Mia è la vendetta

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Mia è la vendetta



Era una nebbiosa giornata di novembre dell’anno 1940, e per ben quattro volte ebbi il piacere di attendere sul molo del New Jersey amici dall’Europa. E ogni volta notai la figura scarna e curva di un uomo sulla quarantina che si aggirava inquieto nella sala arrivi, avanti e indietro senza sosta, benché camminare non dovesse riuscirgli facile: si trascinava dietro vistosamente la gamba sinistra. Era a capo scoperto, portava un vecchio impermeabile alla raglan dal taglio inconfondibilmente europeo, e il fatto che il suo modesto vestiario fosse così meticolosamente pulito, il suo volto macilento rasato con tanta cura, sottolineava solo la miseria di quell’apparizione. Tuttavia non avrei osato offrirgli del denaro, né il mio aiuto, e nemmeno la mia compassione. E per quanto potesse sembrare facile – al mio ingresso nella sala era già lì, immancabile, dopodiché si trovava sempre pure al pontile di sbarco, sebbene non giungessero più passeggeri – non ero ancora riuscito ad attaccare discorso con lui. Stavolta si presentò un’occasione quasi obbligata; i miei amici appena giunti dovevano sbrigare alcune formalità, il cui adempimento richiedeva di solito alcune ore – e proprio quando mi accingevo ad andarmene, lui mi passò accanto esitante, arrivando dal pontile. «Mi perdoni» dissi. «La vedo ormai così spesso qui sul molo… Aspetta qualcuno in particolare?». 9


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Fece ancora un passo trascinandosi dietro la gamba sinistra, poi si arrestò e si volse verso di me con un movimento maldestro. «Qualcuno in particolare?» chiese pensoso e chinò il capo; ebbi l’impressione che chiudesse gli occhi, ma poi mi accorsi che solo la palpebra dell’occhio destro era abbassata, ben più di quella del sinistro. «Qualcuno in particolare» borbottò nuovamente. «No. Perché?». «Pensavo… dato che lei va sempre via da solo…». «Sì» annuì. «Sempre». E il barlume di un sorriso passò con fatica e con dolore sul suo volto esaurito, quando aggiunse: «Eppure sarebbe così facile». Fece per allontanarsi trascinando la gamba. «Posso sapere cosa intende dire?». Mi ero affiancato a lui, e mi adeguai al suo passo lento. «Così facile» ripeté fra sé, come se non avesse nemmeno inteso la mia domanda. «La scelta è davvero molto ampia. Voglio dire… visto che lei mi ha chiesto se aspetto qualcuno in particolare – una persona, o due, o tre?». Mi guardò di sottecchi per assicurarsi che questo fosse il senso della mia domanda. Annuii. «Io però ne aspetto settantacinque» continuò. «Settantacinque. E non arriva nessuno. Così mi tocca sempre andarmene via da solo». Quel che aveva detto non suonava affatto inattendibile o bizzarro, bensì spaventosamente naturale. «Posso aiutarla in qualche modo?» chiesi. Era più forte di me. «Aiutare?» rovesciò la testa all’indietro e fece un profondo respiro. «Lei è stato al campo di concentramento di Heidenburg?». «No» risposi. 10


