Una primavera difficile

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Camminava fra gli alberi, mentre il crepuscolo si insinuava via via fra i tronchi, avvolgendoli con cautela come un leggero manto d’aria. Aveva la sensazione di essere escluso dalla benevolenza dell’arcana natura. Sentiva il suo corpo separato dai tronchi e, nonostante l’oscurità, vedeva le gambe muoversi e i pensieri intrecciarsi nel cervello. Tuttavia scacciò questa sconvolgente chiaroveggenza che, in un solo istante, poteva analizzare la macchina umana in ogni sua parte; un simile istante era paragonabile al menisco di un recipiente stracolmo, quando una sola goccia è sufficiente per farlo traboccare. Così era stato quel mattino nel bagno, quando stringeva nel pugno il fazzoletto. Scacciò il doloroso ricordo chiamando in aiuto gli alberi. Ma l’oscurità del bosco non voleva aiutarlo; i tronchi se ne stavano lì, avvolti nelle tenebre e incuranti, divisi l’uno dall’altro, a una distanza voluta e ostinata. Era soltanto legno che non poteva fondersi con l’infinita e impersonale presenza dell’universo, mentre nei mesi precedenti l’unione con il bosco notturno aveva significato il riproporsi dei suoi ricordi dell’annientamento – un’oscurità senza limiti. Ora invece sentiva che quel mare di tenebroso e quieto raccapriccio era stato ridotto a una ciocca di capelli biondi. Se non l’avesse vista sulla jeep, non sarebbe stato così doloroso. Ma non aveva potuto rimanere su quella strada dopo che le due se n’erano andate, doveva venire qui, tra i suoi alberi. E proprio davanti al portone lei, appena salita in macchina, l’aveva salutato con un cenno della mano, come un bambino che monta allegramente in sella al cavallo di una giostra. 73


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Per fortuna la jeep era partita subito, correndo come un animale quadrato su alte gambe. Ma quel momento era durato a sufficienza per costernarlo. Probabilmente era davvero un po’ matta; altrimenti come avrebbe potuto, di punto in bianco, prenderlo per mano al cospetto della sorella? Una piccola sonnambula che a occhi aperti vaga nel paese delle sue favole. Ma il viso allegro e i capelli svolazzanti sulla jeep in corsa non avevano nessuna relazione con quella sua fiducia da bambina che si aggrappa alla mano di un uomo, come fosse quella di suo padre. O forse sì. Ma allora perché lo aveva invitato, se poi non era capace di stare ad ascoltarlo e lo sostituiva con un club di militari? E come rideva sulla jeep, neanche avesse trovato la formula della felicità assoluta! Aver abbandonato il proprio mondo per una ragazzina un po’ matta era un peccato contro lo spirito; ecco perché il bosco non voleva accoglierlo e il suo corpo era una cosa estranea fra gli alberi. Sentiva di aver vissuto nel mondo dei lager in un’epoca nebulosa, prima della sua nascita, e ora sulla Terra non conosceva nessuno che lo avrebbe accettato. Perché non apparteneva a nessuno. Con un trucco lei l’aveva fatto uscire dalla tana per poi prendersi gioco del suo imbarazzo. E lui aveva tradito il suo mondo quando, dopo cena, si era preparato per quell’appuntamento credendo che la sua solitudine si sarebbe squarciata. E si era difeso in anticipo contro tutte le immagini che avrebbero potuto ostacolarlo nella nuova esperienza. Ora però desiderava una cosa sola: non sentirsi escluso dalla natura, perché in quel momento aveva bisogno di restare nascosto nell’oscurità del bosco e della notte per ritrovare il suo passato. Non era infatti possibile essere al tempo stesso estraneo al mondo della morte e al mondo degli uomini. L’evidenza di questa constatazione lo calmò, tanto che trasse un sospiro di sollievo, sentendo che il bosco smorzava lentamente la sua insidiosa ostilità. Bene, aveva agito avventatamente, in futuro dovrà essere più cauto. Quando lei verrà con i suoi termometri, sarà tutt’altra cosa. Sperimenterà la sua freddezza. E sentì di essere tornato in grembo alla natura: se ne nutriva come fosse nel corpo materno, e la sua linfa si travasava impercettibilmente 74


