Serbia hardcore

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L’ attesa

La vita si è trasformata in una lunga attesa. Ci tocca attendere, senza sapere davvero che cosa. Di questi tempi la gente dice: «Tutto ciò non può durare in eterno». In una simile constatazione c’è una briciola di speranza. Come se volessero dire: «Non c’è cosa peggiore di ciò che ci sta accadendo, e siccome ciò che ci sta accadendo non può durare in eterno, un giorno forse staremo meglio». E la guerra civile? Vengono fatte anche previsioni al riguardo. Tutto sembra far pensare che dopo i bombardamenti in Serbia scoppierà una guerra civile. È questo ciò che attendiamo? E che cosa aspetteremo dopo che sarà scoppiata la guerra civile? Forse la nostra attesa non avrà mai fine. Non ci sarà nessuna guerra civile, dicono gli ottimisti. I serbi ne hanno abbastanza della guerra. Ne consegue, dunque, che non sappiamo ciò che aspettiamo. Semplicemente, aspettiamo di vedere ciò che accadrà. Siamo forse in grado di condizionare gli eventi? La nostra volontà, il nostro sapere e i nostri diritti come esseri umani hanno un qualsiasi ruolo in ciò che ci accadrà? Lo sapremo, a quanto pare, solo se saremo vivi quando ciò che deve accadere accadrà davvero. Forse il senso della nostra attesa è proprio questo: cercare di rimanere vivi fintantoché ci rimane ancora qualcosa per cui vale la pena di attendere.

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Hemingway non c’è

Noto fatti paradossali. Da quando sono cominciati i bombardamenti ho bisogno di meno ore di sonno. Dapprima ho pensato fosse una normale insonnia dovuta all’inquietudine e all’ ansia. Poi ho capito che avevo semplicemente bisogno di meno sonno. Spesso mi sveglio all’ alba perfettamente riposato, addirittura di buon umore, avendo dormito solo poche ore. Constato che la mia inquietudine è stata sostituita da un’acquiescenza fatalista. Quando una forza invincibile prende il tuo destino nelle sue mani è inevitabile che ci sia una trasformazione dentro di te. Qualcun altro veglia sulla tua sorte; se sarà tragica o fortunata non sei tu a stabilirlo. Liberarsi dell’ assillo di dover badare al proprio destino è un privilegio raro. I condannati a morte lo sanno bene. Mi alzo, dunque, all’ alba e penso: se avessi una stanza adibita a studio sfrutterei queste prime ore del mattino per scrivere. Scriverei in piedi, dalle sei alle dieci di ogni mattina. Così lavorava Hemingway a Parigi. Forse anch’io potrei descrivere Belgrado come una Festa mobile. Perché non provare? Mia moglie è più realistica. Non è questione di avere o meno uno studio. O sei Hemingway o non lo sei. Mi fa l’ esempio di Milorad Pavić. Ha scritto Il dizionario dei Chazari e molti altri libri in un appartamento più piccolo del nostro. Per non parlare di Dostoevskij. Che vita, la sua! Debiti e ristrettezze di ogni genere. Mia moglie dimentica, però, che Dostoevskij, nonostante l’indigenza, ha sempre vissuto in una grande casa con molte stanze. Serbia hardcore


Incompreso, esco in strada. Passo accanto al cassonetto delle immondizie e prendo atto che il primo turno dei cercatori di rifiuti è entrato in azione. Un disperato con una grande sporta in una mano e un bastone chiodato nell’ altra cerca fra i resti di cibo. Dopo di lui, nel pomeriggio, verrà un signore dai capelli bianchi. Quest’ultimo indossa un’uniforme: una tuta da operaio sulla quale c’è scritto Energoprojekt. In passato Energoprojekt è stata una delle più importanti imprese della Jugoslavia, conosciuta per le grandi opere messe in cantiere in tutto il mondo, soprattutto in Medio Oriente e in Russia. All’uomo di Energoprojekt interessano solo gli oggetti solidi. Conduce la ricerca in modo professionale: ripone gli oggetti scelti con grande attenzione nella carrozzina per bambini che si trascina dietro. Continuo la mia passeggiata fino a via Resavska. Lì giro a destra e proseguo in salita verso la chiesa di San Marco che si erge all’orizzonte. All’ alba, quando questa stretta via, cinta da edifici ben conservati del periodo della Secessione, non è ancora inondata dai raggi del sole mentre la chiesa arde purpurea là in alto, avete davanti uno degli angoli più belli di Belgrado. Prendete uno straniero da un qualsiasi punto sulla faccia della Terra, portatelo in questa via all’ alba e chiedetegli se sa in quale città si trova. Sono sicuro che risponderà che in una città del genere si vive bene. Non mi dispiace di non essere Hemingway, rimpiango tuttavia che nessuno abbia descritto Belgrado come una “festa mobile”. Forse la città avrebbe avuto una sorte migliore.

