Il mago della fiera

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Il mago della fiera




A capofitto

1 Non esiste un momento adatto per iniziare questo racconto. Ogni momento sembra allo stesso modo sbagliato e giusto. Non esiste la possibilità di dire tutto in modo lineare, perché a volte il tempo scorre in modo circolare. Mi pare che ogni tanto accada di nuovo ciò che è già accaduto, secondo lo stesso, assurdo, copione che non riesco a impedire. E Dio solo sa se ci provo sul serio. Oppure non faccio altro che ingannare me stessa, mentre godo in quell’infinito disgustoso lamento. Capofitto. È solo una parola che qualcuno in questi giorni ha pronunciato e sulla quale il mio respiro è rimasto un po’ più a lungo del normale. Capofitto. Sentite la forza di questa parola? Io la sento. Anche troppo. Non importa. Ciò che importa è scegliere un momento, uno qualsiasi, e dire le cose, nel modo più semplice possibile. Per esempio così. Ho letto un mediocre romanzo d’amore dove era scritta più o meno questa frase: «Se tu sei un vulcano, allora io sono certamente Pompei». Forse è kitsch. Ma forse è anche un grande pensiero. Qualcosa mi impedisce di esprimere un giudizio razionale. Infatti, se solo mi concentro un poco su quella frase, posso facilmente sentire la cenere che scende a capofitto su di me, sulle mie mura, nelle officine, nei panifici, nelle stanze da letto, nei magazzini e lungo i miei viali infiniti. Quindi, abbiamo due parole, come inizio. Capofitto e Pompei. In un certo senso mi sembra che non si dovrebbe dire niente di più, ed è probabile che questa prima impresIl mago della fiera


sione sia esatta, ma, d’altro canto, qui c’è anche l’altro che vuole sentire fin nei minimi particolari come, dove, in quale momento quello sfacelo sia accaduto. E a chi in genere, oltre a me, potrebbe interessare? È solo una fra le innumerevoli persone precipitate a capofitto. Il mondo ne è pieno. La vostra strada ne è colma. Il vostro palazzo ne è strapieno. Quelli che sono precipitati, stretti in cravatte, collant e scarpe scomode, camminano intorno a voi. Questo mio individuo caduto a capofitto è solo uno di loro. Né migliore né peggiore. Forse, solo per una piccola sfumatura, incline più degli altri precipitati all’esibizionismo. Fate un grosso errore se adesso pensate che io ami in modo particolare le introduzioni lunghe e misteriose. Neppure per idea! Si tratta di pura vigliaccheria. Infatti, nell’istante in cui finisce l’introduzione si deve, ineluttabilmente, passare ai fatti. In modo caotico, certamente, raffazzonato, ma comunque qualcosa dovremo iniziare. E io lo voglio e non lo voglio. Proprio come chi va dallo psichiatra e dice: «Dottore, forse sono bipolare, e forse no!». Ecco, così. Fichi secchi. Arachidi. Una quantità sufficiente di sigarette. È tutto qui. Si deve solo iniziare, da qualche parte, da qualche punto innocente, che non se lo aspetta, e poi sarà la cosa stessa a condurvi in una direzione sbagliata. 2 Mio marito ha sempre insistito per avere un asciugamano solo per sé. Non so se questo fatto spieghi qualcosa. A volte, con l’aiuto di varie, piccole, astuzie, ho tentato di fargli usare il mio asciugamano. Dicevo, per esempio, che li avevo lavati tutti e ne era rimasto solo uno. Oppure che, essendo in procinto di partire per un viaggio, sarebbe stato assurdo mettere mano a tanta biancheria pulita. Talvolta addirittura appendevo il mio asciugamano, che avevo usato una sola volta, al gancio che lui usava per il suo. Ma non serviva a niente. In silenzio, senza una sola parola di protesta, senza 62 63


esprimere a voce alta i suoi desideri o il suo malcontento, lui trovava da qualche parte un asciugamano pulito e quando poi entravo in bagno con lui, là mi accoglieva sempre quello stesso, definitivo, segno di separazione dei nostri corpi. Non riuscivo a capire. Erano innumerevoli punti del corpo che a vicenda ci toccavamo, baciavamo, leccavamo, ma poi, quando alla fine di tutto questo andavamo a lavarci, lui aveva sempre la necessità che nessuna delle cellule morte della mia pelle si trasferisse sulla sua. Non so esattamente dire in quale momento, dopo tanti anni di vita comune, ho iniziato a credere che mi sarei innamorata, in modo irrimediabile e a capofitto, del primo uomo che avesse voluto asciugarsi con il mio asciugamano. Con l’asciugamano che era appena passato sul mio ventre, il mio sedere, che si era infilato fra le mie gambe e, forse, conservava ancora un peluzzo umido. Innamorata di qualcuno per cui tutto ciò fosse naturale. Una volta mio marito si ammalò molto gravemente. Rimase in ospedale per giorni, settimane senza fine, giallo ed emaciato, non somigliava più a se stesso, e per più di un mese nel nostro bagno rimase appeso solo il mio asciugamano. Fu un periodo triste. Un solo asciugamano significava che ero sola e che lui non c’era. Rimanevo così a fissare quell’unico asciugamano, appoggiato alla lavatrice, guardavo l’asciugamano a lungo, finché non mi stancavo di piangere. Mi sembrava che non sarebbe mai tornato. Ma tornò. Sopravvisse. Ed eccolo di nuovo lì, quell’altro asciugamano. Sono di nuovo appoggiata alla lavatrice, in preda a sentimenti più confusi che mai. Naturalmente, sono felice che sia vivo. Ma ciò non m’impedisce di certo, con una nuova forza, di arrabbiarmi con l’altro asciugamano. Non credo più che coloro che si sono trovati così vicino alla morte comprendano certe cose fondamentali. Neanche per sogno! Non capiscono niente. Ritornano assolutamente identici a prima. E prendono il loro asciugamano pulito, lo usano per asciugarsi, proprio come se non avessero trascinato per i corridoi dell’ospedale quella sacca collegata alle Il mago della fiera