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in lui. Di tanto in tanto, sopra la sua testa, le foglie frusciavano e qualche uccello volava via. Da grandi lontananze echeggiava l’immensità e la terra ronzava, fuori dal tempo. La campanella davanti all’ingresso del padiglione suonò, e per un attimo la notte divenne inquieta. Da lontano non somigliava affatto alla campana di un convento, ma non avrebbe saputo dire a che cos’altro. I suoi passi però non si indirizzarono verso il padiglione, ma proseguirono sulla stradina nel bosco. L’infermiera di turno sarebbe di certo passata dalla sua stanza e si sarebbe accorta che non era ancora tornato a dormire. Poco male! Forse invece era di turno il lento Michel, che aveva l’abitudine di socchiudere la porta e di illuminare, attraverso la fessura bianca, il letto con la sua torcia elettrica. Tutta questa attenzione perché si andasse a dormire all’ora stabilita e si guarisse presto, quando poi si sterminavano milioni di esseri umani. Quale legame c’era, per esempio, fra la silenziosa amicizia del bosco francese e il paese della morte? Il pacifico raccoglimento del bosco parlava, in un mormorio, della bontà che non era mai venuta meno, una bontà dalla quale emanava la dolce certezza che niente di irreparabile era accaduto e che la natura aveva conservato intatta la sua purezza. E tuttavia lui non era forse riuscito ad avere queste percezioni proprio perché aveva rinnegato l’atmosfera di là? Passando accanto alla portineria per andare all’appuntamento, non aveva forse respinto di proposito l’immagine dell’ingresso del lager? Ma ora desiderava con piena consapevolezza ritornare nell’atmosfera di quel mondo dannato, per conservare la sua individualità. Un sussulto – ed ecco che il mondo perduto sarebbe risorto, e subito lo avrebbe accerchiato. Come quel mattino, per esempio, quando erano scesi ancora prima dell’alba dai carri bestiame che li avevano trasportati da Trieste. Lì, davanti al grande ingresso e alla facciata su cui incombeva il plumbeo grigiore di un covo di briganti prossimi al risveglio, avevano per la prima volta intuito cos’era in realtà quell’edificio di mattoni. Capirono di essere attesi da luoghi chiusi, luoghi di permanenza con comignoli e scale, porte e gabinetti, così la loro urina 75


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non colerà più lungo le pareti del vagone in corsa e non dovranno più spingere i propri rifiuti, avvolti nella carta, attraverso le fenditure. In un primo momento si incamminarono dunque attraverso l’ingresso come dei disgraziati che, dopo essersi smarriti nella notte gelida, avessero scoperto sul far del giorno le travi annerite di una baita. Quando poi le file allineate si fermarono nel vasto cortile e nella fievole luce apparvero sulla facciata le grandi lettere di tre parole nere, li colpì un soffio ancora più gelido di quello che durante il viaggio saliva dalla neve. Quel motto secondo il quale “il lavoro rende liberi” racchiudeva in sé un presentimento del vuoto, e la coscienza d’essere accerchiati, caduti in un mondo in cui regnava la spietatezza. Infine li fecero entrare in un lungo fabbricato, dove si ritrovarono in un immenso bagno. Li accolse il trambusto di un caravanserraglio impazzito; solo che in luogo del misterioso grugnire dei cammelli, del penetrante nitrire dei cavalli arabi e delle grida gutturali dei conduttori berberi si facevano udire – al di sopra dello scalpiccio di centinaia di piedi e del fremere dei corpi, e in una babele di domande e risposte – gli ordini degli uomini in uniforme zebrata. Questi sostituivano gli aguzzini armati, dai quali avevano appreso il gergo e il tono aggressivo, senza però quell’accanimento sempre presente nelle urla dell’uomo tedesco. «Los!». Perché la velocità è anche il ritmo della paura. Così lui si affrettò a togliersi il vestito e le scarpe, proprio quando i piedi avevano incominciato a scaldarsi. Poi, con altrettanta rapidità, dovette porgere il capo al barbiere, perché gli radesse la capigliatura con una macchinetta. Quando allargò le braccia, affinché quel solerte figaro gli tagliasse i peli sotto le ascelle, volse lo sguardo verso gli altri condannati senza pensare a se stesso. Non ebbe tempo di riflettere, perché i suoi occhi accolsero scene insensate, come strappate a un sogno. Non appena il rasoio veleggiò verso il suo inguine simile alla lama di un castratore negligente, capì attraverso un velo di nebbia che non si trattava soltanto di eliminare i peli, ma che a tutti loro, massa di corpi denudati, veniva definitivamente tolto anche l’ultimo elemento di individuazione. Con rapidità e accompagnato da grida, come 76


