I figli di Hansen

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Ognjen Spahić

I figli di Hansen Prefazione di Claudio Magris Traduzione di Ljiljana Avirović



L’ amore ai tempi della lebbra. La prigione della malattia, specchio del regime comunista di Claudio Magris

La malattia, dice il Dizionario di teologia di Karl Rahner ed Herbert Vorgrimler, è una manifestazione estrema della situazione creaturale dell’uomo, cui essa sottrae almeno parzialmente la capacità di disporre di se stesso, ponendolo in una situazione rischiosa o estrema in cui può dare il peggio o il meglio di sé. Quasi ogni epoca, inoltre, ha le sue malattie, che ne esprimono caratteristiche e contraddizioni fondamentali, finendo per diventarne un simbolo. Così la peste dall’antichità al Medioevo al Seicento, la sifilide o la tubercolosi nell’Ottocento, il cancro o l’Aids ai nostri giorni, per non parlare della follia. Tanta grande letteratura si è confrontata a fondo con la malattia e soprattutto con le simboliche malattie epocali: dalla peste di Tucidide, Lucrezio, Boccaccio, Chaucer, Defoe, Manzoni o Camus all’epilessia di Dostoevskij o alla tisi di Thomas Mann, per citare solo alcuni esempi. Malattie nascono, scompaiono – non ci si vaccina più contro il vaiolo –, ritornano. La lebbra è quasi scomparsa dal nostro immaginario, anche se pare esistano al mondo ancora circa settecento lebbrosari. Così scrive almeno Dario Grgic recensendo un forte, originale romanzo di Ognjen Spahić, I figli di Hansen, in cui la lebbra diviene, con grande intensità poetica, metafora del mondo e in particolare della storia contemporanea. Nato a Podgorica, la capitale del Montenegro, nel 1977, musulmano, Spahic è una voce di punta di quella giovane generazione intellettuale montenegrina schiettamente moderna e liberaldemocratica, aperta, V


culturalmente occidentale e affettivamente legata alle proprie origini, che si oppone al tradizionalismo talora regressivo ancor presente nel Paese, un Paese di recente indipendenza e di ancor fragile democrazia. Il titolo del suo assai notevole romanzo deriva dal nome dello studioso norvegese Hansen, che nel 1873 isolò il virus della lebbra; l’azione si svolge nell’ultimo lebbrosario della Romania sud-orientale, situato nei pressi di una fabbrica di concime chimico. Chiuso al mondo, il lebbrosario è un universo concentrazionario, in cui esistono solo malati e che si regge sulla contrapposizione “noi-altri”, “isolamento-non isolamento”. Spahić narra con vera potenza poetica la vita dei reclusi, il rituale quotidiano dei loro gesti, l’arrivo dei pacchi di aiuti umanitari della Croce rossa internazionale da cui doganieri e contadini affamati hanno sottratto i cibi più ghiotti; le lattine di succhi di frutta tropicale che inducono “i lebbrosi”, mentre le aprono con le loro mani marcite, a sognare le belle mani delle ragazze caraibiche che pochi mesi prima hanno accarezzato quella frutta. L’esistenza dei lebbrosi è fatta di rivalità e anche di amori, di reciproca curiosità per le misere escrescenze dei loro corpi e per gli abrasivi progressi del male, per le fessure scure e mollicce che hanno preso il posto dei nasi o per gli organi sessuali maschili, «assai simili, in certi stati della malattia, alla radice secca della genziana o di un rampicante, alle dita storte e inutilizzabili della vecchiaia». Ma la vita, il sentimento, la passione irrompono anche fra i corpi e le anime chiazzate di macchie biancastre come neve, e Spahić narra di amicizie, di amori, di rivalità, di grandezza umana strappata all’estrema debolezza di una carne lesa e vilipesa; la bellezza incantevole della natura che si offre all’occhio sano e si altera, per l’altro occhio devastato, in una nebbia gommosa. Le pagine finali – in cui l’Io narrante trascorre i suoi giorni in un faro dell’Adriatico, in un altro isolamento – I figli di Hansen


hanno una struggente e secca poesia della solitudine. Poesia resa con grande intensità dalla versione ancora inedita di Ljiljana Avirović, magistrale traduttrice dall’italiano in croato ma pure, come in questo caso, traduttrice dalle lingue slave in italiano, anche di grandi autori quali Bulgakov o Pasternak. Ma quel lebbrosario è anzitutto uno specchio, deformato e deformante ma paradossalmente veritiero, della storia del mondo ed è in questo che risiede la caratteristica più rilevante del romanzo. Intorno a quella prigione crolla un’altra prigione, il regime di Ceauşescu. Spahić è riuscito a scrivere anche una parabola, grottesca e precisa, di un evento storico epocale e universale come la caduta del comunismo nel 1989. Ancora una volta, anche grazie alla letteratura, la malattia – l’evento più personale, talora incomunicabile, nell’esistenza di un individuo – diviene il volto del mondo. settembre 2010

