Suppliziario salgariano

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Suppliziario salgariano Introduzione di Antonio Bozzo A cura di Santi Urso



Un supplizio spaventevole Non ignorava cosa fosse il ling-chi, parola che significa “taglio in diecimila pezzi”, la pena più spaventevole inventata dai cinesi, poiché consiste nel legare il paziente a un cavalletto e tagliuzzargli tutte le parti carnose, e strappargli brano a brano; pure si preparava ad affrontare serenamente quella morte crudele. Già alcuni tagali avevano tagliati parecchi rami per improvvisare il cavalletto, quando un cinese di statura gigantesca, che era decorato delle insegne di sotto-capo, ebbe un’idea ancora più feroce. «Non il ling-chi» diss’egli. «Mettiamolo nella gabbia di bambù e facciamolo danzare all’estremità d’un albero. Il divertimento sarà più bello.» «La gabbia! La gabbia!» gridarono tutti. Alcuni uomini si slanciarono nel bosco dove avevano veduto alcuni macchioni di bambù e poco dopo ritornavano portando alcuni fasci di quelle canne chiamate teba-teba, armate di formidabili spine che producono delle ferite dolorosissime. Questa pena è una delle più orribili, peggiore del palo dei turchi e dei persiani. L’istrumento usato è una specie di gabbia di mezzo metro quadrato, formato da otto bambù spinosi e col fondo pure coperto di spine, le quali non lasciano libero che un piccolo spazio, appena sufficiente da permettere alla vittima di posare i piedi. Al disgraziato condannato si legano le braccia e le gambe onde non possa muoversi, poi viene deposto nella gabbia e abbandonato a se stesso, privandolo del cibo e dell’acqua. 36


È allora che il supplizio comincia. Guai se si abbandona un istante, poiché cade contro le punte acute dei bambù che gli lacerano le carni. La debolezza finalmente lo vince e s’abbandona, impotente a più oltre resistere, contro le punte di bambù che gli si cacciano nelle carni. Il corpo del martire rimane ancora appeso a quelle punte e non si stacca più, ma la morte è sovente lunga a venire. Si sono veduti dei condannati vivere due o tre giorni in quell’orribile posizione e non si saprebbe dire con precisione se poi morivano per lo strazio o per la mancanza di sonno o per fame. Le Stragi delle Filippine

La fossa dei tormenti «A un suo cenno, i due arabi che vegliavano presero la zappa e la vanga e cominciarono a scavare una buca profonda. «Io assistevo esterrefatto, istupidito, a quei sinistri preparativi. Che cosa volevano farne di me? Seppellirmi vivo forse? No, perché la morte sarebbe stata troppo rapida e l’arabo aveva detto che voleva farmi soffrire a lungo. «Quando la buca fu profonda oltre un metro e mezzo, quei miserabili mi afferrarono e senza sciogliermi le braccia, né le gambe, mi deposero in quello scavo, seppellendomi fino alle spalle. «A operazione compiuta solamente la mia testa emergeva dalla sabbia. «Ah! L’atroce supplizio! Tremo anche in questo momento a pensarci. 37


«Il capo, per un inaudito raffinamento di crudeltà, collocò dinanzi a me, a un metro di distanza, un vaso ricolmo d’acqua, e una cesta contenente dei datteri, poi mi salutò con la mano, dicendo: “Ora mangia e bevi, se lo puoi”.» Un Dramma nel Deserto

L’uccello del malaugurio In mezzo a una piccola radura, le cui erbe erano state falciate di recente, s’alzava un palo e a quello si trovava legato un uomo bianco completamente nudo, tutto imbrattato di sangue colatogli dal cranio, che era stato privato della sua capiglia­t ura. John, in preda a una viva emozione, si era slanciato verso lo scotennato, ma tosto aveva fatto due o tre passi indietro, mandando un grido di terrore. Sul petto del martirizzato aveva veduto, disegnato col sangue, un uccello ad ali spiegate. «Il totem di Minnehaha!» esclamò. «È stata la terribile figlia di Yalla, quella che l’ha scotennato! Se ella è qui coi suoi guerrieri, noi siamo perduti!» La Scotennatrice

Dal funere nefando uno solo ritornò A prua, vegliavano attorno a un fuoco sei o sette selvaggi briachi, istupiditi, assonnati, sostenendosi 38


