Russia senz'anima

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Russia senz’anima?



Una fase turbolenta

Riuscire a salire sul treno che dall’aeroporto conduce in città è già una conquista, in più non si sa nemmeno se riuscirà a partire. In questa giornata piovosa d’autunno il ritardo è ormai così grande che valuto se chiamare un taxi. Sul marciapiede la gente si accalca, la pioggia scende a catinelle e, come di regola, nessuno che dia notizie sul ritardo di un treno che sarebbe dovuto partire cinque minuti fa, ma non è nemmeno arrivato. L’idea di prendere un taxi non mi attrae granché. Il venerdì pomeriggio a Mosca il traffico è congestionato, sia quello in entrata sia quello in uscita, diretto alle dacie: la città è paralizzata. Nel caso prendessi un taxi arriverei a casa come minimo fra tre ore. Con il treno impiegherei quaranta minuti per raggiungere la stazione Pavelezkij e da quella, nella peggiore delle ipotesi, avrei ancora dieci minuti di strada. Mi correggo. Con questa pioggia impiegherei un’ora a percorrere il tragitto, l’intera città è letteralmente bloccata. Ma dov’è finito il treno? Quando, abbandonata ormai ogni speranza, ho già quasi raggiunto l’uscita della stazione, ecco che arriva il treno. Mi rituffo in una calca indescrivibile. Chiedo a un ragazzo di aiutarmi a sollevare la mia pesante valigia oltre l’ampia fessura tra la banchina e il vagone, ma quello rifiuta con un sorriso sprezzante. Mi fa notare che anche lui, dopotutto, ha una valigia, e indica il suo trolley grande quanto un bagaglio a mano. Bentornata a Mosca. Sospinta dalla folla, riesco a salire nonostante la valigia, e grazie ad anni di allenamento nella calca moscovita mi conquisto addirittura un posto a sedere. Davanti a me 7


siedono due ragazzi. Quando mi lamento del silenzio delle ferrovie sulla mezz’ora di ritardo, quello che ha sistemato la mia valigia sulla rete portabagagli si limita a scrollare le spalle. Il resto del viaggio lo trascorre parlando al cellulare – come i tre quarti dei passeggeri – e sbirciando sul portatile dell’amico. Arrivati a Mosca, senza dire una parola tira giù la mia valigia e scompare. Durante il viaggio in treno, mi soffermo a guardare i grattacieli e i box-auto di lamiera che costeggiano la ferrovia. Su un lungo muro dipinto di verde la pioggia fa risaltare graffiti dai colori sgargianti. Sullo sfondo spicca una scritta nera: “Il Cremlino sarà russo”, firmato Nazbol. Ovvero i nazionalbolscevichi, una formazione che riunisce in sé il peggio del nazionalismo russo e delle tendenze egemoniche sovietiche. Un’organizzazione che si sente in opposizione all’attuale élite politica. Molti dei suoi membri sono in carcere per aver compiuto azioni provocatorie; durante la guerra contro la Georgia, per esempio, hanno invitato la popolazione a schierarsi con l’Ossezia del Sud e l’Abcasia. In breve, si tratta di un gruppo disomogeneo di ispirazione radicale e nazionalista, secondo cui il Cremlino non è in mano ai russi. Quando, poco tempo dopo, ho chiesto a un’amica cosa intendessero con questa affermazione, lei scrollando le spalle mi ha risposto: «Sono convinti che il Cremino pulluli di ebrei». In Russia, gli ebrei sono sempre stati considerati responsabili di ogni nefandezza. Insieme ai ceceni e ai caucasici in generale, agli uzbeki, ai tagiki e a chiunque non si possa definire “un vero russo”. Anche così Mosca accoglie tutti coloro che vi giungono in treno dall’aeroporto. Per fortuna i pochi stranieri che scelgono questo mezzo di trasporto non conoscono abbastanza bene il russo per comprendere la scritta. La pavimentazione della banchina è stata divelta, per i passeggeri e i loro bagagli è rimasta solo una striscia sottile. Ma in fondo, di cosa mi stupisco? Lungo il tragitto è comparsa la solita hostess con un carrello stile supermercato traboccante di giornali, riviste, acqua e bevande gasRussia senz’anima?


sate. Mostra grande stupore per la quantità di valigie. «Sa, veniamo dall’aeroporto» le dico in tono secco, al che lei mi risponde, sfoderando un sorriso amichevole ma pur sempre stupito: «Ce n’erano altrettante anche durante il viaggio di andata…». Questo treno non ha un vero e proprio spazio per i bagagli. Non lo utilizzerebbe nessuno, sostengono i miei amici di Mosca, poiché le valigie sparirebbero immediatamente. Mi torna in mente l’osservazione che un mio amico moscovita ripete spesso in situazioni analoghe: Mosca non è fatta per le persone. Ma torniamo al binario. Sono seduta nella penultima carrozza e ho davanti a me, in tutta la sua lunghezza, la banchina dalla pavimentazione divelta, sicché solo il bordo è percorribile. I viaggiatori hanno con sé borse o valigie, e quasi tutti le trascinano. Nella parte agibile della banchina l’acqua arriva alle caviglie. Così ognuno trasporta i propri bagagli fra le pozzanghere, con grande caparbietà, infradiciandosi le scarpe a ogni passo. Non è fatta per le persone, penso, mentre mi faccio strada rapidamente in direzione della sbarra, davanti a cui sosta un impiegato delle ferrovie avvolto nel suo mantello blu scuro. Non è semplice infilare nell’apposita fessura il biglietto – in realtà un sottile foglio di carta striminzito – così da far alzare la barriera e permettere l’ingresso dei passeggeri. Ci riesce molto bene una donna con il mantello blu scuro d’ordinanza e un elegante cappellino rosso, infatti la sua fila scorre molto più veloce. Eccomi a casa. A Mosca. Una città che vuole sembrare una metropoli come tutte le altre, anche se per molti versi non si libera del suo passato sovietico e provinciale. Un’ora dopo mi trovo nel mio appartamento e dalla finestra osservo il giardino. O meglio, ciò che riesco a intravedere fra le migliaia di auto. Da lontano mi ammicca la stella rossa di una torre del Cremlino, mentre la cupola d’oro della cattedrale di Cristo Salvatore risplende sotto una pioggia incessante. Se non ci separasse il massiccio ca8

