Il muro del Nord

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Il muro del Nord


Per Jeanette


Ogni anima può essere tua, se intuisci e segui le sue fluttuazioni. Vladimir Nabokov



L’ inizio del racconto è l’entrata in città. Possiamo avvicinarci da più parti: per vie traverse, oppure in linea retta lungo il boulevard, e sbucare sulla vasta piazza. Se resistiamo alla tentazione dei vicoli laterali, degli androni oscuri e delle ombre dei cortili interni, il nostro tragitto sarà breve e senza incertezze, lineare come la soluzione di un rebus. Tuttavia, il significato di un viaggio è che alla meta giunga qualcun altro.

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Il contenuto futuro dell’urna continua a pulsare di vita, ma le esercitazioni di morte sono ormai quotidiane. Il rituale del commiato mattutino si estende anche alle ore pomeridiane. Quando alle nove portano il caffè, Marta è già seduta in poltrona, rivolta all’ampia finestra con vista sulla strada. Il caffè ha mantenuto il suo spiccato aroma, di vaniglia e cannella. Gli occhi di anziana vagano al di sopra dei tetti e oltre gli alberi del parco vicino. Le fronde rivelano barbe ondeggianti e favoriti, volti contratti sui quali è scolpito un grido raggelato. L’ acqua mugghia e invade il piccolo spazio dell’alloggiamento. Su un ramo dell’albero sotto la finestra saltella un uccellino. Marta con l’udito è lontana. La vista intorbidita trasforma il verde in celeste, e allora c’è solo un passo fino all’insenatura di Valcane. La lunga spiaggia, la recinzione metallica dello stabilimento balneare e la fila di cabine i cui vividi colori pastello si susseguono come le lamelle di un vibrafono per bambini. Per quante volte abbia ripetuto l’esercitazione del giorno del giudizio, convinta che si tratti già di una prova generale di morte, nel suo glissando mattutino Marta sfiora il tasto che risponde al nome di Valcane, poi la sua fronte si increspa di rughe, perché l’acqua sgorga inarrestabile. Con il passare degli anni alcuni tasti si sono sollevati sulla struttura scordata della tastiera e attendono in agguato i polpastrelli delle sue dita reumatiche. La bambina batte con una bacchetta di legno sulla cui sommità c’è una pallina di colore giallo. I tasti metallici emettono un suono acuto. E quando verso sera passeggia per lo stabilimento, batte con l’indice incurvato sulle porte Il muro del Nord


gialle, rosse e blu delle cabine vuote. E ogni cabina risponde con il tono tagliente di una delle lamelle del vibrafono. «Occupato, occupato» strilla una voce femminile. La porta è chiusa a chiave, ma la donna non smette di gridare. La bambina ridacchia. Il crepuscolo estivo ha già oscurato l’insenatura di Stoia, e adesso fiammeggia sopra Valcane. Anche gli ultimi bagnanti stanno abbandonando il molo di pietra. La bambina ritorna lungo la spiaggia e si ferma davanti alla porta gialla da cui un quarto d’ora prima era filtrata la stridula voce femminile. Le altre cabine sono vuote, ma sotto il tasto giallo si sente ansimare, il pavimento di tavole scricchiola. La panca della cabina geme uniformemente. La voce del padre la chiama dalla pineta. La bambina corre sulla spiaggia affondando i piedi nudi nella sabbia calda. La chioma sotto la finestra freme. I favoriti e le barbe oscillanti si allungano nell’acqua come erbe marine color verde scuro, aderenti ai ciottoli della battigia o appiccicate agli scogli spugnosi che si estendono verso Stoia, là dov’era la trattoria di Bepo. Quel nome designa la prima esercitazione di morte. Il giorno in cui la madre aveva detto al padre che era morto Bepo, nella cui trattoria andavano spesso d’estate dopo aver fatto il bagno a Valcane, Marta si era ritirata in camera sua e si era distesa sul letto. Aveva socchiuso gli occhi cercando di scacciare dalla testa ogni immagine, di raggiungere lo stato in cui nessun pensiero scintilla più nella coscienza. Ma gli uccelli continuavano a canticchiare nel Parco della Marina, e nel viale che porta a Veruda cigolavano le carrozze. Poi venne a sapere che in punto di morte un annegato si trova a contemplare, in alcuni istanti di lotta spasmodica, la sua vita intera. Cercava nella memoria esemplari attraenti da offrire a qualche morte futura. E quando nel 1915 rimase sola con la figlia di cinque anni, mentre si ritirava ai margini della Monarchia in rovina – come il mare si ritira con la bassa marea, lasciando alghe e conchiglie attaccate agli scogli come traccia della sua vicina presenza –, ripeté le esercitazioni di morte dell’infanzia. Stava distesa nella stanza ceduta loro dai pa10 11