La Scotennatrice


a malapena sulle zagaglie, e per ogni dove gli altri papuasi, non meno ubriachi, rimpinzati di carne e, orribile a dirsi, di carne umana, ammucchiati gli uni sugli altri, mescolati confusamente coi cadaveri, guazzanti nel sangue coagolato; in mezzo teste umane rosicchiate, vuotate, braccia arrotolate, gambe sanguinolenti o carbonizzate, femori, intestini, polmoni, costole ammucchiate o disperse e ossami spezzati e succiati, avanzi di un abbominevole banchetto, era tutto quello che restava del disgraziato equipaggio dell’Haarlem. I Selvaggi della Papuasia

Il peso del gaviale Il rettile, sentendosi strappare dal suo elemento e trascinare in alto, dapprima parve assai sorpreso e non cercò di dibattersi; ma quando si trovò a metà dell’albero e provò le prime strette del laccio, la sua rabbia scoppiò tremenda. La corda gli era stata lanciata attorno alla gola, prendendo dentro anche una zampa, e sotto quel peso enorme si era stretta in modo tale, da produrre un solco profondissimo nella carne. Sentendosi così preso e intuendo il pericolo, il gaviale cominciò a dibattersi freneticamente, colla speranza di spezzare quella maledetta corda che lo strozzava. Si contorceva disperatamente, muggendo con furore, avventava contro l’albero colpi di coda violentissimi che scrosciavano come se sparassero dei piccoli pezzi d’artiglieria, poi cercava di azzannarlo staccando larghi pezzi di legno, quindi 40


colle tre zampe rimastegli libere tentava di arrampicarsi, senza riuscire nel suo intento. Sfinito da quegli sforzi, s’arrestava alcuni momenti colle mascelle spalancate, soffiando e sbuffando, gli occhi iniettati di sangue, poi tornava a balzare e a contorcersi con maggior rabbia, non ottenendo altro scopo che quello di stringere sempre più il nodo che lo strangolava. Lo spettacolo era spaventevole e prometteva di durare a lungo, giacché tutti i coccodrilli posseggono una vitalità che forse il solo pescecane supera. L’albero, scosso da quei soprassalti, vibrava tutto, dalla base alla cima, e talvolta perfino si piegava; ma non v’era pericolo che si spezzasse, quantunque il rettile raddoppiasse i suoi contorcimenti. Le mascelle, sempre spalancate e ormai agitate da un tremito convulso, invano cercavano d’aspirare l’aria, e la coda non si contorceva che a lunghi intervalli. Anche le zampe pendevano quasi inerti. La Città del Re Lebbroso

Il bruto Negli occhi del bruto brillarono due lagrime, forse le prime che apparivano durante la sua esistenza disperata. «Mia madre» ripeté per la terza volta, con un rauco singhiozzo. «Come ha potuto sapere che io sono il boia dei bleds2 algerini? Ed ella viveva tranIl bled è una sorta di bagno penale della legione straniera francese in mezzo al deserto, destinato ai soldati ribelli o disertori.

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quilla, laggiù, nella lontana Ungheria, nella sua casupola lambita dalle bianche acque del Danubio, credendomi un onesto soldato… «Che cosa sono ormai io nel mondo? Il boia dei bleds. Quando attraverso le tortuose vie di Djenaned-Dar, perfino le donne arabe mi urlano dietro: “Carnefice! Assassino! Boia!”. E i fanciulli mi scagliano dietro delle pietre. Eppure non ero cattivo un tempo.» Sull’Atlante

Un supplizio orribile «Lasciami dormire» disse a un certo momento il mandah. «Non ne posso più.» «No» rispose il cingalese ferocemente. «No!» «Dormirò egualmente.» «Provati.» Il mandah si lasciò cadere di peso, colle palpebre abbassate. Non poteva più resistere alla sonnolenza profonda che lo invadeva. «Ah! Tu vuoi dormire egualmente?» disse il cingalese, stringendo i denti. «Aspetta un po’.» Prese da terra una mollettina d’acciaio, aprì una delle noci di cocco togliendo il coperchio d’argilla e vi gettò dentro uno sguardo. Il recipiente era pieno di grossi ragni neri vellutati e di scorpioni d’ogni dimensione e di ogni colore, che battagliavano ferocemente fra di loro. Il cingalese prese la mollettina, rovistò entro il recipiente e levò un grosso scorpione di colore brunastro. Con un gesto rapido tolse al mandah una 42


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