Sergej Roić
Achille nella terra di nessuno Blues in 6 quadri e 34 immagini Prefazione di Predrag Matvejević
Alla ricerca del linguaggio dell’utopia di Predrag Matvejević
Ho conosciuto Sergej Roić nel 2001, sul lago di Lugano, in occasione di un convegno dedicato alla transizione dell’Europa dell’Est. Nelle intenzioni iniziali, avrebbe dovuto farmi un’intervista per un quotidiano locale, ma le domande di Sergej, appassionate e molto pertinenti, hanno trasformato la nostra chiacchierata in un dialogo intenso e ricco di spunti, che ha poi trovato la strada della libreria sotto forma di un volumetto di poco più di cento pagine, Compendio d’irreverenza, splendidamente prefatto da Rossana Rossanda. Sergej, scrittore cosmopolita che pensa in italiano, in serbocroato e forse in qualche altra lingua ancora, ha lasciato a nove anni la sua patria slavomeridionale per stabilirsi in Svizzera. Lì ha imparato l’italiano, ha ricevuto un’istruzione, si è confrontato con una cultura e una lingua che già avevano fatto capolino nella sua infanzia trascorsa fra Istria e Dalmazia. Nel mondo di oggi, quello delle contaminazioni e delle ibridazioni culturali, anche questo, per fortuna, sembra essere possibile: scrivere – e farlo bene – in una lingua che non è quella madre. Come dimenticare tutti gli esempi di scrittori che hanno scelto l’inglese per descrivere le loro terre d’origine, così lontane, diverse eppure così fortemene british: i Caraibi, le Indie… Leggendo le sue opere ci accorgiamo di come una voce a un tempo italiana e straniera possa dare conto molto efficacemente di fatti e avvenimenti che hanno caratterizzato un Paese, la sua storia, la sua società. Per conoscere meglio Sergej come uomo e scrittore, ho letto due sue raccolte di racconti: il borgesiano Innumerevoli uomini, del 1991, e il bachtiniano Tempo grande, del 2004. Nel primo veniamo guidati, per mezzo di venti brevi storie, in un tempo e in un luogo sospesi V
tra il reale e il fantastico. Lì troviamo il Vecchio della Montagna, Rousseau e Diderot, Schliemann, Garcia Lorca e Kant, tutti protagonisti della ricerca di quell’hic et nunc tanto caro a Borges: «Secoli e secoli e solo nel presente accadono i fatti; innumerevoli uomini nell’aria, sulla terra o sul mare, e tutto ciò che accade, accade a me». Nella seconda raccolta, tra picchi andini, un Leonardo contemporaneo e il naso rotondo della deliziosa Minnie, l’autore cerca di stabilire un precario dialogo con quello che rimane del vissuto umano in un universo in cui le combinazioni e le ricombinazioni fittizie hanno la meglio sulla realtà. Si tratta di un “tempo grande”, di quella che per Michail Bachtin sarà l’era della parola, del dialogo, quando finalmente potremo imparare a parlare in modo autentico e ad ascoltare il vero. Achille nella terra di nessuno è invece il luogo in cui narrazioni diverse – quella di un Paese che va in frantumi, di un particolarissimo campione di calcio e della ricerca di una lingua di pace – si intersecano fino a produrre una sorta di utopia linguistica: una chimerica “repubblica della lingua” è infatti il punto d’arrivo ideale dell’opera. Ma com’è possibile mettere assieme una tragedia storica, uno sport e l’anelito all’utopia? Da dove spunta questa società fantasmagorica composta di parole e immagini? Introducendo ognuno dei suoi “quadri” con riflessioni di derivazione filosofica o antropologica, Sergej porta il lettore a interloquire con verità che sono sotto gli occhi di tutti, ma che spesso e volentieri passano inosservate. Trattandosi però anche di un “blues” calcistico, non ci si deve stupire della contaminazione con alcuni momenti cruciali della storia di questo sport. Ed è piacevole, anche se a tratti si prova una certa nostalgia, veder sfilare alcune vecchie glorie e interpreti eccellenti – la nazionale jugoslava protagonista ai Mondiali del 1930, la mano de dios di Maradona contro l’Inghilterra – di quello che per l’autore di questo originale romanzo non ho dubbi sia il “più bel gioco del mondo”. Zagabria-Roma, febbraio 2012 Achille nella terra di nessuno
Achille nella terra di nessuno
Quadro primo Nel nome di Andrej anamnesi [dal greco anámnesis = memoria] Concetto introdotto in filosofia da Platone nel dialogo Menone. L’atto di riconoscere-ricordare le idee eterne e immutabili che l’anima umana ha avuto modo di osservare direttamente prima di precipitare nel corpo materiale. Secondo Platone, quindi, ogni vera conoscenza risiede nella memoria. cabala [dall’ebraico kabbala = associazione, accoglimento, tradizione orale, contenuto desunto dalla tradizione, concetto che indica il gesto di ricevere, per estensione “destino”] Mistica medievale ebraica che si basa su rappresentazioni neoplatoniche, gnostiche e neopitagoriche a proposito dell’uomo, del mondo e della vita. L’agire nel mondo è spiegato dalla mistica di numeri e lettere. daimonion [greco = la voce della divinità] Il concetto di daimonion è introdotto da Socrate come denominazione per la voce interiore che caratterizza l’uomo (secondo altri “coscienza”). Socrate affermava che il daimonion lo avvertiva se compiere o no un’azione. Daimonion è il momento (voce) irrazionale che si contrappone al ragionamento razionale.