loro vene, proprio come se tutto fosse successo a qualcun altro, e non a loro. Proprio come se avessi passato un asciugamano umido fra le gambe, a qualcun altro, e non a lui, là, in quell’ospedale dove non si sapeva mai quale dei nostri incontri potesse essere l’ultimo. Non vorrei più parlare di asciugamani, davvero. Sembra che sia la cosa più importante. Mentre non lo è. O forse sì. Non esiste la cosa più importante. Ce ne sono molte di minuscole, insignificanti. E all’improvviso scopri di essere sepolto da qualche parte, laggiù, sotto la cenere. A Pompei, nel peggior momento possibile. 3 La morte è sempre così vicina. Voglio parlare di qualcosa di completamente diverso, ma per qualche incomprensibile motivo questa frase si impone come inizio del periodo. Di qualsiasi cosa vogliate parlare, quel fatto rimane. E cambia la vostra prospettiva. La morte è sempre così vicina. Quando pensate che non lo sia, è solo un’illusione. È così. La consapevolezza della sua vicinanza cambia tutte le vostre idee, tutto ciò che forse vorreste dire dell’amore, della fine dell’amore, della separazione, dell’adulterio… Tutto diventa assolutamente senza senso quando sapete questa cosa. E la sapete. E non c’è modo di dimenticarla. Avete ragione, la tiro di nuovo per le lunghe. La morte è il mio pretesto ideale per divagare. Solo per non parlare di ciò di cui ha veramente senso parlare, almeno finché siamo ancora vivi. La mano di mio marito rimaneva per giorni stranamente immobile, appoggiata sul letto d’ospedale. Lui è un uomo disciplinato, paziente. Lì gli infilavano l’ago attraverso il quale tutto entrava in lui e lui lo sopportava con assoluta docilità. La sua mano per questo aveva un po’ cambiato colore. Prima era diventata gialla, poi aveva acquisito una sfumatura quasi arancione. Come una carota pallida. Era strano. Dalla mano, quel colore si era diffuso su tutta la sua pelle. Giallo, e subito dopo arancio. Io stavo seduta accanto a lui e lo guar64 65


davo mentre con l’altra mano, quella libera, introduceva in bocca insipidi bocconi. Mentre masticava leggermente. E poi passavo con gli occhi oltre tutte le apparecchiature alle quali lo avevano collegato, trovavo un centimentro di finestra e come un viaggiatore con la nausea fissavo lo sguardo in lontananza. Così vi dicono di solito: guarda lontano e respira profondamente. Facevo così. Inspiravo profondamente alcune volte e all’improvviso non eravamo più lì, ma su un prato, quindici o venti anni prima. Io vado in bici, lui corre accanto a me. Andiamo là ogni pomeriggio, perché solo in bicicletta io riesco a seguirlo mentre corre. Lui è veloce. Lui è forte. I muscoli delle sue gambe sono duri come fossero scolpiti nella pietra. A volte lo lascio andare avanti di un metro o due, per guardare la linea del suo corpo. Posso intravedere ogni movimento sotto la sua maglietta. Vedo come si muovono le sue scapole. Vedo come si sollevano le spalle, prima una poi l’altra. Quando arriveremo a casa, penso io, quelle mani saranno su di me. Quelle stesse mani che ora sono leggermente chiuse a pugno e volano attraverso l’aria. E a quel pensiero senza volere inizio a pedalare più forte e lo sorpasso. Adesso è lui a guardarmi la schiena, il sedere, e a pensare ciò che pensa. Questo non lo sappiamo. Possiamo solo intuirlo. E aspettare che lo sussurri nel buio, dopo. Lo sapevo già allora, in quella stanza, osservando il giallo delle sue mani. Lui forse sopravviverà. Ma la passione no. Nessuno mai ve lo insegna. La fragilità del desiderio. L’essere insensibile e spietato dentro noi che può desiderare solo colui che è forte, colui che non vi si è mai presentato con la sua debolezza, colui che non è mai stato davvero miserabile. Nessuno me lo ha mai detto, veramente. E sarebbe molto semplice. Assieme ai consigli sulla dieta, alla lista dei medicinali, avrebbero dovuto dirmi anche questo: «Da adesso, tu sei sua madre, e non la sua amante. Lo amerai di più, ti preoccuperai per lui molto di più, ma lo desidererai molto meno». Nessuno ve lo dice. Tutti vi parlano solo di una sana nutrizione e della necessità di camminare. Il mago della fiera


