I ragazzi di Patrasso

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Zoran Ferić

I ragazzi di Patrasso Traduzione di Ginevra Pugliese



Il guaritore

L’ uomo ha inventato la ruota per poter fuggire più velocemente da se stesso, poi la storia l’ha raggiunto. Alcuni di noi, oltre alla storia generale, hanno anche la propria, personale, non meno terribile, dalla quale inutilmente fuggono per tutta la vita. Per questo motivo l’ingresso nella casa in cui sono cresciuto mi ha sempre dato l’impressione di una trappola. Quando si apriva la porta di rovere massiccio con i piccoli riquadri in vetro opaco, come quello delle autoambulanze, ci si imbatteva in uno specchio, a grandezza d’uomo, che stava esattamente di fronte. Così gli ospiti di casa nostra, ogni volta che venivano, per prima cosa vedevano se stessi, perché chi apriva doveva spostarsi un po’ di lato. E la prima cosa che vedevano sui propri volti era il sorriso forzato che di solito si dedica agli altri. In questo modo, sorridendo ad altri, incontravano se stessi. Anch’io sorridevo così, quattordici anni fa, mentre a Zagabria si susseguivano gli allarmi. Mio padre era ancora vivo ma con gravi difficoltà motorie perché, a causa del diabete e delle conseguenze del congelamento durante la seconda guerra mondiale, gli avevano amputato la gamba destra. Quando suonava l’allarme, mi caricavo il vecchio sulla schiena e lo portavo giù nello scantinato. Mio padre, sulla mia schiena, non sembrava più grande di uno zaino di media grandezza, e ogni volta che passavamo davanti allo specchio io sorridevo a quell’immagine e facevo ciao con la mano. Allora anche mio padre sorrideva. Per anni ho pensato che lo facesse per non pesarmi troppo. Come se con il sorriso si potesse neutralizzare la forza di gravità. Finché alcuni anni dopo la sua morte non mi decisi a riversare su video i filmini di famiglia girati con una cinepresa russa Super 8. Soltanto allora ebbi modo di vedere anche 5


un’altra immagine: mio padre che porta sulla schiena me, sorride e saluta verso la cinepresa tenuta probabilmente da mia madre. Era il 1966 e ci trovavamo sul monte Pohorje, in Slovenia. Avevo cinque anni e sulla sua schiena non sembravo più grande di uno zaino da montagna. Per me la storia non è stata un cerchio ma uno specchio. Dietro il muro su cui stava quella superficie di vetro riflettente c’era la casa con tutte le sue stanze: il soggiorno con la cucina, la dispensa e lo studiolo al piano superiore, e le scale che portavano al piano di sotto dove c’erano due camere da letto e il bagno. Il terreno su cui è stata costruita è molto inclinato e l’architetto già sessanta anni fa aveva deciso di sistemare le stanze della zona giorno al piano superiore, più luminoso e con la vista più bella, e le camere da letto al piano terra. Per questo anche l’ingresso non si affacciava sulla strada ma sull’ampio giardino, e ci si arrivava con una lunga scalinata in pietra da dove la costruzione sembrava a un solo piano. Con quello specchio ci incontrammo anche a metà ottobre dell’anno scorso, quando se ne andarono i nostri ultimi inquilini: due austriache che lavoravano per la banca Hypo. Dovevo prendere alcuni vecchi libri dall’armadio nell’anticamera, libri che erano rimasti lì per tutti i quattordici anni seguiti alla morte di mio padre, da quando cioè avevo dato in affitto la casa. Negli ultimi tempi era sempre più difficile ricavare un guadagno dall’affitto di un edificio così malandato nel quartiere residenziale, così decidemmo di venderlo. Vivevamo ormai da molto tempo nel quartiere di Trešnjevka, in un appartamento di tre stanze, e ne eravamo contenti. Mia moglie la tenevo lontana dalla casa e di solito mi occupavo da solo delle trattative con i nuovi inquilini. Una volta mi chiese: «Perché non vuoi che venga anch’io?». «Non serve,» dissi «gliela mostro e torno subito.» «Non è questo» replicò. «Cos’è che nascondi là?» «Niente» risposi, ma non dovette suonare convincente. Era difficile che allora, all’inizio del nostro matrimonio, potessi spiegarle cosa si celava in quella casa. Quando entrammo, si tirò indietro all’improvviso, alla vista di noi due I ragazzi di Patrasso