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Prima immagine Nel giugno del 1956 Čedo Dujmović ha tredici anni. Sul lungomare di Starigrad, isola di Hvar, Dalmazia, di primo pomeriggio, col caldo, col gorgoglio del mare lungo le corde tese, allentate, i corpi delle barche, sbircia attraverso la porta aperta del negozio di barbiere, prende il barbiere alle spalle, legge ciò che scrive. Il barbiere grasso e sudato con addosso mutande bianche scrive ai parenti in America: «Arriva l’inverno lungo e crudele». E lui, Čedo, ragazzo irrequieto incapace di controllarsi, fermarsi, pensare, ruba il foglio da sotto il naso al grassone, glielo agita in faccia, lo sfotte, lo minaccia: «Arriva l’inverno! Arriva l’inverno! Domani nevica!». Esce dal negozio, mostra la lettera sbracciandosi. Percorre il lungomare bianco abbacinante di luce a lunghi balzi urtando i passanti, scansandosi all’ultimo momento, facendo le boccacce; sfugge per miracolo al professor Marulić che vorrebbe raggiungerlo col suo lucido bastone. Il ragazzo è vivo, vivo, vola, si diverte, non crede a niente, non sa niente. È inseguito da una muta di uomini che gridano e gesticolano. Si accorge di averla fatta grossa, ma è ebbro di gioia, gli scappa da pisciare dal ridere e dall’emozione. Alla fine si ferma, ansimante, appoggiandosi al muro di una casa, agitando quella lettera americana a mo’ di ventaglio, pronto a ripartire a razzo appena gli inseguitori si avvicineranno abbastanza per poterli staccare di nuovo. Si guarda attorno. Là davanti, ecco il palazzo Hektorović incorniciato da uno spiazzo di terra rossa adornato da un paio di palme. Di fianco il barbaglio dei vetri della gelateria Ideal. Alle spalle il risucchio del mare. Il ragazzo-freccia sorride, inAchille nella terra di nessuno
spira una boccata d’aria, si prepara a ripartire, ma quella fermata gli è fatale. Dal nulla spuntano tre uomini e lo accerchiano. «Non ve la do! Non ve la do!» urla Čedo infilandosi la lettera nei pantaloni. Lo prendono. Si divincola come un pazzo. Gli bloccano le braccia. Si difende. Vorrebbe sfuggire, desidera, ardentemente, di fuggire. «Tuo padre» dicono quelli che l’hanno preso per le spalle. «Si tratta di tuo padre.» Il padre giace sul tavolo della cucina. Ha la bocca storta. Gli occhi, che nessuno si è ricordato di chiudere, fissano il soffitto. Lo hanno trovato nel cortile, vicino al pozzo, che fissava il vuoto. Gli hanno chiesto e non ha risposto. Lo hanno portato in cucina, lo hanno messo sul tavolo, non potevano chiamare il medico: è lui il medico del villaggio. E ora, passando in rassegna il volto scarno, la camicia aperta sul petto, la cinghia, i pantaloni, dietro la punta delle scarpe il ragazzo folle di vita vede in faccia la morte. Vede i muri della stanza e oltre i muri il corridoio, la cucina, la veranda e poi tutto il pianterreno, senza dimenticare gli oggetti quotidiani, i bicchieri, l’argenteria, coltelli, forchette, fiaschi, funi; temperini, libri, vasi, vasi con fiori e in cantina i topi. Vivi mentre il padre era vivo e morti ora che è morto. Čedo ricorda il padre, e ora sa che è stato un padre buono, comprensivo e giusto: in un solo momento, questo, il ragazzo che non pensa a niente e non sa niente ha imparato tutto e ora sa tutto. Non farà mai più uno scherzo, non correrà mai più sopra le lisce lastre di pietra del selciato del porto. Ha tredici anni ed è un uomo, un adulto. Alle nove di sera è cominciata la veglia: quattro candele negli angoli della stanza, gente che entra, esce, chi con un cenno del capo chi cincischiando condoglianze. Verso mezzanotte rimangono in pochi contando ognuno il proprio tempo interiore agganciato ai battiti dell’orologio a pendolo e vuoto e uniforme o pieno di piccole scosse calde, sussurri di immagini di eventi ordinari e straordinari della vita del padre. Qualcuno porta da bere, c’è chi si assopisce o fa finta di assopirsi perché gli sia detto di andare. Ci sono rivincite, rivalse, riscosse ritmate dai 4