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se irascibili cocchieri sbraitassero contro i loro fiacchi ronzini, si svolgeva un rito incruento ma fatale, che avrebbe segnato per sempre tutti i novizi. Tanto che in seguito, quando con gli altri finì sotto una delle docce che diffondevano un benefico vapore sulla pelle nuda e sui crani pelati, non avvertì la calda cascata che si riversava sulle membra intirizzite, ma andò con gli occhi da un uomo nudo all’altro, cercando di trovare un senso nelle gocce che schizzavano dalle teste rapate e scivolavano lungo le anche a forma di trapezio. Erano i corpi di uomini del Carso che in età avanzata erano diventati le reclute di una religione folle. Erano corpi senza cattiveria, impacciati, non avvezzi alla lotta contro il male e l’orrore. Questo pensiero gli era già passato per la mente, quando il grande pennello con il disinfettante aveva bagnato le parti appena rasate, bruciando come un triplice fuoco, anche allora stava pensando ai corpi dei contadini, degradati al livello di giovenche. Aveva cercato di spegnere le fiamme che gli mordevano l’inguine e lo scroto premendoci sopra le mani, ma di fronte alla nudità di Filip, Pepi e di tutti coloro che rappresentavano ai suoi occhi una garanzia di tenacia e forza, sentì di essere diventato irrimediabilmente vulnerabile. «Los!». Perché il barbiere infieriva anche contro i corpi anziani che cercavano di scansare quella mano che si protendeva verso il loro pene, e alla fine il rasoio riuscì comunque ad averla vinta, mentre l’agile mano tirava il membro ora a destra, ora a sinistra, come un floscio elastico. Con lo stesso ritmo febbrile bisognava poi riporre i propri vestiti in un sacco di carta. Egli cercava di piegare bene le sue cose, ma ben presto mani estranee si intromisero per afferrare convulsamente la biancheria ben stirata. «Schneller, schneller» sibilò con rabbia la bocca, abbassandosi sulle sue mani proprio nel momento in cui stava prendendo dalla valigia le magliette di lana che Mija gli aveva fatto avere in carcere. E tuttavia, dato che nell’ampia sala, come in una fiera apocalittica, bisognava consegnare tutto, dai peli e dai capelli fino alle scarpe, sicché il corpo si ritrovava nudo e liscio come al momento della nascita, non soffrì per la sottrazione della biancheria e del vestito. Si 77


