli attraversava la coscienza, in realtà Rudi si allontanava, e l’eccitazione crebbe finché nel momento della fusione in lui non ci fu nient’altro che il nome di quella donna. Sì, era un trucco con cui all’inizio era riuscito a vincere un’immagine ossessiva: in una lunga fila stavano incolonnati, nudi, i suoi predecessori. E la sua gelosia non era suscitata dalla consapevolezza che quelle creature senza nome avessero goduto del corpo della donna che in quel momento gli apparteneva, ma il pensiero che per molti di loro lei fosse stata solo un oggetto, che da tempo fosse stata dimenticata o che esistesse nella mente degli ex amanti solo come il pallido ricordo di un incontro sul treno, una breve avventura vacanziera, una persona senza nome su una foto scattata un mattino dopo il festeggiamento di un compleanno, la terza da sinistra in prima fila, quella dalla figura sottile, dai seni accentuati sotto una maglietta stretta e dall’ampio sorriso che, probabilmente, era dovuto all’accoppiamento notturno con uno dei giovanotti della stessa fotografia. Forse in seguito avevano anche mantenuto un legame occasionale che poi aveva perso di significato, forse lei era stata un mezzo per migliorare il metabolismo, aveva consumato ed era stata consumata, come si consuma il cibo preferito, una bottiglia di vino buono. Sì, c’erano state serate di totale appagamento perché si viveva in modo sano, perché il corpo si nutriva di piaceri, la donna di Rudi aveva solo una camicetta sulle spalle e una mano invadente si trovava sul suo fianco nudo; e ancora più profondamente lui si insinuò nella sua prima notte, attraverso i cespugli dei ricordi inventati, le fughe dai legami familiari, dalla vita uggiosa, dalla stanchezza a scuola. O ancora – peggio – nulla di tutto questo, solo curiosità; un casuale campione di sesso maschile nella prima notte. E già non era più con la donna con cui si trovava realmente, ma con una inventata, incapace di accettare le cose e le persone così come sono. Sì, in questo ordine: le cose, poi le persone. Visto che giudicava le persone in base agli oggetti che le circondavano. Il riparo di un ampio appartamento dai soffitti alti ornati di stucchi, gli intarsi di legno nell’enorme vestibolo, il pavimento di marmo nel bagno, la vasca smaltata e lo specchio romboidale, l’odore di freddo e di polvere proveniente da ambienti tanto diversi: dalla cantina della casa di 84 85


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.