riflessi nello specchio; l’ambiente sapeva di chiuso, dalle tapparelle filtravano sottili raggi di luce, e noi sembravamo persone diverse. «Oh santo cielo, non sembro neanche io» disse avvicinandosi allo specchio e schiacciandosi un brufolo sul mento. Mentre tiravo fuori dall’armadio i volumi dell’enciclopedia tedesca di scienze naturali, Ines si fece avanti nello spazio dietro lo specchio. Penso sia stato fatale. Il momento in cui è entrata. Io la seguivo. Si fermò là, in mezzo al soggiorno, attraversato da quella luce zebrata, a osservare il comò Biedermeier, il grande tavolo da pranzo da dodici, le poltrone vecchie e tarlate e il tavolino con il centrino rotondo di pizzo di Pago sotto il vetro impolverato. Era come se vedesse tutto per la prima volta. «Andiamo!» dissi. «Non mi ero mai accorta di quanto fosse bello qui.» Si avvicinò alla finestra e alzò le tapparelle. «Si vede tutta la città.» «Non se ne parla» dissi. «Potremmo almeno pensarci.» «Ti ho detto che non voglio vivere qui.» Sapevo che le case potevano essere pericolose come le persone. Semplicemente ti prendono e non ti lasciano più andare. «È fuori discussione che io venga a vivere qui» ripetei. Era la metà di ottobre. All’inizio di novembre avevamo già dato in affitto il nostro appartamento di Trešnjevka a una giovane coppia di sposi, mentre Ines si era trasferita con il minimo indispensabile dai suoi genitori. «Finché non avremo sistemato la casa» disse. «Sai che non posso stare senza il bagno.» Io invece ero rimasto nella casa dei miei genitori e pian piano la ristrutturavo. Dovemmo buttar giù il bagno e la cucina, cambiare gli impianti e le finestre, scrostare del tutto il vecchio intonaco. Quando tornavo dal lavoro controllavo quello che avevano fatto gli operai e dormivo sul divano in soggiorno. Non avevo la cucina, il gabinetto e il bagno. Pisciavo e cagavo in giardino, dopo l’imbrunire, 6

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mangiavo scatolette riscaldate nel microonde e due volte alla settimana mi facevo la doccia dalla suocera. Prima di Natale gran parte dei lavori erano stati fatti. Procedevano bene, rimaneva soltanto da imbiancare le pareti e mettere le piastrelle in bagno. Queste cose avevo deciso di farle da solo perché i soldi scarseggiavano. In quel periodo di separazione forzata era come se stessimo filando di nuovo. Appena Ines se ne andava, riuscivamo a parlare al telefono per ore, e in un modo più serio e più aperto di prima, quando stavamo insieme. Durante il giorno discutevamo per lo più di cose pratiche: dove mettere gli armadi della cucina, come sistemare i mobili o dove posizionare la vasca. Nelle nostre telefonate a ore tarde questi dettagli non ci toccavano. Parlavamo soprattutto di noi. Come se stessimo nuovamente facendo conoscenza. La sera prima della vigilia di Natale lavorai a lungo e avevo quasi finito di imbiancare il soggiorno che si apriva sul giardino con una vetrata. I genitori di mia moglie mi invitarono a cena. «Scusatemi» dissi. «Sono stanco morto. Mangerò qualcosa nel quartiere.» Così dopo molti anni mi ritrovai nella trattoria “Ai due colombi” in piazza Kvaternik. In sala non c’era posto e il cameriere mi pregò di aspettare al banco che si liberasse un tavolo. E con i gomiti appoggiati al banco c’era un tizio piuttosto ubriaco. Ben vestito, ma ubriaco, come capita di vederne spesso proprio sotto Natale. E completamente pelato. Non so perché feci tanto caso alla calvizie. E a qualcos’altro. Sembrava come invecchiato in fretta. Come se fosse uno di quei tipi dall’aspetto giovanile sul cui volto per decenni non si vedono i segni del tempo; ma poi all’improvviso tutti quegli anni calano sul viso come una valanga. La barista si avvicinò e domandò cosa volevo bere. «No, grazie, aspetto che si liberi un tavolo» dissi. A quel punto il pelato si avvicinò a me barcollando. Non puzzava d’alcol, anzi, gli si sentiva addosso un buon profumo. L’  odore, i vestiti e il volto avevano un qualcosa che stonava nell’insieme. Succede agli uomini della nostra età. Mi è capitato spesso di pensare la stessa cosa di me guarI ragazzi di Patrasso