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I figli di Hansen



Con la neve fiacca scendono i lebbrosi. RenĂŠ Char, La vittoria della luce



L’ultimo lebbrosario d’Europa si trova nel Sud-est della Romania, tra paesaggi altrettanto lebbrosi di terra sterile, punteggiata dai pingui comignoli delle centrali termoelettriche e dai resti di vaste foreste del passato. Sono scomparse da tempo le zolle fertili che ricordavano le pesanti orme di Burebista e Decebalo, cavalieri della Dacia sempre pronti a conficcare il ferro nelle splendide groppe dei cavalli romani e nelle pance satolle dei forzuti legionari di Traiano. Vlad III Ţepeş, Mircea il Vecchio, il moldavo Stefano il Grande, “atleta del cristianesimo”, e Michele il Valoroso, apostoli fedeli della parola divina, un tempo furono costellazioni verso le quali si guardava con occhi colmi di speranza, mentre le sciabole ricurve degli ottomani facevano scorrere fiumi di sangue giovane. L’antica storia di questo Paese era stata lacerata – molti amano dirlo – dagli artigli di vecchi leoni malvagi, le cui criniere erano state insozzate dai cadaveri di milioni di uomini soggiogati. Eppure la Romania non dimentica la gloria dei suoi prodi. I fiumi scorrono, ma le rocce rimangono, recita un vecchio adagio romeno, e ancor oggi si sentono raccontare le eroiche imprese delle legioni di Ţepeş, disposte a regalare alla loro terra anche l’ultimo anelito delle proprie forze. Il mio caro compagno di stanza, Robert W. Duncan, amava dire che la storia rappresenta il terzo occhio dell’umanità, con il quale si possono ravvisare i più imperscrutabili precipizi del nostro malinconico tempo. 5


Gli rispondevo sempre citando Cioran, il quale scrive che se il mondo fosse privo di malinconia, la gente arrostirebbe anche gli usignoli. Allora R.W. Duncan replicava che lo faceva rabbrividire l’idea di un usignolo spennato, guarnito di erbe profumate e di aglio, e mi pregava di risparmiargli il supplizio non parlandone più. Cominciavo a cinguettare, attraverso i denti rovinati, a muovere le braccia e girare per la stanza, finché R.W. Duncan non afferrava le ciabatte e me le lanciava in testa. Lui voleva dormire, ma io non ci riuscivo. Mi piaceva stare alla finestra, mentre mi ronzavano in testa frammenti di storia che subito si riducevano in polvere, come quella trasportata dal vento fresco dei Carpazi nelle asciutte sere d’estate, o quella che sempre trasporta il vento più caldo che soffia uniforme lungo i pendii rocciosi delle Alpi Transilvaniche. Sentivo il profumo della foresta e del mirtillo, il respiro dei campi rigogliosi e la fragranza dei fiori del lillà nano; il gusto delle rocce, delle particelle stritolate tra i denti o che si conficcavano nella fragile parete della cataratta. Quando chiudevo l’occhio destro, quello in perfetta salute, sul paesaggio scendeva una coltre nebbiosa: il chiaro di luna diventava una gomma da masticare calpestata e il mio compagno di stanza un ratto. Le luci violacee dell’attigua fabbrica di concime chimico tremolavano simili a stelle morenti, mentre il busto marmoreo di Alexandru Ioan I, che si ergeva al centro del cortile ospedaliero, a stento dava segni della propria presenza. Aprivo il destro e chiudevo il sinistro. Strizzavo un occhio e poi l’altro. Abbassavo e alzavo le palpebre godendomi, in privé, il dualismo del mondo. Le pagine che seguono sono state scritte con l’occhio destro e con il solido apporto della ragione e delle facoltà mentali. Le persone che ho avuto modo di incontrare e conoscere lungo il cammino – come potrete intuire, di Decebalo e di Burebista, così come del re Ioan, non posI figli di Hansen


siedo informazioni di prima mano – saranno vergate così come me lo impone la coscienza. Quelle che non ho incontrato, ma che, per il gioco dell’intenzione, oppure del caso, sono diventate parte indissolubile della mia vita, proverò a tramutarle in parole, assicurandomi che neppure una sola lettera stampata si trasformi in cicatrice, quella che abbruttisce la purezza della verità.

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