I santi muti

Page 1



Antonio Carnevale

I santi muti



Uno

Il giorno del giudizio arrivò una mattina di settembre. Dio, in un completo di lino color panna, stava in piedi, affiancato dai santi Ignazio e Michele. Da loro si aprivano ad angolo ottuso due file di quattordici martiri. Ortensio Montiglio, alto non più di due centimetri, avvolto in un mantello fatto della stessa carta rossa e trasparente delle caramelle Rossana, con la gola secca e incapace di parlare, stava al centro del lato più lungo di quell’ipotetico trapezio. Dal fondo, di fronte a lui, il Giudicante sporgeva il suo braccio lunghissimo e lo afferrava con due dita; se lo portava al petto e lo spogliava. Lui si dimenava, nudo e minuscolo, incapace di emettere alcun suono. Vedeva spalancarsi l’enorme bocca davanti a sé, sentiva l’avvicinarsi di quei denti eterni. E si svegliava di colpo. Negli ultimi mesi, quel sogno era diventato ricorrente, ma una volta aperti gli occhi l’impressione di terrore svaniva in pochi minuti. Ora, invece, a più di un’ora dal suo risveglio, Ortensio Montiglio era ancora preso da quelle immagini potenti e nitide. Cercò di allontanarle ripassando mentalmente il discorso che si era preparato. Ma il metodo non funzionò. Allora, seduto sul letto in cui aveva dormito ogni notte per più di un anno, guardando la piccola finestra in alto, mentre la penombra dell’alba si illuminava e la prima luce del mattino rischiarava la piccola cella, decise di mettersi le scarpe. Si chinò a cercarle sotto la branda. Sentì uno strappo che dalla schiena andava giù fino alla gamba destra e 5


rimase chino per un momento aspettando che quella fitta, dovuta alla lombosciatalgia, si placasse. Infilò una scarpa e poi l’altra. Le allacciò e si tirò su, lentamente, col timore che quel fastidio tornasse a tormentarlo. Quando fu con la schiena dritta, rivolse un altro sguardo alla piccola feritoia. Poteva quella essere l’ultima volta che guardava la finestra di una prigione? Ortensio Montiglio provò una sensazione che non aveva mai sentito, una sensazione molto vicina al panico. Era, più precisamente, un senso di spaventosa solitudine. Sentiva una gran voglia di parlare, una voglia che aveva trattenuto per mesi. Da quando era entrato in carcere, non aveva smesso di pensare a quell’estate di un anno prima, a sua moglie e a quel fatto disgraziato. Eppure si era guardato bene dal confidarsi con altri detenuti. Pur avendo scambiato qualche confidenza con alcuni di loro, mai si era azzardato a raccontare la sua vicenda per intero. In prigione aveva sentito parecchie storie che avevano dell’incredibile, tuttavia, era convinto che la sua le superasse tutte. Così, non volendo rischiare di essere irriso o considerato un bugiardo, aveva finito per tacerne. Aveva liquidato la curiosità occasionale con una laconica spiegazione a proposito di una trappola in cui era stato incastrato. Quel giorno, però, avrebbe dovuto raccontare tutto. Avrebbe dovuto farlo con dovizia di dettagli, soddisfacendo anche quella necessità di parlare che ormai non riusciva a contenere. Di lì a poche ore sarebbe dovuto comparire davanti al giudice per l’ultima deposizione: l’ultima udienza del processo che avrebbe deciso se assolverlo o se invece farlo restare in carcere per i successivi vent’anni. Giusto o sbagliato che fosse, Ortensio Montiglio era stato accusato di omicidio. Le prove raccolte contro di lui, schiaccianti. I santi muti


Due

Ortensio Montiglio si alzò dalla branda e si avvicinò al piccolo tavolo di fronte. Prese i cinque fogli su cui si era appuntato il discorso che avrebbe fatto davanti al giudice, lesse le prime righe, e si accorse che la sua mente correva più in fretta delle parole scritte a penna. Sicuro di avere ormai mandato a memoria la sua importante premessa alla deposizione, gettò quelle pagine nel cestino sotto il tavolo. Sospirò e rimase in piedi, con lo sguardo fisso sulla porta della cella. Dopo qualche minuto, vide comparire le due guardie penitenziarie che lo avrebbero scortato in tribunale. L’idea di lasciare quel limbo ormai familiare lo sorprese con un fremito di paura. Mentre usciva dal carcere, in quell’assolata mattina di settembre, aveva l’impressione di mettere piede per la prima volta in una terra piena di insidie. Striminzito in abiti non suoi e nei quali si sentiva profondamente a disagio, salì sul cellulare che in poco tempo attraversò parte della città semideserta e che presto avrebbe raggiunto il Palazzo di Giustizia. Sul sedile in finta pelle, Ortensio Montiglio stava seduto con le spalle leggermente ricurve. Era un uomo di sessantasei anni, leggermente sovrappeso, con i capelli scuri, appena brizzolati e di lunghezza media. I suoi occhi bruni si muovevano lenti sui particolari dell’abitacolo. Durante quel tragitto, molte cose passarono nella sua mente, ma nessuna riguardava il dibattimento che si sarebbe svolto di lì a poco. I suoi pensieri si fissavano per pochi istanti su particolari futili che subito 6