dandomi allo specchio, mentre mi vestivo: l’  unica cosa decente sono i vestiti. «Le conviene ordinare» disse. «Anch’io sto aspettando un tavolo. Da mezz’ora ormai.» Lasciai che il tizio mi ordinasse uno Jägermeister. Poi rimanemmo per un po’ a sorseggiare finché non iniziò a fissarmi. Mi guardava attentamente e fastidiosamente a lungo. Poi alla fine disse: «Berni, sei tu?». Mi voltai verso di lui. Da molto tempo ormai nessuno mi chiamava con quel nome. «Come ci conosciamo?» «Dalla scuola. Sedicesimo liceo, linguistico. Andavamo in classe insieme. Tu, Mac, Rule, Srđan e io. Eravamo gli unici maschi. Davvero non ti ricordi?» Cercai di ricordare. E poi mi fu chiaro perché mi era sembrata una faccia invecchiata in fretta. Alcuni tratti mi erano familiari, ma si erano come camuffati e mescolati agli strati pluriennali di un qualcosa a cui non avevo partecipato. Oltre a questo, sulla pelata c’era una cicatrice prima nascosta dai capelli. Sapevo come se l’era procurata: verso l’inizio della prima liceo Rule l’aveva spinto per sbaglio con la testa contro lo spigolo del termosifone. Finì in traumatologia con nove punti e per un mese rimase assente da scuola. Dovemmo di nuovo abituarci a lui quando finalmente tornò. Ma non era più uno di noi, questa era la cosa peggiore. Non lo fu più fino alla maturità. In realtà non si reinserì più nel gruppo e io ho sempre vissuto nella convinzione che fosse a causa di quell’episodio. Anche quando i capelli gli ricrebbero nascondendo definitivamente il taglio. Adesso la cicatrice riaffiorava. Almirović Igor, che si era appena tolto la maschera di semplice avventore, ora mi abbracciava e io abbracciavo lui. Mi sforzavo di provare qualcosa, ma l’unica cosa che sentivo veramente era l’odore appena percepibile di alcol che gli traspirava dalla pelle del collo. Adesso che condividevamo il ricordo della scuola e della classe che aveva fatto la maturità nell’anno scolastico ’78-’79 del secolo scorso, non ci servivano il calcio o la politica. Bevemmo altri tre 8

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Jägermeister prima che il cameriere venisse a dirci che non c’erano ancora dei tavoli liberi. «Sai cosa?» disse Almir. «Prenderemo del baccalà da asporto e verrai a mangiarlo a casa da noi. Conoscerai mia moglie.» «Non so,» replicai «è tardi. E poi sono anche stanco.» «Non dire stronzate» disse. Poi fece una breve telefonata e chiamò il cameriere. Ordinò quattro porzioni da asporto. Risultò che la casa di mio padre, a Horvatovac, era vicina alla loro, comprata alcuni anni fa, e che erano addirittura confinanti. A un tratto mi sembrò di aver ereditato insieme alla casa anche il mio vecchio compagno di scuola, che al liceo non era proprio un amico, ma che forse sarebbe potuto diventarlo ora. Prima che ci confezionassero il baccalà ordinammo altri due mezzi litri di Merlot. Parlavamo del liceo, di tutto quello che era successo e di come eravamo allora. Ognuno guardava nel volto dell’altro le proprie trasformazioni. Tuttavia, dopo tanto vino, era chiaro che non condividevamo più neanche il ricordo, ma ognuno aveva il proprio. Coincidevano qua e là, a grandi linee. Infine, quando ci avviammo, Almir era ormai sbronzo. Davanti al ristorante vacillò alcune volte e io pensavo sarebbe caduto. In una mano tenevo la sporta con il contenitore di plastica pieno di baccalà, con l’altra sorreggevo Almir. Ci incamminammo sulla Domjanićeva verso nord. Non era molto tardi e sulla via si poteva ancora vedere la gente uscire dai negozi. I balconi erano addobbati con piccole lampadine che si accendevano e spegnevano in continuazione, a ritmi differenti. Allo stesso modo una luce intermittente arrivava anche dall’interno delle case. Tuttavia, quello che dava un particolare tono solenne a questa strada, in genere molto trafficata, era il silenzio. Molto strano per il periodo prenatalizio. Il silenzio, come se dovesse accadere qualcosa di importante. Reggevo Almir sottobraccio e cercavo di tirarlo su, ma lui si fermava a ogni passo per spiegarmi qualcosa. «Qui ci sono i ćevapčići,» diceva «e qui ci si tagliano i capelli. Ma guai a entrare nella pasticceria.» «Perché, non sono buoni i dolci?» chiesi tirandolo per farlo camminare. I ragazzi di Patrasso