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«Conosce qualcuno che è stato al campo di concentramento di Heidenburg?». «Non che io sappia». «Allora non può aiutarmi». E scosse la testa in modo così conclusivo che d’istinto mi fermai. Non se ne avvide nemmeno, continuò verso l’uscita, ora già un po’ più veloce. Con pochi passi lo avevo raggiunto. «Fra un paio d’ore devo tornare qui. Le darebbe fastidio tenermi compagnia nel frattempo?». Alzò lo sguardo e il suo volto si tese di nuovo in un debole sorriso. «Fastidio? No» disse. «Oh, no. Per niente. Prego». Attraversammo la strada e mi diressi verso uno dei piccoli locali che si allineavano dietro al molo. «Anche lei vorrebbe saperlo, non è vero?». Il suo sguardo e la sua voce si persero nel vuoto. «Che cosa?» chiesi. «Per quale motivo attendo invano, non è vero?». E d’un tratto si fermò, la testa gli cadde in avanti e la voce divenne ansante. «Vede, purtroppo non lo so nemmeno io. Però voglio saperlo. Voglio saperlo, finalmente». Lo presi con delicatezza per il braccio e lo spinsi attraverso la porta del piccolo bar, davanti al quale ci trovavamo in quel momento. «Se le è di peso – o in qualche modo sgradevole – non mi deve raccontare nulla, naturalmente. In tal caso ci beviamo qualcosa e ce ne andiamo via». «Di peso» mormorò. «Sgradevole. Che espressioni ridicole… No, non mi è di peso. È quasi implicito che io debba tirare fuori tutto di tanto in tanto. Tutto». Mi ero seduto di fronte a lui e avevo ordinato da bere. «Ma la avverto!» disse all’improvviso. «Non è una storia 11


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che si racconta così, tanto per ingannare il tempo, e neanche si sta ad ascoltarla così». «Non l’avevo nemmeno ipotizzato». La mia risposta sembrò soddisfarlo. Annuì. «Cercherò comunque di raccontargliela, la mia storia, e con grande cautela. E forse nemmeno come la mia storia – se no diventa troppo. Le racconterò la storia del campo di concentramento di Heidenburg, e della mia storia solo lo stretto necessario. Quanto basta perché lei non mi prenda per folle. Quanto basta». Riporto il suo racconto con tutta la fedeltà di cui sono capace, senza interruzioni, così come lo lasciai parlare. Non lo interruppi nemmeno quando faceva una pausa e taceva, quando il suo sguardo si perdeva nelle brume crepuscolari del piccolo locale e poi fuori nel cupo cielo del tardo pomeriggio, quando dalla strada vicina proveniva a tratti il rombo di pesanti autocarri e da più lontano giungevano le urla dei corni da nebbia, e dal grande mare grigio le sirene delle navi. Il campo di concentramento di Heidenburg si trovava vicino al confine olandese, in uno di quei vuoti angoli sperduti, dove il terreno paludoso e quello boschivo gradualmente confluiscono l’uno nell’altro e diventano di nuovo sassosi. Era un lager piccolo e poco noto i cui ospiti – cinquecento al massimo – venivano occupati con lavori nella palude e nella cava di pietra, e del quale non si sapeva molto di più se non che lì “non era così male”. Forse le suonerà grottesco un campo di concentramento che “non è così male”. Ora – persino all’inferno, una volta che vi si è entrati, ci sono ancora delle gradazioni. E all’epoca del mio arresto, uno di Dachau, per esempio, era un beniamino della sorte se 12


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paragonato a uno di Buchenwald – e chi veniva mandato a Heidenburg poteva a conti fatti ritenersi addirittura fortunato. Tali forme bizzarre può assumere la fortuna. Forse fu proprio questa nomea così sconveniente, anzi infamante per un campo di concentramento a far sì che venisse mandato a Heidenburg l’ss-Gruppenführer Hermann Wagenseil in qualità di nuovo comandante. Forse il suo trasferimento a una postazione così isolata e poco prestigiosa era stato pensato come una sorta di punizione. Non lo so, e non ha importanza. Comunque con il suo arrivo le condizioni nel lager cambiarono subito e radicalmente. Wagenseil stesso lesse l’ordine del giorno che annunciava il nuovo regolamento. L’ orario di lavoro venne allungato, il tempo per mangiare e per dormire accorciato, le libertà già limitate furono ulteriormente ridotte, le agevolazioni già difficili da conquistare divennero ancor più inaccessibili – restò giusto quanto serviva perché la privazione totale potesse venir minacciata come pena. Vi erano punizioni per tutto, per l’infinitesimale, per cose sulle quali fino ad allora non avevamo nemmeno riflettuto. Wagenseil invece ci rifletteva eccome. Aveva compilato un lungo elenco di possibili infrazioni con le corrispettive punizioni e ci lesse questa lista con grande attenzione, la testa un po’ inclinata come se durante la lettura si domandasse se non aveva dimenticato qualcosa. A quanto sembrava non aveva dimenticato nulla, e ne fu soddisfatto. Se allora avessimo prestato bene ascolto, ci saremmo accorti che tutto quel sistema di punizioni ideato con raffinatezza non prevedeva neanche una pena collettiva. In diversi campi di concentramento, e fino a quel momento anche 13


