La morte a Roma

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Wolfgang Koeppen

La morte a Roma

Traduzione di Letizia Fuchs Vidotto Con un saggio di Hans-Ulrich Treichel Postfazione di Michele Sisto



Vi era stato un tempo in cui nella città abitavano gli dèi. Ora Raffaello giace sepolto nel Pantheon, pur sempre un semidio, un favorito di Apollo; ma che tristezza, quei cadaveri che più tardi vennero a fargli compagnia: un cardinale dalle benemerenze ormai dimenticate, un paio di sovrani, i loro generali colpiti da cecità, alti funzionari statali, eruditi menzionati nelle enciclopedie, artisti insigniti di dignità accademica. A chi importa la loro vita? I turisti si soffermano meravigliati sotto l’antica cupola e guardano perplessi la luce che cade su di loro come pioggia dall’unica finestra dell’edificio, quell’apertura rotonda nella cupola un tempo rivestita di tegole di bronzo. È forse una pioggia d’oro? Danae si lascia guidare dalla Cook e dall’Ente nazionale italiano per il Turismo, ma non prova desiderio. Così non alza la sua veste per ricevere il dio e Perseo non è dato alla luce. La Medusa conserva la sua testa e si sistema da buona borghese. E Giove? Si aggira forse tra noi mortali, sotto le spoglie di un piccolo pensionato? È forse il vecchio signore della comitiva dell’American Express oppure il viaggiatore assistito dall’Ufficio turistico tedesco-europeo? O abita invece dietro le mura, ai margini della città, rinchiuso in un manicomio e preso in esame da psichiatri curiosi, o gettato nelle carceri statali? Sotto il Campidoglio hanno messo in gabbia una lupa, un povero animale disperato, del tutto incapace di allattare Romolo e Remo. Le facce dei turisti, alla luce del Pantheon, sembrano pasta da far pane. Quale fornaio la lavorerà, quale forno le darà colore? 11


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La musica era stonata, non riusciva più a commuoverlo, quasi gli era antipatica come la propria voce che, incisa su un nastro magnetico, si ascolti per la prima volta all’altoparlante, pensando: questo sono dunque io, questo tronfio damerino, questo bugiardo, ipocrita, vanesio? In particolare non erano intonati i violini, avevano un suono troppo bello; non davano l’impressione del vento pauroso fra gli alberi, dei discorsi che i bambini fanno la sera col démone; la paura della vita non era così, non era così misurata, non era affatto così ben temperata. Rode più a fondo, la paura atavica, trema davanti al verde del bosco, davanti al cielo sconfinato, davanti alle nuvole che passano – questo Siegfried aveva voluto cantare, ma non vi era affatto riuscito, e poiché la sua forza non era stata sufficiente, ora si sentiva debole e sconsolato, avrebbe voluto piangere, ma Kürenberg era entusiasta e lodava la sinfonia. Siegfried ammirava Kürenberg e il suo modo di dar valore alle note e di comandare con la bacchetta direttoriale; ma vi erano istanti in cui Siegfried si sentiva violentato da Kürenberg. E allora s’infuriava, perché non riusciva a ribellarsi. Non vi riusciva; Kürenberg conosceva e capiva tante cose, mentre Siegfried aveva imparato poco e gli era inferiore nella teoria. Kürenberg appianava, articolava, accentuava la partitura di Siegfried e ciò che per Siegfried era dolorosa sensazione, ricerca di un suono, ricordo di un giardino anteriore a ogni nascita, avvicinamento alla verità delle cose, che poteva essere soltanto inumana – tutto ciò, sotto la direzione di Kürenberg, diventava umano e chiaro, musica per ascoltatori raffinati, ma che a Siegfried suonava estranea e deludente. Il sentimento, domato, tendeva all’armonia, e Siegfried era inquieto, ma in fondo, essendo di temperamento artistico, si rallegrava della precisione, della purezza degli strumenti, della cura con la quale i cento artisti della celebre orchestra suonavano la sua composizione. Nella sala l’alloro cresceva in vasi verniciati di verde; o forse era oleandro. Nei crematori vi erano piante del genere e facevano pensare a fredde giornate invernali anche d’estate. Variazioni sulla morte e il colore dell’oleandro così Siegfried aveva inti12


Parte prima

tolato il suo primo lavoro di una certa importanza, un settetto, che non era mai stato eseguito. Nella prima stesura aveva pensato alla morte della nonna, l’unica persona della famiglia da lui amata; forse perché si muoveva così silenziosa ed estranea nella rumorosa casa dei suoi genitori, risuonante del passo di stivali militari, sempre piena di ospiti. E come era stata solenne e triste la sua cremazione! La nonna era vedova di un pastore e, se avesse potuto assistervi, non sarebbe stata certo contenta di vedere con quanta tecnica e con quanto agio, igienicamente e praticamente, con quale abilità e fredda eloquenza era stata eliminata dal mondo con una predica. Anche la corona con il nastro a vivaci colori su cui campeggiava una svastica, offerta dall’associazione femminile nazista, certamente le era poco gradita, eppure lei non avrebbe mai detto una parola in contrario. Nella seconda stesura del settetto, invece, Siegfried aveva voluto esprimere qualcosa di più generico, di crepuscolare, con i suoi sette strumenti; una segreta opposizione, sentimenti ammiccanti, soffocati, romantici e fragili, e nel fraseggio pieno di sfida il suo tentativo assomigliava a un busto di marmo cinto di rose, il busto di un giovane guerriero o quello di un ermafrodito fra le rovine in fiamme di un negozio di armaiolo; era la rivolta di Siegfried contro il suo ambiente, contro il campo dei prigionieri di guerra, la rete di filo spinato, i camerati i cui discorsi lo annoiavano; contro la guerra, che ascriveva ai suoi genitori, e contro tutta la patria posseduta dal demonio e divenutane preda. Tutti loro Siegfried voleva irritare, e aveva pregato Kürenberg, un direttore d’orchestra un tempo noto anche nella sua patria tedesca, e del quale aveva letto in un giornale inglese che si trovava a Edimburgo, di mandargli esempi di musica dodecafonica, un modo di comporre indesiderato nel Reich della gioventù di Siegfried, e che lo attirava già solo per il fatto di essere messo al bando da quelli che erano al potere, dagli odiati istruttori militari, dal temuto zio Judejahn, quell’uomo potente, il cui cupo ritratto nell’aborrita uniforme pendeva sopra la scrivania di suo padre, che lui disprezzava. E Kürenberg aveva mandato a Siegfried l’opera di Schönberg e 13