«I dolci sono buoni,» farfugliò «ma la pasticcera ha il viso bruciato.» Ci avviammo, e per un breve tratto andò bene, poi si fermò nuovamente. Mi guardò dritto negli occhi, come se cercasse ancora di riconoscermi, e disse: «Cosa pensi dei disabili?». Lo tirai di nuovo, dolcemente, per farlo camminare. Non sapevo come rispondergli sull’argomento disabili. Ma lui si era impuntato. «Dico sul serio, cosa pensi dei disabili?» Mi guardava negli occhi. L’  equilibrio lasciava a desiderare e si reggeva al muro. «Lo sai che io posso guarirli?» «Non dire stronzate. Andiamo!» «Macché stronzate, posso guarirli, davvero.» Mi fece vedere un gruppo di piccoli rom appostati per la strada a mendicare a una cinquantina di metri di distanza l’uno dall’altro. Una ragazzina sussultava in modo strano, un’altra faceva mostra della mano amputata. Suscitavano un certo effetto in quel silenzio solenne. Poi passammo accanto a un ragazzino che, seduto sul marciapiede, esibiva le sue gambe storte. Erano rosse per il freddo, ma lui le metteva in mostra comunque, seduto su un cartone ed emettendo un suono monotono e incomprensibile. «Ecco, guarirò lui!» «Ma lascialo in pace» dissi. «Andiamo a dormire. Domani si lavora.» Almir però se ne stava già lì in piedi davanti al ragazzino, barcollando. «Preparati al miracolo!» E io, impotente, accanto a lui con il baccalà ormai freddo. Tirò fuori una banconota da cinquanta kune e la mostrò al ragazzino storpio. Il ragazzino guardò attentamente prima lui, poi la banconota. «Riceverai cinquanta kune se le gambe ti si raddrizzeranno.» «Che Dio ti aiuti, signore» disse il ragazzino, e afferrò la banconota. Poi si voltò a destra e a sinistra, controllò se 10 11


qualcuno stesse guardando, e poi quelle sue gambe contorte tornarono nella posizione normale. Almir tirò fuori un’altra banconota e la mostrò al ragazzino. «Ora cammina!» «Non posso, signore» disse fissando l’altra banconota. «Se mi vedono sono fottuto.» «Cammina! Con questa ti guarisco» esclamò Almir barcollando con la banconota in mano. Il bambino si alzò con cautela e cominciò a camminare lentamente. Le due gambette erano intirizzite, ma ciò nonostante si muovevano sul freddo asfalto, con cautela, come se camminassero sulla superficie dell’acqua e potessero affondare in un attimo. Il suo camminare, il silenzio in strada e i balconi addobbati con le luci: tutto restituiva come un senso di solennità. Il ragazzino fece un breve giro sul marciapiede e ritornò sul suo cartone. Almir lasciò la banconota davanti a lui. Poi mancò poco che cadesse. Dovetti sorreggerlo. «Hai visto?» disse. «L’  ho guarito.» Il resto della strada la percorremmo in silenzio. Non riuscivo a togliermi dalla testa quel bambino che si alzava sulle gambe congelate e che lentamente camminava con tutte quelle luci intorno a noi. Avevamo superato una fila di case ben curate con il giardino. Ora Almir era un po’ più stabile nell’andatura, non occorreva più sostenerlo, come se in un certo senso avesse guarito anche se stesso dall’alcol. Pensai di accompagnarlo soltanto fino a casa, perché non mi sognavo minimamente di cenare insieme alla sua famiglia con lui in quello stato. Passammo accanto all’ingresso della mia casa e ci fermammo davanti a quella accanto. Ad aprire la porta c’era una donna sorridente e di aspetto giovanile, così giovanile che per un momento pensai fosse una studentessa, o una domestica. Ci guardò e si rivolse a me come se tutto ciò fosse normalissimo. «Il papà ha alzato un po’ il gomito, ah?» disse, e ci lasciò entrare in casa. «Io sono Sonja» disse prendendo la sporta con il baccalà. Non mi porse la mano, come se le formalità non le interessassero. Almir si tolse il cappotto e l’appese all’attaccapanni. Aiutò persino me. Entrammo nel grande soggiorno I ragazzi di Patrasso


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