7


cedevano il posto a nuove impressioni: un taglio nel sedile del furgone blindato lasciava spuntare grumi di gomma piuma; la seduta troppo stretta gli impediva di stare comodo; una sterzata brusca lo costringeva a fare uno sforzo per mantenere l’equilibrio procurandogli una piccola fitta alla schiena; un formicolio alla gamba destra annunciava un prossimo attacco della lombosciatalgia. Incapace di concentrarsi su un pensiero preciso, Ortensio Montiglio si arrese al flusso delle impressioni anche una volta arrivato in tribunale. Seduto al suo banco, con l’avvocato che gli bisbigliava avvertimenti sul modo in cui avrebbe dovuto parlare del suo matrimonio, torceva il collo a destra e a sinistra, cercando tra il pubblico il volto di sua figlia. Non lo trovò. Si raddrizzò sulla sedia e assunse l’espressione rigida e un po’ scura di chi non vuole farsi prendere da false illusioni. Quando il dibattimento ebbe inizio, ascoltò le schermaglie tra il pubblico ministero e il suo avvocato. Quelle astrazioni giuridiche per lui non avevano più valore. Adesso contava soltanto il fatto di essere lì, pronto, finalmente, a raccontare la sua verità, con o senza sua figlia fra i banchi del pubblico. E con buona pace di sua moglie. Il giudice lo invitò a deporre. Ortensio Montiglio si alzò di scatto, fece il giro del banco e andò a sedersi sulla sedia predisposta al centro dell’aula. Un brusio di commenti corse tra i presenti. Montiglio indossava una tuta da ginnastica di nylon color azzurro chiaro che il particolare tipo di filato faceva luccicare sulle pieghe delle maniche e dei pantaloni con un effetto metallico. Dalla casacca con la chiusura a zip spuntava una maglia bianca un po’ slabbrata sul collo. Tutta la sua figura strideva non poco con i suoi piedi, stretti in lucide scarpe di vernice. Avvicinò la bocca al microfono. I santi muti


«Buongiorno» disse. Il microfono emise un fischio acuto. Ortensio Montiglio indietreggiò istintivamente mentre il giudice si portava gli indici ai timpani. Seguì un momento di silenzio. Il giudice pronunciò la formula di rito che introduce le deposizioni spontanee. L’imputato aveva facoltà di parlare.

8

9


Tre

Con la tuta da ginnastica di una taglia in meno, la barba mal rasata e l’espressione di rabbia e di paura negli occhi, Ortensio Montiglio doveva apparire irriconoscibile a chi lo avesse frequentato anche solo pochi anni addietro. Prima di finire nel pasticcio che lo aveva condotto in carcere, Ortensio Montiglio si presentava come un uomo distinto, dai modi cortesi e con il volto sempre disteso in un’espressione mite. Compiaciuto della sua figura e della sua vita, si era sempre considerato fortunato. Aveva alle spalle un passato da emigrante e un’onorata carriera nel corpo dei vigili urbani di Milano. Siciliano, nato da un’agiata famiglia della provincia agricola di Ragusa, educato in una scuola cattolica e con una vaga fede religiosa che si mischiava con la superstizione, poteva dare l’impressione di essere un uomo pacificato. In vita sua non aveva mai sentito il bisogno di interrogarsi su questioni morali. Il rispetto della legge era un metro di misura sufficiente per reputarsi una persona per bene. Mai gli era capitato, insomma, di dover prendere decisioni sofferte. La sua vita si poteva rappresentare come un domino di tessere tutte uguali messe in moto da una piccola spinta iniziale. Un susseguirsi di eventi, chiamati uno dall’altro, lo avevano condotto dall’infanzia all’età della pensione senza che lui avesse mai cercato di deviarne il corso. I santi muti