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sermone bianco che ospita il Ministero degli Interni e davanti al quale è parcheggiata una lunga fila di camionette color verde militare, penserei di trovarmi in un paesaggio da fiaba. Perché Mosca, in certi angoli, è davvero fiabesca. Il giorno seguente, in metropolitana, un cartellone pubblicitario cattura la mia attenzione, proprio mentre scendo con le scale mobili verso i treni. Su uno sfondo azzurro risalta un gruppo di matrioške, le celebri bamboline di legno con il foulard in testa, le fossette agli angoli della bocca e le labbra rosse allungate in un dolce sorriso. Matrioške di diverse dimensioni accanto a una frase di Francis Bacon: “L’amore per la patria nasce in famiglia”. Poche settimane dopo viene ucciso Stanislav Markelov. Un uomo di trentaquattro anni, padre di due bambini piccoli, ai quali forse voleva insegnare non tanto l’amore per la patria, quanto piuttosto il rispetto verso le altre persone. Ora non potrà più farlo. Stanislav Markelov era un avvocato. Prima della sua morte pochi sapevano chi fosse e quali battaglie combattesse: contro i troppi gruppi razzisti e fascisti a Mosca, ma anche in difesa delle famiglie delle vittime del dispotismo russo in Cecenia. A Mosca, dopo il suo omicidio, circa duecento persone si riunirono davanti all’edificio in cui aveva tenuto l’ultima conferenza stampa poco prima che lo colpissero i proiettili dei killer. Contemporaneamente, altre centocinquanta scendevano in strada a Groznyj. Erano consapevoli del significato di quell’omicidio, lo erano state anche di quello di Anna Politkovskaja, la donna che aveva dato loro voce. Così come Markelov aveva dato loro speranza nella giustizia. Ancora una volta la mia Mosca, la Mosca di chi la pensa come Anna Politkovskaja e Stanislav Markelov, è paralizzata. Alla Gerber, presidente della Fondazione per l’Olocausto che ha sede nella capitale, mi domanda al telefono quello che in molti si chiedono: «Chi sarà il prossimo?». Ancora una volta affiora una sensazione d’impotenza. Il presidente della Federazione Russa e il primo ministro tacciono. Russia senz’anima?


Meglio così, sostiene il decano degli attivisti per i diritti civili Sergej Kovalëv durante una cena. «Non vi ricordate più cosa disse Putin dopo l’uccisione di Anna Politkovskaja? Che ha combinato più danni da morta che da viva. Perciò è meglio che se ne stiano zitti.» Questo Paese è così, proprio come i suoi intellettuali: ci si aspetta che qualcuno parli a nome di tutti, che tenga un discorso partecipe e sentito al cospetto della tragedia. In questo caso, una doppia tragedia. Al momento dell’omicidio, Markelov stava uscendo dall’edificio in cui aveva appena tenuto una conferenza stampa insieme alla giovane giornalista Anastasija Baburova. La donna aveva visto l’assassino ed evidentemente aveva provato a fermarlo. Ma i killer, si sa, non hanno scrupoli. La venticinquenne Anastasija era ancora viva quando è entrata in ospedale. Si è spenta sotto i ferri. È la quarta giornalista della “Novaja Gazeta” a morire di morte violenta negli ultimi dieci anni. Aleksandr Lebedev, codirettore della “Novaja Gazeta”, qualche giorno più tardi ha dichiarato pubblicamente: «Se i servizi segreti non sono in grado di proteggere noi giornalisti, allora chiediamo loro di rifornirci di armi. Ci difenderemo da soli!». Un’idea assurda, penso, quella di giornalisti che conducono le loro inchieste armi alla mano, così decido di telefonare a Galina Mursalieva. Galina è un’armena cresciuta in Azerbaigian, una giornalista che lavora da dieci anni per la “Novaja Gazeta”, dove ha condiviso a lungo l’ufficio con Anna Politkovskaja. Dopo la morte di Anna ci recammo nella redazione del giornale per intervistare Galina. La porta dell’ufficio era aperta, la scrivania di Anna, tutta ricoperta di rose rosse, si scorgeva a malapena. Dietro a quella montagna di fiori, piegata sul suo portatile, sedeva Galina, intenta a lavorare. Quest’immagine ha segnato il nostro primo incontro.

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