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Webern, al campo di concentramento, con una lettera cordiale. Erano spartiti musicali piuttosto vecchi, dell’Universaledition, quelli che giunsero a Siegfried; apparsi a Vienna troppo presto per essere noti al giovane prima che ne fosse proibita la vendita con l’unificazione della Germania e dell’Austria. Così questa musica era per Siegfried un mondo nuovo, una porta che lo faceva uscire da una gabbia, non soltanto dal recinto di filo spinato della prigionia di guerra, ma da una morsa opprimente. E non ritornò carponi sotto il giogo, come lo chiamava: la guerra era perduta, e almeno lui era stato liberato e non si piegava più alle idee della schiatta, l’appartenere alla quale aveva sempre considerato spaventoso. Il fogliame verde nella sala aveva un aspetto polveroso, eppure doveva proprio essere alloro, poiché le foglie sembravano spezie seccate, che sebbene bagnate, galleggiassero sulla minestra ancora crude, spezzettate. Quegli arbusti davano a Siegfried una sensazione deprimente; a Roma non voleva esser triste, ma il fogliame gli ricordava con fin troppa eloquenza una minestra che non gli era mai piaciuta, il minestrone della scuola del Partito nazista, alla quale suo padre lo aveva mandato per espresso desiderio di Judejahn. Gli ricordava il rancio dell’esercito, dove Siegfried si era rifugiato per sfuggire a quella scuola. Anche nella scuola per aspiranti gerarchi del Partito verdeggiava l’alloro e nella caserma fronde di quercia ornavano decorazioni e tombe, e vi era sempre stato un ritratto di quell’ometto rattrappito e mingherlino, del Führer con i baffetti alla Chaplin, che guardava bonario la mandria degli agnellini votati al sacrificio, i ragazzi infilati nell’uniforme e pronti per l’appunto al macello. Qui, tra l’alloro e l’oleandro della sala per concerti, in quel boschetto sacro freddo e artificiale, pendeva ora un vecchio quadro del maestro Palestrina, dal viso non benevolo, ma piuttosto severo e pieno di rimprovero per gli sforzi dell’orchestra. Il Concilio di Trento aveva approvato la musica di Palestrina. Il Congresso di Roma avrebbe rifiutato la musica di Siegfried. Anche questo deprimeva Siegfried, lo opprimeva durante la prova dell’orchestra, benché si fosse messo 14


Parte prima

in viaggio per Roma già attendendosi quel rifiuto e cercando di convincersi che la cosa gli era indifferente. Attorno al Pantheon si stende un fossato. Un tempo era una strada e conduceva dal tempio di tutti gli dèi alle terme di Agrippa. L’impero romano crollò, la decadenza riempì il fossato, gli archeologi lo scoprirono. Avanzi di mura si alzano ormai rovinati dalle intemperie e ricoperti di muschio, e sui tronconi stanno accoccolati i gatti. Gatti ve ne sono dappertutto, a Roma, costituiscono la famiglia più antica della città, una dinastia orgogliosa come gli Orsini e i Colonna: sono davvero gli ultimi veri romani, ma romani ormai decaduti. Nomi cesarei! Si chiamano Otello, Caligola, Nerone, Tiberio. I ragazzi li circondano a frotte, invitandoli e stuzzicandoli. I bambini parlano rapidissimi, con voci acute, stridule, voci che suonano gradevolmente all’orecchio del forestiero. I ragazzi giacciono proni sul muro che circonda il fossato. Il fiocco sul colletto da scuola trasforma i loro visi di mocciosi in piccoli Renoir. I grembiuli sono scivolati in su, i calzoncini sono assai limitati, e le gambe sembrano quelle di statue fuse nel metallo e ricoperte da una patina di sole e di polvere. Ecco la bellezza dell’Italia. Adesso si sentono delle risate. Stanno prendendo in giro una vecchietta. La pietà si presenta sempre sotto l’aspetto di figura impotente. La vecchia cammina a fatica, appoggiandosi a un bastone, e porta da mangiare ai gatti. Un giornale ripugnante, tutto bagnato, racchiude quel cibo. Sono teste di pesce. Sul foglio stampato, imbrattato di sangue, il segretario di Stato americano e il ministro degli Esteri russo si danno la mano. Entrambi miopi. I vetri dei loro occhiali mandano lampi. Labbra contratte fingono un sorrisetto. I gatti brontolano e soffiano scagliandosi l’uno contro l’altro. La vecchia getta il cartoccio nel fossato. Teste tagliate via con il coltello dai cadaveri marini, occhi cavati, branchie scolorite, scaglie iridescenti precipitano fra il branco miagolante e che batte la coda. Carogne; un odore acuto di escrementi, di secrezione, di bramosia di riproduzione, un lezzo dolciastro di putredine e disfacimento sale nell’aria e 15


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