Intimamente aveva sempre pensato che il destino gli fosse amico. E col passare del tempo si era convinto che il segreto di una vita senza problemi risiedesse nell’evitare di stuzzicare la sorte. Quel tacito patto con la fortuna – pensava – lo avrebbe ricambiato con il bene più prezioso per un uomo e padre di famiglia: la stabilità. Era un modo di pensare non privo di vantaggi: gli aveva dato fiducia nei momenti di difficoltà e gli aveva spesso evitato di sentire il peso delle sue molte rinunce. A bilanciare questa prudente condotta di vita era però la sua indole romantica. Se Montiglio non coltivava amicizie e conduceva una ristretta vita sociale era soltanto a causa dell’eccessiva timidezza. A prima vista poteva sembrare un uomo schivo, ma era molto sentimentale, invece, a suo modo. Conservava decine di oggetti, anche banali o di scarsissimo valore, che associava a episodi vissuti in un clima di particolare complicità. Il ricordo di un tale conosciuto in treno e con il quale si era intrattenuto chiacchierando in modo insolitamente intimo, per esempio, sopravviveva, a distanza di vent’anni, in un biglietto ferroviario ripiegato in una scatola di sigari. Una bottiglia di vino che suo padre gli aveva regalato il giorno del suo diploma era stata conservata intatta dal 1963 e giaceva impolverata con il cartellino “non aprire” su una mensola della cantina. Il tappo di una bottiglia di latte, aperta oltre quarant’anni prima, stava appoggiato sulla scrivania in salotto dove fungeva da debole fermacarte: seguendo gli oscuri percorsi della memoria, gli ricordava il primo incontro con la moglie. Così legato ai simboli, Ortensio Montiglio era anche attento ai dettagli. Senza ombra di dubbio, si considerava un uomo elegante. Quando non portava la divisa da vigile, raramente capitava di incontrarlo sprovvisto di una giacca blu e senza cravatta. Quando partiva per la villeggiatura estiva, sul reggimano di fianco al sedile posteriore dell’auto era sempre appeso un portaman10 11


tello con sopra un abito di lino color tortora. Nella valigia per il mare non mancavano mai i pantaloni bianchi sportivi, un golf di cotone blu e un paio di mocassini leggeri. Nello stesso modo accorto con cui si preoccupava della propria immagine, Ortensio Montiglio teneva molto alla casa in cui viveva con la moglie. Se si escludono le vacanze che ogni anno, a luglio, trascorreva in Liguria e quelle del periodo natalizio in Val Sassina, il salotto era il suo luogo preferito durante il tempo libero. Seduto in poltrona, in comodi pantaloni di velluto e in una calda camicia di flanella, passava le serate e i fine settimana invernali guardando la Tv o fumando il sigaro mentre ascoltava il canale 3 della filodiffusione. In primavera si concedeva qualche passeggiata, la domenica mattina. Ma dopo pranzo tornava in quel salotto e si tuffava in pomeriggi sonnecchianti, con la televisione in sottofondo che trasmetteva le partite di calcio oppure la cronaca del Gran Premio di automobilismo. Ogni tanto si alzava e arrivava in cucina per mettere la caffettiera sul fuoco. Il caffè lo prendeva amaro e bollente mentre si compiaceva di quei pomeriggi di torpore, in quell’ambiente confortevole. Era una casa, la sua, arredata con gusto attento e indifferente alle mode del momento. Durante l’anno passato in carcere, in alcuni giorni di sconforto, quella casa gli era mancata quasi più della sua libertà. I locali erano fitti di mobili antichi. Sulla consolle del salotto le fotografie erano ritagliate dentro cornici d’argento di diverse dimensioni dalle quali spuntavano i volti di sua figlia e delle nipoti. Alcune erano piccole come la punta di un pollice. Alle pareti dell’ingresso e del salotto, invece, erano affisse incisioni all’acquaforte che acquistava di tanto in tanto ai mercati dell’antiquariato. A detta di tutti, Ortensio Montiglio era dotato di un innato buon gusto. Nel condominio in cui abitava era I santi muti


considerato un uomo raffinato. Tra sé, però, covava il rammarico di non aver avuto una formazione umanistica. Possedeva un diploma da ragioniere e non si era mai avvicinato, nemmeno da autodidatta, a materie che lo incuriosivano molto, come la storia dell’arte e la letteratura. Se non lo aveva fatto, comunque, era soltanto per pigrizia. Possedeva, per esempio, l’edizione quasi completa dei Maestri del colore, ma non si era mai deciso a leggerne i saggi o a guardarne con attenzione le riproduzioni. I fascicoli giacevano allineati nella piccola libreria del salotto, rilegati in rosso e coperti da un leggero strato di polvere. Traeva un discreto piacere dalla lettura, questo sì, ma non era un accanito frequentatore di biblioteche e librerie. Comprava i libri per lo più in edicola, scegliendoli tra le collane dei classici rilegati in finta pelle. Soprattutto, sentiva una profonda attrazione per il linguaggio forbito. Capitava spesso di trovarlo in salotto con un dizionario in mano, intento nella ricerca di una parola che aveva sentito in televisione e di cui non conosceva il significato. Per un certo periodo della sua vita aveva anche conservato l’abitudine di compilare liste di termini nuovi appresi. Di tanto in tanto le rileggeva nella speranza che con quel metodo le avrebbe introdotte nel suo naturale linguaggio quotidiano. Ortensio Montiglio aveva molte altre piccole manie, molti altri piccoli tic. Ma tutto ciò accadeva all’epoca in cui il carcere gli sembrava un mondo che non avrebbe mai incrociato il suo. Prima, cioè, che il patto segreto con il destino si spezzasse nel suo punto più fragile.

12 13


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.