L'altra regola del gioco

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L’altra regola del gioco



Momentan schreibe ich einige Erlebnisse auf, d.h. ich versuche zu schreiben, (…) denn ich soll es in amerikanischen Magazins veröffentlichen! Natürlich ist dies noch eine vage Sache – aber Du kennst mich ja gut genug, daß wenn ich was machen will – wird es auch gelingen. – Darf ich es zur Correktur Dir und Franzl einsenden? Ich wäre glücklich, wenn Ihr mir helfen würdet. Letzte Woche war Gisèle Freund hier und hat viele Bilder von Heini und mir gemacht zur Veröffentlichung in U.S.A. – Vederemo! [In questo momento sto scrivendo, ossia sto cercando di scrivere, alcune esperienze (…) perché devo pubblicarle in certe riviste americane! Naturalmente la cosa è ancora vaga - ma Tu mi conosci abbastanza e sai che quando voglio fare qualcosa, alla fine mi riesce. Posso spedirvele, a Te e a Franzl, per correggerle? Sarei così felice se mi aiutaste. La settimana scorsa c’era qui Gisèle Freund e ha scattato molte foto di Heini e me da pubblicare negli U.S.A. – Vederemo!] da una lettera di Nora Gregor spedita da La Cumbre (Argentina) a Alma Mahler in California datata 15.11.1941



Prima parte

Viña del Mar, 1948 Che sensazione strana ho avuto oggi pomeriggio in certi momenti! Era da tantissimo tempo che non facevo prove. Lo stormire del bosco di vecchi eucalyptus sulla parte alta della Quinta Vergara si faceva più forte e attraverso le finestre aperte invadeva le stanze del mio cottage. Stavo recitando qualche pezzo a memoria ma spesso mi bloccavo per poi ricominciare con un tono diverso. Durante quelle interruzioni tutto quello che è avvenuto mi è apparso per la prima volta irreale e assurdo. Provavo una scelta di brani di autori classici tedeschi, francesi e inglesi da recitare per una serata in mio onore alla quale sarebbero stati invitati tutti gli ospiti stranieri di Viña del Mar. Ogni tanto mi davo uno sguardo al grande specchio sulla parete di fronte: polo bianca e gonna pantalone beige, accanto una pila di libri su una sedia. Tornavo a concentrarmi, ritrovavo il controllo e cominciavo da capo. Blanca, la mia cara Blanca, la mia “protettrice”, sedeva in fondo alla stanza, su una poltrona nella penombra, e a volte interrompeva, interveniva e, come uno spettatore fra il pubblico, commentava dal suo angolo buio quello che declamavo sotto la luce della lampada a soffitto. Donna Blanca Errázuriz Vergara! Una cilena straordinaria: è già una leggenda vivente col suo portamento fiero, occhi abituati a guardare il mare, quattro lingue fluenti, tutte precise, corrosive e spiritose, fra i suoi ricordi paesaggi e grandi capitali d’ogni continente, istruita e colta, ‘erguida la cabeza, al aire la melena’ e nello scegliere sempre decisa 9


e determinata. Chi non la conosce di persona e ne ha solo sentito parlare, se la figura come un’eroina di Proust. C’è stato però anche chi ha pensato a certe principesse di Dostoevskij. In realtà lei, Blanca, è soltanto la ‘reina de Viña del Mar’, una bellezza energica e imperiosa dal naso orientale, leggermente giudaico, una bellezza autorevole. Donna appassionata in gioventù, ha amato molti uomini sempre poco degni di lei. Si racconta ancora che, in età già matura, avesse dato fuoco alla bella casa sulla costa messa a disposizione del suo nuovo amante, dopo averlo sorpreso, in quella casa, fra le braccia di una giovinetta. E all’accorrere dei pompieri che avevano avvistato da lontano le alte fiamme, aveva urlato: «Non impicciatevi, sono affari miei!». E quelli, giunti trafelati, se ne dovettero andare con la coda fra le gambe. Adoro Blanca e non riesco a immaginare che possa ritenere un amante infedele degno di un simile gesto. Credo che la confondano con una sua parente. Blanca è in ogni caso la padrona di Viña, di quasi tutta Viña del Mar, sorta da un insediamento di un suo intraprendente e facoltoso avo d’origine portoghese. Era stata lei dopo il gran terremoto, a ricostruire in stile moresco la residenza Vergara nel parco della Quinta. Ai tempi della giovinezza di Blanca, Viña cominciava ad urbanizzarsi lungo la ferrovia e in riva al mare, dove erano già sorti alcuni castelletti di foggia europea. Ma le spiagge, le dune e le scogliere di Reñaca sino a Con Con, erano ancora deserte e selvagge, dominio incontrastato del vento e delle onde del Pacifico. Non si vedevano che rari bagnanti. In acqua si entrava solo in sella ai cavalli, che gradivano rinfrescarsi sino alla pancia fra lo spumeggiare dell’acqua di mare. Le donne si proteggevano dal sole: il modello era allora un biancore del viso à la Greta Garbo. L’irrequieta castellana sempre di nuovo innamorata, con l’avanzare dell’età sarebbe diventata una sorta di madre superiora un po’ burbera ma molto generosa. Negli anni venti, durante uno dei suoi ultimi viaggi in Europa aveva conosciuto Ernst. Così quando ricevette la sua lettera, con la quale egli la pregava di ospitare per qualche tempo sua moglie e il figlioletto Heinrich, aveva prontaL’altra regola del gioco


