Lotano da loro

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Lontano da loro



Non come un gioiello, ma anche un segreto è qualcosa che si porta. Luc, per lo meno, l’aveva scritto in fronte che si portava dentro una storia che non ha mai voluto dire. O se l’ha detta, è stato a mezze parole, con formule tutte sue, piene di mistero, quando poi l’unica verità che ci ha lasciato, scarabocchiata su un post-it nella sua camera, è una frase incompleta, scritta con una biro nera senza più inchiostro. Chissà come avrà dovuto calcare, tanto quella frase gli stava a cuore. Ma Luc non poteva andarsene senza lasciar cadere dalla sua bocca la frase che aveva dentro, ha detto sua madre. Per raccontarla, questa storia della frase che Luc avrebbe avuto in bocca, Marthe ha abbassato gli occhi. E poi si è passata le dita sulle labbra e c’era un po’ di saliva negli angoli, delle macchioline bianche che le sue dita hanno tolto un attimo prima di bisbigliare che forse tutto era successo proprio perché, a forza di stare troppo vicini, non avevano visto niente di quello che non andava. Per questo Luc era partito. Per questo aveva dichiarato che lui doveva partire, che non sarebbe comunque potuto restare. Anche se laggiù non avesse trovato lavoro, Luc diceva che ci sarebbe andato lo stesso (con quel suo modo così sottile di disprezzarci, noi gente di qui). Solo a guardarci noi ci sbraniamo, aggiungeva: è così, nel bianco dell’occhio non abbiamo altro da strappare se non la noia che lo rende giallo, che trasforma le illusioni prospettiche incollate sulla retina. Il domani, 7


nient’altro che una ripetizione dell’oggi. E quelli che erano ancora capaci di infiammarsi per un domani tutto rose e fiori, lo facevano ridere, voglio proprio vedere, diceva Luc, una vera manna per rimandare sempre al giorno dopo i limiti dell’autentica voglia di cambiare vita. Lui non poteva. E lei lo sapeva, Marthe, perché glielo aveva sentito ripetere spesso, in tutte le salse, che per lui così era impossibile, starsene lì a sperare nell’attesa che la felicità arrivasse fino a noi; e poi, che cos’è quello che noi chiamiamo felicità? All’inizio aspettare, aspettare un po’ e poi un giorno dirsi ecco ci siamo, il vicino, il vecchio Lucas, stavolta se ne va in pensione. Dirsi non lo vedremo più arrivare, davanti al cancello di casa sua a mezzogiorno in punto, e ripartire sulla sua bici un’ora dopo. L’orologio Lucas, finito. Una fortuna. Geneviève, mi aveva detto Marthe, così abbiamo la possibilità, con questo posto libero, che Luc abbia un lavoro alla cartiera (e tutte le parole che venivano a rapprendersi intorno a Luc, con i soliti ritornelli: non ti ucciderà mica, ragazzo mio, lavorare un po’. I ritornelli triti e ritriti sull’indipendenza in palio, comunque un vero lavoro, non capita certo tutti i giorni che prendano dei giovani per sostituire i vecchi). Quando gliene parlavamo, Luc non ascoltava. E io dicevo a Marthe, lo vedi anche tu che se ne frega di lavorare, facile per lui. Lei però lo sapeva già e rispondeva che un giorno comunque ci sarebbe dovuto andare, non lo terremo mica a casa tutta la vita, questo no, non certo a sbafo. C’era qualcosa in lui che non voleva crescere. Qualcosa che si era inceppato da qualche parte, ma il lavoro non è stato lui ad averlo, no, il che del resto non è sembrato inquietarlo troppo; certe volte, quando piove per troppi giorni e c’è molto vento, le balle di carta marciscono lì dove sono, dietro la fabbrica. E l’odore di marcio infesta tutta la città. C’è da non resiLontano da loro


stere, tanto l’aria è infetta, vischiosa, così quando Luc ha saputo che il posto non sarebbe stato suo non ha fatto una piega, piuttosto una smorfia di soddisfazione. Anzi no, neanche. È stato Jean ad andare da lui a dirgli che non l’avevano preso, mi ha detto Marthe. E questa storia li portava a ripetere sempre le stesse domande: che cosa ne faremo di te, diceva Jean, e tua madre si preoccupa e io non ho tempo, tu dovrai darti una mossa perché a noi i fannulloni non piacciono mica tanto. E concludeva sempre nello stesso modo, che loro due, Jean e Marthe, a quindici anni lavoravano già. Allora Jean diceva a Luc: te lo scordi di restare tutto il santo giorno nella tua camera a non far niente e a contare i fiori della tappezzeria. Perché Luc, è vero, restava tutto il giorno nella sua camera. Non per ascoltare musica, no, lui se ne stava lì sdraiato sul letto a guardare i poster degli attori, in bianco e nero, con cui aveva ricoperto i muri un po’ per nascondere la tappezzeria (non gli piaceva la carta che avevano messo), un po’ anche per tenersi occupato. Certe volte li cambiava di posto, ogni tanto ne aggiungeva uno nuovo, spesso di Gary Cooper, ne aveva tanti di Gary Cooper, il suo preferito probabilmente, allora di sicuro meglio questo, così dicono, che andare in giro a spendere. Ma dicono anche: questo va bene per un po’. E poi ha trovato lavoro a Parigi. Non si sa come gli sia arrivato quel lavoro, un bar che cercava qualcuno per la notte. Luc diceva di conoscere il figlio del padrone e che era naturale avessero pensato a lui. Tutti allora erano più tranquilli. Soprattutto lui. Contento di partire perché di giorno, diceva, avrebbe potuto vedere dei film, quelli nuovi certo, ma soprattutto i vecchi film che lui conosceva a memoria e che adesso avrebbe potuto vedere al cinema, in una vera sala, su un grande schermo. Luc lo diceva con quello scarto che c’era sempre 8