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sentiva invece orfano, e d’un tratto completamente vuoto, perché non aveva più i piccoli biglietti con i messaggi di Mija. Li aveva nascosti nell’orlo del cappotto nero, con il quale – ingenua convinzione la sua – avrebbe potuto affrontare l’inverno tedesco. Se anche gli avessero tolto tutto, lui avrebbe retto a qualsiasi prova, ne era sicuro, almeno finché lo avessero accompagnato le parole di Mija, grazie alle quali avrebbe sempre avuto vicino il suo cuore, tutto il suo essere. Ora, invece, era estirpato dalla terra dei vivi, quasi senza peso. In tale stato dovette uscire e mettersi in fila con gli altri davanti alla baracca, dove registravano i dati personali. Il corpo nudo e fermo sulla neve. L’aria era un gelido impiastro sui fianchi, un copricapo d’acciaio sul cranio rasato, e gli sembrò che il senso d’irrealtà lo avrebbe risucchiato come un vortice. Nel fiato si formavano tanti piccoli aghi acuminati che gli si piantavano nella testa, tanto che credette che la sua coscienza sarebbe svanita come vapore sulla neve di febbraio da cui erano venuti. Teneva in mano un fazzoletto dov’erano avvolte le sigarette di Mija che gli erano rimaste. Un minuscolo fagotto. All’ultimo momento era riuscito a salvarlo dalla doccia e lo teneva stretto fra le mani sul petto, come se proteggesse l’ultimo palpito di vita. Così batteva i piedi sulla neve indurita per non arrendersi al nulla glaciale, e si rese conto che agli altri non restava nemmeno un così misero ricordo del mondo umano. E stringendo spasmodicamente nelle mani il dono di Mija, mentre curvava le spalle per sottrarle all’invadenza del vento, cercò di richiamare la sua immagine; ma i lineamenti di lei svanivano prima ancora che potesse riunirli. Si ritrovò davanti al tavolo, mentre una forte corrente d’aria soffiava dalle entrate opposte come da un capo all’altro del mondo. Una mano addestrata afferrò poi dal mucchio un paio di verdi calzoni alla zuava italiani, una corta giacca civile e un paio di zoccoli. E quel ritmo sinistro riprese a spronare il gregge di uomini nudi. «Los, los!». Allo scandire di questo ritmo si mise le mutande e una corta camicia, infilandosi per strada i pantaloni, perché il branco di zingari si stava già raggruppando per la partenza. La mano sinistra sorreggeva i pantaloni alla cintola, mentre la 78


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destra, nella quale stringeva il fagottino, cercava di tenere chiusi i risvolti della giacca per impedire al vento di raggiungere la gola e il petto. Gli zoccoli avanzavano sulla neve finché non si arrestarono in mezzo a due baracche, e le calzature delle file schierate si piantarono nella neve. Il freddo che soffiava dall’inesauribile riserva della morte passava attraverso la stoffa penetrando nella schiena, stringeva le caviglie là dove finivano le calze e si insinuava nei pantaloni fin sopra le ginocchia. Quanto tempo rimasero fermi? Il tempo si era congelato e anche il suo pensiero era intirizzito. Tutto si era trasformato in un nulla bianco e immobile. Si era infine verificato ciò che, durante l’infanzia, gli aveva suggerito l’irragionevole paura da lui provata davanti ai pogrom fascisti? Un vuoto che non incomincia in nessun luogo e non prevede nessun futuro. Una sorda eternità. L’assurdo che culmina in un ago arroventato che trafiggerà il cervello, per poi di nuovo allentarsi, distendersi – insondabile come una fredda aggressione che ti assedia da tutte le parti, tanto che vorresti avere un’infinità di mani per coprire il corpo esposto. Un destino senza una cornice. Un nocciolo senza buccia, senza protezione. E ora anche privo di ogni ulteriore corredo, quello che di solito accompagna l’uomo verso il silenzio definitivo. Tutto il superfluo era rimasto nel sacco di carta. La biancheria che soltanto la mano di Mija aveva potuto scegliere. Il pesante cappotto degli anni in cui esitava di fronte ai libri di teologia, il che induceva Mija a canzonarlo, ma in seguito lei gli aveva chiesto di perdonarle quella sua sciocca ironia, di cancellarla dalla memoria. E le calze di lana. Il pullover. Nel vagone ferroviario non aveva voluto avvolgere i piedi nel pullover o nella biancheria di lana, per non mancar loro di rispetto. Chissà se li potrà mai più toccare. Ma nel sacco di carta erano rimasti i biglietti scritti da Mija, che davano voce a tutti i suoi dubbi. Perché la sua ponderatezza, la sua armonia erano soltanto un’apparenza per occhi miopi. Nel sacco c’era ogni loro incontro nella città oscurata. La passeggiata con Jadranka e la bocca spalancata del pesce trasparente, color rubino, nell’acquario. Il mare che luccicava cinereo. Il litorale, ora condannato a causa degli 79


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