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rumori della notte. I pensieri sono lunghe onde esaurite e il furore di fare sbiadisce, si perde, muore nella consuetudine di gesti noti di persone prevedibili; e poi è arrivato anche Mikula col suo gatto e anche se da lontano il suo sguardo indagatore ora che Čedo, il ragazzo cui ogni giorno insegna il gioco del calcio, ha visto in faccia un morto. A mezzanotte, prima di andare a letto, Čedo si avvicina al corpo sul tavolo e, incredibile, nessuno ha chiuso gli occhi e gli occhi si muovono. I giorni seguenti tutti parlano di un miracolo: il padre è risorto. Racconta di aver sentito tutto, capito tutto, non poteva muoversi, come se fosse in letargo, temeva di essere seppellito vivo e la vita adesso sarebbe un premio, sarebbe un gioco, se solo potesse muoversi, se non fosse inchiodato al letto. Per tutta l’estate del 1956 Čedo Dujmović, un ragazzo di tredici anni, accudisce il padre immobile; lo conforterà per altri sei anni, col sorriso sulle labbra, tutti i giorni. Il giorno in cui il padre muore nel suo letto, Čedo lascia l’isola, si trasferisce a Spalato e si iscrive alla facoltà di medicina. Ora è un giovane riflessivo e un valente scacchista. Di scorrazzare col pallone tra le gambe per il campo spelacchiato sulla collina di fronte al porto non se ne parla proprio. Mikula, lo strambo inventore di storie cui nessuno crede, muove i pezzi sulla scacchiera e scuote la testa. Dice che il vecchio Dujmović non sapeva giocare a scacchi, che Čedo non sa giocare a scacchi, l’unico a saper muovere i pezzi è lui, Mikula: non per nulla ha imparato da un ingegnere minerario mentre cercavano l’oro in una valle del Perù. Batte il ragazzo per l’ennesima volta e dice: «Il dribbling sulla destra che ti ho insegnato è quello di Vujadinović, Montevideo, 1930, primo campionato del mondo di calcio. Nelle eliminatorie battemmo il Brasile e in semifinale passammo in vantaggio contro l’Uruguay. Si racconta che, a quel punto, entrò in campo un gatto nero: perdemmo 6 a 1. Tu dovresti giocare a calcio». Čedo dà la mano al vecchio giramondo e si complimenta per la mossa che ha appena inchiodato il suo re. «Ma io voglio aiutare il prossimo» dice «sono motivato e riuscirò negli studi e nella professione.» Achille nella terra di nessuno
La notte prima di lasciare Starigrad, nella stanza in cima alla casa – l’armadio verde pieno zeppo di libri è un rifugio amichevole che lo protegge per l’ultima volta dall’abbacinante mondo di luce che sorgerà, puntuale, al levarsi del sole – il giovane altruista legge di dolci declivi, frutteti spogli, della campagna resa azzurrina dalla foschia, vede le fatali colline napoleoniche che odorano, è inverno inoltrato, di neve e polvere da sparo. Il principe Bolkonskij cade col vessillo in mano, lo nota Napoleone e lo loda per il suo coraggio. «Sono coraggioso, sarò un vigliacco?» si chiede il ragazzo raggiungendo con la fantasia il romantico passato di Guerra e pace. All’alba si sveglia nel mezzo di un sogno agitato: il principe Andrej, ferito in battaglia, è stato curato; una volta guarito ha combattuto ancora e ancora contro Napoleone fino a trovare una morte da eroe. Il ragazzo che vuole curare uomini e donne e rendere il mondo un posto migliore si alza dal letto e sospira. Suo padre è stato in guerra, ma non ne ha mai voluto parlare. «Leggi Tolstoj» diceva al figlio «se vuoi sapere qualcosa a proposito della vita e della morte.» Al contrario, Mikula, il vecchio che vive al piano di sopra e non lo lascia mai in pace, non smette di parlare della vastità del mondo e delle sue mille immagini: mentre costruiva la linea telegrafica in Australia, un uomo di grande scienza gli raccontò di un filosofo che credeva nell’assoluta supremazia delle idee sulla realtà della vita