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tra ciò che è noto a tutti e il modo che lui aveva di sottolinearlo, già nello sguardo. Diceva che un film si comincia a vederlo davvero solo dopo la terza volta, forse nemmeno, la sua voce si alzava, i suoi occhi si spalancavano mentre dichiarava: in qualche caso persino dopo dieci volte si comincia appena a intravedere. Luc diceva inoltre che un grande schermo ti sovrasta e che, quando l’immagine lo colpisce, poi rimbalza verso di te per colpirti ancora più forte dentro. Non tanto da inondarti e sommergerti, questo lo fa comunque: ma il modo che l’immagine ha di afferrarti è qualcosa che picchia da dentro. Così hanno preso il furgone di Gilbert, suo zio, e sono andati tutti e tre a Parigi, per aiutarlo a sistemarsi in una piccola mansarda trovata non si sa bene come. Una mansarda ammobiliata (infatti nel furgone c’erano poche cose), una camera semplicissima, da studente, con una specie di piccolo lucernario che si apriva su un cortile interno. C’era un lettino contro il muro più basso e poi un lavabo. E un caminetto che non si poteva usare, così mi ha detto Marthe, aggiungendo che comunque Luc non avrebbe mai trovato il tempo di usarlo. Marthe si fregava la nuca per dire questo, forse non proprio per dirlo ma solo per poter sopportare di ripetere un imperfetto che lei mai avrebbe accettato, le tremava la voce a dire era, quasi avesse la vergognosa impressione di mentire. Perché Marthe ce l’aveva, la vergogna di coniugare. Faceva fatica ad accettare le parole degli altri, le verità del giornale che non sarebbero mai state le sue perché ti uccide dentro il presente, ti scava dentro, ti fa marcire per il resto dei tuoi giorni, come se lei lo sapesse che alle parole non bisogna sempre crederci, che le parole non vanno fino in fondo, non dicono fino al ventre la verità di ciò che proviamo. Faceva uno strano effetto dopo, la sua camera vuota, a casa loro. Non tanto che il Lontano da loro


letto fosse senza lenzuola e coperte, o che non ci fossero più i libri. A mancare erano piuttosto le cose irritanti, quelle per cui succedeva che litigassero di brutto e che non si parlassero per due o tre giorni. I portacenere comprati e rimasti vuoti, lasciati ad appesantirsi di polvere sulla libreria, mentre invece in giro c’erano sempre dei bicchieri di plastica che Luc riempiva per un quarto d’acqua, anneriti dai mozziconi che man mano si accumulavano dentro, perché Luc non li svuotava oppure lo faceva troppo tardi, quando sul mucchio che emergeva dall’acqua buttava una cicca ancora accesa che finiva per bruciare il bicchiere. La camera allora puzzava di plastica bruciata e questo a suo padre, il padre di Luc, gli faceva venire una rabbia tremenda, che a volte degenerava. E il portacenere!, urlava Jean, parole che già ne portavano di peggiori destinate a esplodere nella sua bocca. La cosa più strana, certo, era l’assenza dei poster. Jean e Marthe non avrebbero mai creduto che avrebbe fatto un effetto così strano, tanto più che loro dei film se ne infischiavano mica male. E sempre questa storia dei poster Jean la riconduceva al fatto di non combinare niente, e ripeteva: è proprio incredibile lasciarsi andare così. Però anche lui, a vedere la tappezzeria completamente nuda sui muri, quasi nuova perché mai alterata dalla luce o dal fumo, anche lui diceva che così la sua camera dava l’impressione di essere più grande. Tanto per poter dire: la sua camera. E, mentre parlava dei muri quasi del tutto nuovi, riconoscere dalla lentezza con cui lui lo diceva che, con i suoi poster, questa volta Luc se ne era andato per davvero, privandoli della possibilità di capirlo, un giorno, perché con quelle foto era tutto il suo spazio di sogno che Luc si era portato via, e un uomo che se ne va con i suoi sogni, aveva detto Gilbert, lo fa sempre soltanto nella speranza di abbandonare 10 11


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