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a Heidenburg, era del tutto consueto che per l’infrazione di un singolo dovesse pagare l’intero gruppo al quale apparteneva, e per l’infrazione di un gruppo l’intero campo. Wagenseil rinunciò a questo tipo di punizione. Perché la comunanza della pena è una comunanza come tutte le altre, essa fortifica e consola – Wagenseil voleva negarci perfino la più debole di tutte le forze, la più sconsolante di tutte le consolazioni. Per di più avviliva la nostra sofferenza. La isolava. La selezionava. La sminuzzava. Era un gourmet, non un crapulone. Ben presto avremmo avuto occasione di accorgercene meglio. Però avremmo dovuto accorgercene sin dal primo ordine del giorno e dall’elenco delle punizioni. Quando dico “noi”, intendo ancora il complesso di tutti i detenuti, i quali in quel primo giorno di regime wagenseiliano erano, di fatto, ancora una comunità. Il giorno seguente non lo erano più: un nuovo ordine di Wagenseil aveva distinto i detenuti ebrei assegnando loro una specifica Judenbaracke. Anche in ciò vi era una perfidia singolare, una voluttà da lupo: che abbia dato tale disposizione solo il secondo giorno, come se la cosa gli fosse venuta in mente in un secondo tempo e quale nota a margine. Non era però una semplice aggiunta, ma un inizio. E non era una postilla, era la sua alfa e omega. Certe volte credo che egli fosse venuto a Heidenburg solo per questo. Anzi – prego affinché le cose siano andate proprio così; che tutto quanto quel Satana ci ha fatto fosse la messa in atto di una precedente decisione, rispetto alla quale non avremmo potuto comunque fare nulla. Noi: con ciò intendo d’ora in poi solamente i detenuti ebrei. A quel tempo eravamo esattamente ottanta sugli oltre quattrocento complessivi. La baracca assegnataci da Wagenseil era la peggiore del lager, una catapecchia stretta, 14


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buia, piena di spifferi, nella quale non erano mai state sistemate più di quaranta persone. Che ora dovesse improvvisamente contenerne il doppio, ci sembrava una cosa impossibile. Per ore provammo a sistemarci, avanti e indietro, sempre più disperati, dato che l’appello serale, durante il quale avremmo dovuto comunicare il trasferimento ultimato, si stava avvicinando sempre di più. Infine, sfruttando ogni minuscolo posticino tra i due rivestimenti di assi inclinate e la terra battuta avevamo estorto esattamente sessanta posti letto, uomo contro uomo, sfruttando la lunghezza di ognuno in modo che quattro di piccola statura sdraiati fianco a fianco permettessero a un quinto di sdraiarsi ai loro piedi – ma non serviva a nulla. Erano pur sempre appena sessanta che potevano essere dichiarati “al proprio posto” durante l’ispezione annunciata. Decidemmo di mandare una delegazione al comando. Nessuno aveva considerato che il rapporto “Tutti al proprio posto”, valido sotto il precedente comandante del lager, potesse forse essere indifferente o magari sgradito a quello attuale. Nessuno aveva considerato che il nuovo comandante avesse un’indole diversa da quella dei suoi predecessori. I nostri tre delegati s’incamminarono. Dopo pochi minuti tornarono indietro e, da quanto via via riferivano e in seguito avrebbero aggiunto, posso ricostruirle un quadro abbastanza preciso del colloquio. Non iniziò affatto senza prospettive: la delegazione venne ricevuta subito, e Wagenseil senza giri di parole s’informò su quali fossero i loro desideri. Guida e portavoce della delegazione era il vecchio professor Rosenthal, un signore distinto dai capelli bianchi, un tempo uno dei chirurghi più famosi di Colonia. Aveva 15


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