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Serbi e serbi

CNN, SKY, BBC, tutti quanti riferiscono di colonne di profughi albanesi che si dirigono in Macedonia, in Albania e in Montenegro. Davanti alle telecamere sfilano volti impauriti. I loro racconti sono commoventi. Si parla anche di fosse comuni. La CNN ha mostrato immagini filmate dall’ alto di due siti, di cui si dice che senza ombra di dubbio contengano fosse comuni. I media serbi non ne parlano. Sono in molti a non voler credere a queste informazioni. Solitamente dicono: «Mentono come mente la nostra televisione. In guerra nessuno dice la verità». Ciononostante, i filmati dei campi profughi e le confessioni dei fuggitivi sembrano convincenti. È difficile non prestar loro fede. Speriamo solo che la realtà dei fatti non sia così terribile, che vi siano delle esagerazioni. Così comincia a girare la voce che durante una trasmissione della CNN da un campo profughi al confine con la Macedonia si è visto chiaramente che una donna, un momento prima tranquilla e composta, ha cominciato a piangere al segnale del cameraman. In molti commentano: «Ecco, si vede subito che si sono messi d’accordo». L’indomani un’altra voce. È ritornata dal Kosovo una persona assai nota fra le organizzazioni umanitarie. Ciò che racconta sembra confermare i resoconti delle televisioni estere. Ancora una volta riponiamo la nostra unica speranza nell’impossibilità di sapere realmente che cosa sta accadendo: la verità che attendiamo verrà resa nota chissà quando. Una sera, ascoltando l’inviato della BBC raccontare quante persone in un villaggio sono state uccise dai serbi, mio Serbia hardcore


figlio si alza in piedi ed esclama con rabbia: «Perché continuano a dire che l’hanno fatto i serbi? Se la polizia serba ha ucciso qualcuno, se i paramilitari serbi hanno ucciso qualcuno, o se una persona con nome e cognome serbo ha ucciso qualcuno, perché non lo si dice chiaramente? Perché continuano a ripetere che l’hanno fatto “i serbi”? Anch’io sono serbo, ma non ho ucciso nessuno, e non ucciderò mai nessuno».

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Il parco dei parchi

Due poliziotti alti e prestanti entrano nel parco che ospita il monumento a Vuk Karadžić. Uno di essi si avvicina a un gruppo di persone riunite nella zona centrale del parco. Si tratta di persone che vedo regolarmente. Almeno uno di loro c’è sempre, qui nel parco, sia di giorno sia di notte. È singolare, quasi commovente, il loro modo di star vicini gli uni agli altri. A forza di portare a spasso i cani, si conoscono bene e si fanno compagnia. Parlano unicamente dei loro schnautzer, levrieri, cani lupo, pechinesi… A volte anche mio figlio maggiore accompagna Al, il suo cocker, nel parco. Una notte, spaventato dai bombardamenti, Al è scomparso improvvisamente. Era già capitato che Al fosse fuggito da casa, e ogni volta sapevamo che lo avremmo trovato lì vicino, davanti al chiosco che vende salsicce. Ma i chioschi, normalmente aperti tutta la notte, di questi tempi chiudono appena fa buio. Mio figlio ha cercato il cane per l’intera notte nelle vie oscurate di Belgrado, ma non l’ha trovato. Poco prima che albeggiasse si è ricordato di dare un’occhiata al parco. Là ha subito ricevuto informazioni precise e dettagliate. Al era stato visto nel parco, da dove si era poi allontanato, per farvi infine ritorno. Una donna lo aveva portato a casa sua e aveva provveduto a nutrirlo e a spazzolarlo ben bene. Vedo uno dei due poliziotti discutere animatamente con i padroni dei cani. Questi ultimi mostrano delle carte. Qual è il problema? Non lo capisco. Di recente il governo serbo ha promulgato una tassa sui cani, ma pare che sia stata abolita con lo stato di guerra. Vengono forse richiesti i certificati Serbia hardcore


di vaccinazione, o magari, nel parco, i cani è obbligatorio tenerli alla catena? Il secondo poliziotto va da una panchina all’ altra. Le scuole e le università sono chiuse e nel parco ci sono molti giovani. Alcuni sono seduti sullo schienale e appoggiano i piedi sul sedile. Il poliziotto li richiama all’ordine. Lo sento dire: «È così che si sta seduti nel parco? A casa non vi hanno insegnato niente?». Le sirene annunciano l’imminenza di un attacco aereo. Si sente il ronzio dei reattori. Gli sguardi sono rivolti in alto. Eppure i poliziotti continuano il loro lavoro. I padroni dei cani richiamano i propri beniamini e li legano al guinzaglio. I ragazzi si affrettano a scendere dallo schienale delle panchine ben prima che il poliziotto si avvicini. In lontananza si sentono le prime detonazioni. Ora nel parco regna un ordine perfetto. È da un paio d’anni che questa è la regola. D’inverno, dopo la prima nevicata, gli operai del comune puliscono i vialetti. In primavera ci si occupa dei fiori e dei prati. Le aiuole sono curate secondo i dettami dello stile francese. Un tempo il parco non era tenuto in ordine. Era il punto di ritrovo degli operai senza un contratto fisso. Quasi fosse una borsa del lavoro, chiunque volesse costruire una casa o fare un trasloco sapeva di trovarvi la manodopera necessaria. C’erano operai da ogni parte della Serbia, ma soprattutto albanesi. Ora di albanesi non c’è più traccia. Oggi il parco è parte integrante della prima fermata del metrò di Belgrado inaugurata personalmente dal Presidente qualche anno addietro, in concomitanza con una tornata elettorale.

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