4 Il matrimonio ha le sue piccole perfide trappole. La trappola della vicinanza, prima di tutto. La trappola dello svelamento dei segreti. La trappola della scoperta di ogni macchia e imperfezione della nostra struttura. L’illusione che proprio tutta quella vicinanza è il meno che possiamo sopportare. Lui, mio marito, è il mio specchio. Mentre lo guardo, mi vedo girare per casa tutto il fine settimana in una vecchia camicia da notte, spettinata e svogliata. Come un pugile in pensione. In modo incomprensibile per chiunque altro, godo della mia caduta a capofitto. Con amore passo il palmo della mano sui miei calcagni ruvidi. Sui peluzzi ispidi dei miei polpacci. Mi gusto il sapore delle mie unghie. Il sapore della mia vanità mangiucchiata. C’è in questo una certa inspiegabile libertà. Non dobbiamo più fare niente! Non dobbiamo rifare il letto al mattino. Non dobbiamo comprare i fiori e metterli nel vaso. Non dobbiamo spolverare. Non dobbiamo guardare assieme la televisione la sera, né far colazione in giardino. Ognuno di noi, libero nella sua caduta a capofitto, può aprire il frigo quando ne ha voglia e tagliarsi una fetta o due di qualcosa di salato e di poco sano. La vita diventa incomparabilmente più semplice quando si smette di cercare di essere belli, baciati dal successo e felici. Naturalmente, niente di tutto ciò avviene da un giorno all’altro. Prima siete stressati e pensate che sia solo una situazione temporanea. Che verrà il giorno in cui tutto tornerà al proprio posto, le calze saranno riposte nei loro cassetti, e tutte le camicie saranno stirate in tempo. Che verrà il fine settimana in cui farete di nuovo l’amore proprio come un una volta. Ci credete a lungo. E a lungo aspettate che le cose tornino alla normalità. Questa attesa vi porta una certa dose di tranquillità. Blocca il vostro interruttore del panico. E poi, a un certo punto, capite solo che quella situazione è permanente e che non desiderate più uscirne. E non c’è panico. Lo avete evitato. Non si è mai verificato. La trappola ha funzionato. Di colpo potete sopportare tutte le cose di cui avete sempre avuto orrore. Diventate tolleranti nei confronti di ogni 66 67


tipo di musica. Non litigate con quelli che al supermercato saltano la coda. Non sgridate i bambini altrui che calpestano le vostre aiuole. Siete abbandonati dall’impulso alla lotta, in ogni forma. Cessate di gareggiare con voi stessi. E di confrontarvi con le cose che sono più forti di voi. Vi viene da gridare allegramente a tutto il mondo: «Prego, passate avanti, siete più veloci!». E letteralmente, iniziate a cedere il passo agli altri. Sulle scale mobili, in ascensore, per strada. Avete ancora un unico desiderio. Essere completamente invisibili, trasformarvi nella più insignificante grigia creatura che striscia sul marciapiede, inosservata da tutti. 5 C’è, tuttavia, una falla in questo. Quando pensate di aver svelato il principio che sovrintende al funzionamento della trappola, salta fuori che ogni trappola ne ha un’altra accovacciata dietro a sé. Le grigie creature invisibili vengono notate dalle altre grigie creature invisibili. E ora eccomi qui. Io dico: «Che triste non esserci incontrati trent’anni fa». Lui dice: «Ah, ma a quel tempo non mi avresti notato!». E probabilmente ha ragione. Passo la mano sui peli grigi del suo petto e mentre giaccio appoggiata alla sua spalla guardo le foto di quando era giovane. Estate del Settantasette, lui è sulla spiaggia, in groppa a un asino. Spalle larghe, capelli folti. La costante erezione che appartiene a quell’età si può solo immaginare. Ha ragione, è probabile che allora non l’avrei neppure notato. O avrei solo constatato che si trattava dell’ennesino cretino che voleva fotografarsi su un asino. E probabilmente era davvero così. Come io ero solo una ragazzina che non poteva neppure immaginare che la caduta a capofitto sarebbe iniziata proprio lì, nel momento in cui quel cretino sull’asino diventava la sua salvezza mentale. Io gli dico: «Se tu sei un vulcano, io sono sicuramente Pompei». Il mago della fiera


Lui mi guarda, con occhi caldi fra tutte quelle rughe, e dice, come se pronunciasse chissà quale sentenza: «Un giorno parlerai con nostalgia perfino di questo periodo. È la cosa più triste di tutte». E avreste dovuto vedere – aveva proprio ragione. Perfino quel periodo è trascorso. La libertà inizia il giorno in cui smettete di contare le vostre cadute a capofitto. E vi abbandonate. Perché, quel precipizio, è ineluttabile.

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