mente risposto con un telegramma: «Vi aspetto a braccia aperte». Ci offrì così quella casa con giardino oltre il bosco di eucalyptus sulla parte alta della Quinta. Col tempo avevo poi stretto amicizia con lei. La trovavo affascinante e un po’ affine a me. Quando finii di studiare i fogli mi rivolsi a lei per dirle: «Voglio che la mia prima parola sia…“Grazie! Grazie di cuore a voi tutti per essere intervenuti così numerosi. È una gran gioia per me ritrovarmi così sul palco di fronte alla platea quasi piena di questo bellissimo teatro di Viña del Mar!”». «Come quasi piena? Sarà piena! Gremita!» aveva protestato Blanca dall’altro lato della stanza. «Va bene…» continuai «e allora dirò: “è una grande gioia per me ritrovarmi su un palco di fronte a un pubblico così numeroso in questo bellissimo teatro di Viña del Mar! Permettetemi di porgere però subito anche un doverosissimo e sentito grazie particolare alla persona che ha voluto questa serata, alla persona che ha tanto insistito e alla quale ho ceduto e alla fine ho detto di sì. Un grazie dal più profondo del cuore alla più cara delle donne, a te amatissima Blanca per aver creduto in me e avermi incoraggiata. Grazie amica generosa per tutto quello che hai fatto per me…”. E qui credo dovrebbe senz’altro scrosciare un applauso appena t’indicherò con la mano fra il pubblico in prima fila…» mi fermai come ripensandoci. «No, no… troppo formale! Forse sarebbe meglio, invece, iniziare subito con una poesia di Hofmannsthal e pronunciare le prime parole solo qualche attimo dopo che il buio sia completamente sceso in sala… Senza leggere. Recitando a memoria.» Mi ero concentrata per un attimo e poi avevo cominciato a declamare con molta sicurezza una serie di terzine che parlavano della materia dei sogni, di occhi di bambini incantati a osservare una luna oro pallido attraverso i rami di un ciliegio, di mani di fantasmi che frugano nel proprio intimo come fosse una stanza buia e chiusa, per concludere con la rivelazione: «“Sono tre e allo stesso tempo una sola realtà: un uomo, una cosa, un sogno…” No, non così! Forse dovrei dirla più 10 11


piano… di terzina in terzina sempre più lentamente. E il verso finale in modo ancora più lento staccando le parole: “Sono tre… e allo stesso tempo… una sola realtà: un uomo… una cosa… un sogno”». «Come sa essere bella la tua voce!» commentò Blanca battendo con delicatezza le mani. «A volte pronunci le parole quasi fossero soltanto un sospiro, a volte sembri esitante come se stessi dicendo tu le cose e cercassi la parola giusta, incerta, non insicura… di sillaba in sillaba, quasi che la parola dovesse improvvisamente interrompersi per un’altra più giusta, più efficace… o dare inizio al silenzio…» E io l’avevo interrotta: «Blanca! Sto solo provando; cerco di ricordarmi l’intonazione migliore… La tua è stata ad ogni modo un’osservazione giusta. Era proprio quello che a Vienna si diceva della mia voce: “In lei la parola tende a farsi silenzio …è il tono lieve del pianissimo del pudore, della timidezza… leise aber weithin hörbar”» scandii enfatica le sillabe, «a bassa voce eppure ben udibile anche da lontano. Come suggeriva Oskar Fontana, ero fatta per sussurrare le parole dei poeti… un’attrice adatta ai ruoli lirici… No, non ero un’attrice tragica, non ero portata per il demoniaco e il passionale… a volte mi facevano anche sorridere, più spesso trattenevo una risata». Assumendo un’espressione grave aggiunsi poi con un tono ironico: «”La grazia di un angelo botticelliano pieno di una dolcissima malinconia!” Mi prendevano per italiana, perché venivo dal sud, da Gorizia; non interpretavo, a detta di alcuni, ma ero di volta in volta questo o quel personaggio femminile, felice o infelice. Piaceva insomma una certa grazia fragile e adolescenziale della mia voce che trovavano insolita… Ma torniamo alle mie parole introduttive. Devo dire subito che manco dalle scene da più di dieci anni? A parte il film con Jean e Le Moulin des Andes ho fatto solo qualche lettura pubblica a Parigi nel ‘39. Non vorrei però dare l’impressione di chiedere benevolenza e comprensione. Una giustificazione… essere fuori forma… non essere preparata abbastanza…». «Non farti tanti problemi! Se una ha talento, ce l’ha e basta, e se non ce l’ha… non ce l’ha. E non può mai perderlo» intervenne Blanca perentoria. L’altra regola del gioco