quotidiana. Durante una disputa in una piazza, il filosofo aveva sostenuto che, se mai avesse avuto un figlio, lo avrebbe chiamato Achille – le doti e il coraggio dell’eroe greco avrebbero senz’altro ispirato imprese indimenticabili a colui che avrebbe portato quel nome. «Però c’è un problema» aveva detto Mikula, l’idea della gloria contenuta nel nome Achille avrebbe permesso al figlio di vivere eroicamente ma brevemente, mentre, se fosse stato chiamato altrimenti, avrebbe potuto condurre un’esistenza lunga ma senza valore. «Che cosa preferisci, ragazzo?» gli chiede Mikula «Vivere per curare i tormenti di coloro che devono morire oppure imparare il gioco del calcio, rimanendo per sempre nella memoria della 6
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gente? Oggi il campo di battaglia è là.» Mikula indica la collina spelacchiata e le due porte di legno al di là della baia. «La folla applaude, tu sei l’eroe. Se a Montevideo, in quel pomeriggio di luglio del 1930, non ci fosse stato quel gatto…» A quel punto del racconto di Mikula – gli uruguaiani, scatenati dalla maledizione che si accanisce sulla Jugoslavia sotto forma di un gatto nero, rovesciano un pallone dietro l’altro nella rete del povero Jakšić – Čedo si rifugia nella sua stanza in cima alla casa per non soccombere alla tentazione di abbandonarsi, almeno una volta, all’ebbrezza degli uuuh e oooh strappati al pubblico dalle finte, gli scatti, i dribbling che il vecchio pazzo Mikula gli ha insegnato in tutti quegli anni nel cortile di casa. Alla domanda se aveva assistito di persona all’incontro di Montevideo, Mikula, il giramondo, risponde: «No, io no, ero troppo giovane. Ma lui» dice accarezzando il grosso gatto nero che si nasconde tra le sue gambe «lui sì, lui è dappertutto e sempre». Čedo Dujmović, veloce, rapido, leggero, veleggiante sopra l’erba bruciata della collina di fronte al porto di Starigrad, e forte, fortissimo col pallone tra le gambe nel cortile della casa del padre, sarebbe stato un ottimo calciatore. Il sogno di una vita tirando calci al pallone rimane un sogno per il futuro medico. L’aura del giovane nobile pronto a curare le storture del mondo corrisponde meglio al carattere che ha forgiato curando il padre; anche il nome che porta, Čedo, da Čedomil ovvero “bambino caro”, suggerisce che è un figlio devoto. Seguirà le orme del padre, che per tanti anni è stato il medico di Starigrad, sull’isola di Hvar, nella Dalmazia centrale. Il gatto nero che lo accompagna fino al traghetto in partenza per Spalato sembra confermare, con un miagolio e un sibilo, quella decisione irrevocabile. Il sogno di viaggiare e giocare a calcio viene sepolto in fondo alla valigia: si stempera nelle immagini, esotiche e vagheggiate, di due libri di mare di Joseph Conrad; con Tolstoj lo scrittore preferito del padre. [Per sei anni, la sera, uscendo dalla camera del padre, Čedo si è precipitato su, su per le scale fino all’appartaAchille nella terra di nessuno
mento di Mikula sorprendendolo mentre ascoltava Radio Londra. Sera dopo sera, come se non si aspettasse quella visita, il vecchio coinquilino della casa sulla piazza faceva un balzo sulla sedia. Ascoltava in religioso silenzio il notiziario politico inglese nella cucina buia. La spia rossa della radio illuminava il volto scavato. La mano si alzava puntuale, la bocca faceva scscsc. «Qualcuno ti ha seguito?» ammiccava il vecchio. Esaurito il notiziario di fatti ed eventi dal mondo, Radio Londra pronunciava nel suo inglese masticato: «Iunaited, Totten-hem, Chel-si, Liverpuul» precipitando il vecchio e il ragazzo in un universo di reti, risultati e gesta eroiche: tutti quanti si erano verificati su un campo di calcio. Čedo non capiva quasi nulla della cronaca sportiva di Radio Londra. Mikula gliela riassumeva con gli occhi spiritati e la mano sulla bocca.]
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