renti di Trieste. Pola e quattro anni di guerra erano il passato. Con la caduta della Monarchia non era scomparsa la sollecitudine dell’Imperial-regia Marina nei confronti delle vedove degli ufficiali. Il viaggio verso Vienna era sempre più certo. Anche Martin si fece vivo con una lunga lettera. Aveva rotto il fidanzamento, come se quel legame fosse esistito solo affinché a un certo punto in fondo al mare finisse Hans, e non lui. Marta socchiude gli occhi, ascoltando il brusio dalla strada. Le porte delle cabine dello stabilimento si aprono una dietro l’altra, i piedi affondano nella sabbia. Il sole al tramonto offusca lo sguardo. Sì, è lui, pronuncia dentro di sé, quando la polvere dei ricordi si solleva di un decennio o due. Trieste o Pola? La chioma dell’albero sopra di loro navigava come una vela attraverso l’afa delle giornate di luglio. «Arrivederci fra cent’anni» aveva detto al commiato. Il sole nel frattempo si è fatto strada attraverso le fronde, e Marta si gira lentamente verso la parete con i libri. I loro dorsi ammiccano come le stelle di un cielo estivo. Dopo chissà quanto tempo, all’amo della sua memoria abbocca un episodio triestino che aveva preceduto l’arrivo a Vienna. Marta sente umidità in fondo al corpo, la sgradevole sensazione provocata dalla vescica malata. Tutta tremante nell’attesa dell’attimo finale, prende la tazza. Un sorso di caffè scivola lungo la faringe. Marta osserva una nuvoletta persa nel cielo limpido di giugno. Il vento proveniente dalle alture della Selva viennese la trasporta al di sopra di Hietzing. È rotonda, con i contorni netti, come ricamata su un arazzo. E allora sposta lo sguardo sull’altra parete, quella dove sono appese le fotografie, i quadri e un arazzo. Una fitta vegetazione intessuta di decine di tonalità prefigura l’inquietudine della scena al cui centro siede immobile una giovane donna. Un unicorno le ha posato le zampe anteriori in grembo e con la parte posteriore del corpo è seduto a terra come un cane. Il corno è conficcato nella chioma dell’albero che si innalza sopra di loro. Il muro del Nord


È questa la fine? Non sarà terribile, come nell’alloggiamento di metallo, dove l’acqua, inarrestabile, penetra a fiotti. La spiaggia è lunga e il profumo della pineta è pesante. La pece densa scivola in gola, come i fondi neri di caffè che fra qualche istante schizzeranno dalla tazza infranta tracciando uno sgorbio sul tappeto. Gli uccelli stanno immobili sulla seta rossastra. Un ramo di ciliegio in fiore, e una mano che stringe il bordo di un paravento cinese. Lo sguardo scivola lungo le file di libri. Con il gomito destro ha sfiorato la tazza. Il rumore della porcellana rivela un viso magro e occhi trasparenti dietro lenti spesse. Il caffè Miramar. Il fotografo Rudi e la sua palma. Una volta, all’inizio della guerra, ha visto quel viso su un giornale di Zurigo. Era arrivata in treno da Salisburgo, con lei c’era anche Martin, in uno dei loro rari viaggi. «È lui» aveva detto a Martin sollevando dal sedile dello scompartimento il giornale che qualcuno aveva dimenticato lì. Un breve testo sotto la fotografia. Morte a Zurigo. Era ritornato molti anni dopo. L’ hotel Venezia nella Città bassa, il corridoio dell’ala che dava sul cortile, illuminato da lampadine lattiginose con paralumi trinati, come fiori di crisantemo. Sulle ampie finestre tende scure di velluto. Il proprietario dell’albergo, ex mago e illusionista, la guida per il corridoio e le sfiora leggermente la spalla mentre scendono la scalinata. Una porta rosa e morbidezza di tappeti. Nella stanza si soffoca. Il modo di vestire di lui non è cambiato: abito grigio, sciarpa di seta e cappello. Sul volto magro le lenti spesse degli occhiali. Uno sguardo da un acquario. «Rieccoci qua, dopo cent’anni» dice, e gli porge la mano, senza togliersi il guanto. Quando lui risponde, lei sorride, contenta. È proprio quella voce, forse un po’ più scura, ma ora parlano in un’altra lingua, le parole sono dure, senza l’aroma delle vocali lunghe. E come se indovinasse il suo pensiero, lui spense la luce. Nel buio lei si liberò facilmente degli abiti. Ripeteva in un sussurro il nome di lui, come una formula magica che l’avrebbe trasportata sulla lunga spiaggia. 12 13


Quindi, senza attendere il pensiero successivo della coscienza sempre pi첫 ottenebrata, il corpo scivola gi첫 dalla poltrona coprendo i frammenti di tazza e lo sgorbio scuro sul tappeto.

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