«È dal febbraio del ’37 che… Sono più di undici anni ormai. Prima ero sempre impegnata e non mi ricordo pause o vacanze… o ero in scena o alle prove o su un set. Quanto ci faceva lavorare Max! Max! Il grande Max! Pensa, l’ho conosciuto a Berlino nel ‘22. Mi trovavo là in tournèe con Pallenberg e lui mi ha notato per caso, mentre recitavo in una commedia. A quell’epoca aveva deciso di assumere la direzione dello Josefstädter Theater. Una mattina mi portano un biglietto in camerino: lui, Reinhardt, Max Reinhardt, voleva incontrarmi! Gli ero piaciuta e voleva propormi di entrare nel suo gruppo. E nell’estate di quello stesso anno ero già con lui a Salisburgo per il primo ruolo che mi affidò: nelle vesti di Beline in Il malato immaginario di Molière. Era una delle prime edizioni dei Festspiele! Come ci siamo divertiti! “Lasciate che vi racconti qualcosa di lui” potrei aggiungere, in fondo è una celebrità. A lui poi devo molto, molto. Moltissimo…» Mi soffermai a riflettere e dopo un po’ ripresi a raccontare: «Diceva spesso: “Es gibt nur einen Zweck des Theaters: das Theater”. In altre parole, il teatro ha un unico scopo: il teatro. Lo ripeteva guardandoci negli occhi, scavando nello sguardo dei suoi allievi o dei suoi attori. Solo molti anni dopo mi avrebbe accennato che al nostro primo incontro il mio sguardo si era acceso, i miei occhi sbarrati avevano brillato, aveva sottolineato con un sorrisetto ironico. Era stata quella sua frase a rendermi radiosa. Come se mi avesse capita profondamente. Ero come commossa da qualcosa che amavo profondamente. Ero una entusiasta. Un’esordiente entusiasta. Me lo ricordo bene (anche se con lui hanno studiato e lavorato in centinaia), non posso dimenticare quello che mi aveva detto a Salisburgo: una volta mentre recitavo, mi raccontò, era rimasto a spiarmi fra le quinte… e mi aveva trovato “piena di una nervosa armonia, luminosa nella delicatezza”. Per lui ero, anche queste sono parole sue, “una natura che irradiava uno straordinario incanto”». «C’è stato qualcosa tra di voi?» domandò secca Blanca. «Oh no, non ci ha mai nemmeno provato! La seduzione in lui si limitava alla gentilezza. Gentile e geniale, era il suo modo naturale di essere. E poi io stavo già col pianista… 12 13


Sono stata comunque una delle prime donne che ha ingaggiato per i suoi progetti viennesi. Una delle prime cose importanti che mi fece fare fu Heilige Flamme di Maugham.» Un’altra breve interruzione. Rimanevo ferma a guardarmi in silenzio allo specchio. Ripresi quindi a parlarle di Reinhardt: «Era un grande maestro; sotto la sua direzione sono passate folle di aspiranti attori e attrici, pochi però hanno avuto il successo che ho avuto io,» mi corressi «… pochi sono arrivati dove sono arrivata io. Eravamo in tanti e tutti privilegiati. Ci accomunava l’orgoglio di poter lavorare con lui. La frase che mi è rimasta più impressa di lui è stata però un’altra, pronunciata in un discorso a una festa. Aveva detto: “In tutta la mia vita non ho fatto altro che realizzare i miei sogni”. So a cosa si riferiva in quel momento: nel parco del castello di Leopoldskron, vicino a Salisburgo, aveva appena realizzato l’ennesimo suo sogno. Lontano dal palazzo, aveva fatto costruire un palcoscenico su un prato fra gli alberi. Altissime staccionate che ben presto si sarebbero ricoperte di piante rampicanti, circondavano il luogo isolandolo. Aveva acquistato da altri parchi una schiera di statue barocche di figure mitologiche in arenaria e le aveva fatte trasportare lì. Attraverso corridoi sotto pergolati fra il verde si accedeva al palco che, invece di tavole, era di pietra e al cui centro due puttini stavano affianco a una grande conchiglia per il suggeritore. In quel bellissimo teatro all’aperto in cui si fondevano assieme bellezza della natura, gusto barocco austriaco, tecnica teatrale moderna e la più ricercata fantasia artistica, sembravano veramente realizzarsi certi versi di Hofmannsthal. L’idea era d’inserire il teatro nella realtà, in mezzo alla realtà, e quindi anche alla luce del giorno, non isolandolo in un luogo chiuso e buio. Non il teatro che rappresenta e rielabora la realtà… ma la realtà che imita il teatro. Noi tutti recitiamo e fingiamo, ma solo a teatro questa verità si rivela». «Ah! Cerebralismo puro!» fece Blanca con un gesto di rifiuto della mano. Ricominciai a cercare qualcosa fra i miei fogli. «Ecco!» esclamai ad un certo punto e aggiunsi che avrei dedicato la lettura di quel brano a lui, a Max Reinhardt. Erano passati L’altra regola del gioco


ormai cinque anni dalla sua morte. Avevo scelto versi tratti dal Prologo ad Anatol. «No, questa parte no» dissi un attimo dopo. «Posso saltarla. È troppo lunga… potrei invece passare subito, ecco, a questi versi finali: “…sole d’estate al posto delle luci, / così facciamo teatro, / recitando le nostre stesse pièces, / noi precocemente maturi e delicati e tristi, / la commedia della nostra anima, / l’oggi e lo ieri del nostro sentire, / formula graziosa di verità malvage, / parole lisce, immagini variopinte, / nascosti sentimenti a metà sinceri, / agonie, episodi…”. E per pubblico, continuavano quei versi, le persone intorno a noi: alcune seguono, altre sognano oppure ridono, alcune mangiano un gelato… e altre ancora, mentre noi recitiamo le nostre pièces personali, si sussurrano cose molto galanti… mentre “garofani ondeggiano al vento, / garofani bianchi dal lungo stelo, / come una frotta di farfalle bianche, / e un cagnolino bolognese / abbaia sorpreso ad un pavone… La Vienna del Canaletto!”» Misi in ordine i fogli e poi andai alla finestra. Guardavo fuori in silenzio. Blanca mi fece di nuovo i complimenti per la mia figura che lei trovava ancora giovanile ed elegante e ad un tratto con un tono un po’ canzonatorio cambiò discorso: «Da quel mondo a Hollywood! Come si fa?». Sì, ha ammesso Blanca ripensandoci, nelle ultime settimane le sono apparsa diversa dal solito. Quei silenzi insolitamente lunghi durante i nostri incontri… e i miei occhi grigi che tutt’a un tratto si fanno malinconici, dice lei… Ogni volta però, quando notavo che Blanca mi stava fissando seria, subito mi controllavo e riassumevo un tono di voce deciso e sicuro con uno sguardo nuovamente diretto. In questi ultimi giorni so però di averle dato l’impressione di essere piuttosto distaccata, assente, io, che nei primi tempi mi ero rivelata così sentimentale e nostalgica in tutto quello che le confessavo. Mi ha detto a un certo punto di aver avuto l’impressione che mentre mi parlava, io stessi sempre pensando ad altro. Vivo in questa dependance della Quinta, godendo dell’ospitalità dei Vergara, ormai già da diversi anni e in tutto questo tempo le nostre conversazioni sono 14 15


state soprattutto un raccontarci l’una all’altra. Blanca mi ha detto praticamente tutto di sé; mai nulla di triste e mai qualcosa di nostalgico però, semmai, per divertirmi o consolarmi, racconta con ironia o con disprezzo della mediocrità rivelata dalla maggior parte delle persone incontrate nella sua vita. Con Blanca, insomma, di cui sono divenuta molto amica, mi sono confidata su tutto, e insieme abbiamo discusso appassionatamente anche su alcuni momenti della mia carriera nei quali avevo sentito la gratificazione del successo dissolversi nell’angoscia e nello smarrimento. Le avevo dovuto spiegare nei minimi dettagli anche il perché della mia rinuncia a Hollywood nei primi anni trenta per tornarmene nel Vecchio Continente.

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