La villa sul lago
Prima parte
Gli stretti, poco illuminati vicoli del paese, che percorrevo scendendo verso il porto e che quindi conoscevo molto bene, erano del tutto silenziosi. Joseph Conrad
La piccola piazza sul lago era sempre quadrangolare, come un tempo. La guerra avrebbe potuto cambiarla, ma non l’aveva fatto. Era cinta di case da tre lati, con il porticciolo che le si apriva davanti; sulla riva, da albero ad albero, erano stesi ad asciugare veli di reti. Tutto come sempre, soltanto il molo dove attraccava il vaporetto gardesano non era più di legno. Era di pietra, il nuovo molo, e forse proprio il biancore delle pietre, che avevano sostituito le amichevoli travi nere d’una volta, faceva sì che la piccola piazza non sembrasse più quella dei giorni di guerra. Era il molo bianco, dunque, non la guerra, ad aver tolto un po’ dell’antico, familiare colore alle casette in riva al lago. Ma forse questa strana impressione dipendeva anche dalla nuvolosa giornata d’un aprile bizzoso che aleggiava sul lago e lungo il lago, ora limpido e mite ora mite e piovoso: ieri un aprile con acque azzurre sovrastate dall’azzurro del cielo; oggi un instancabile e frenetico navigar di nuvole, da Verona e da Brescia al contempo, e poi un addensarsi al punto che i cumuli avevano nascosto, già di buon mattino, la neve sulle pendici del monte Baldo. Era domenica e da qualche parte ragliava un asinello giocherellone quasi volesse provocare le nubi, beffarsi della pioggia e sfidare i colori dei limoni e delle arance cui l’umidità aveva imperlato il prorompente rigoglio primaverile. Quando l’asinello tacque, la pace scese di nuovo sulla piccola piazza, lungo strette viuzze come lungo gole anguste e scoscese. A turbare il silenzio si udiva, di tanto in tanto, solo il rumore di una motocicletta o lo stridore di un’automobile sulla strada asfaltata; ma l’atmosfera densa di nubi assorbiva anche questi suoni, sì da farli sembrare 9
molto distanti, come se la strada asfaltata corresse lontano, al di sopra del paese e non accanto a esso. Tutto come un tempo. Il vecchio battelliere sedeva su una panchina in attesa del vaporetto: sarebbe scivolato accanto al molo con la sua bianca fiancata, il marinaio in coperta avrebbe lanciato la fune e il vecchio battelliere l’avrebbe afferrata tirando a terra la passerella. Tutto come un tempo, anche la casetta, l’ultima della fila, quella proprio all’angolo, con l’entrata quasi sul molo; persino il trillo del telefono all’interno è lo stesso. Quanto si era agitato l’apparecchio di quella centrale telefonica di paese, nei giorni di guerra! Si trovava nell’angolo, dietro il banco di mescita e la trattoria era gremita di alpini che mangiavano di gusto la polenta e bevevano il vinello del Garda; i cappelli con la piuma d’oca erano calati sulla nuca, mentre cantavano: «Coglieremo, coglierem le stelle alpine», battendo con gli scarponi il ritmo sul pavimento. Il telefono suonava e loro gridavano nella cornetta annunciando quando sarebbero andati in licenza. Chi invece dalla licenza aveva appena fatto ritorno, si era portato dietro, in un sacchetto di lino, della farina di granturco, con cui la padrona di casa preparava una polenta tenera, viva, palpitante. Ora all’interno tutto era silenzioso. Mirko Godina venne accolto dalle sedie ben allineate lungo il muro in penombra, dal banco di mescita vuoto e dal telefono. Era immutato, quadrangolare, e da esso pendevano come sempre i cavi multicolori con le prese di rame all’estremità. Tutto era silenzioso, solo la valvola di rame dell’apparecchio vibrava leggermente, come quando la spina non faceva che collegare il dialogo tra due telefoni. «Non c’è anima viva in questa casa?» chiese alzando di proposito la voce, allegro. «Chi è?» Era la sua voce, la voce della padrona di casa. Seguì uno sbattere secco della portella della cucina a legna. Era così, un tempo: rumore di stoviglie dalla piccola cucina, lunga e stretta come un corridoio, e sempre la padrona di casa, che si faceva sentire ma non vedere subito, perché in ogni La villa sul lago
momento qualcuno poteva entrare per via del telefono… e le sarebbe toccato un eccessivo andirivieni, se fosse dovuta accorrere per ogni nuovo venuto. Si fermò sull’uscio tergendosi i palmi delle mani nell’asciugamano. «Desidera?» chiese. Lui sorrise, dapprima cordiale e poi con una sorta di rassicurante esitazione. «Non mi conosce proprio più!» esclamò in tono di rimprovero, fingendosi risentito. «Come?» chiese lei. Poi si avvicinò e disse: «Mirko!». «Sono molto cambiato, vero?» «Be’, sì, siamo cambiati tutti. Chi l’avrebbe detto! Ma venga, venga avanti, venga in cucina! Se la ricorda ancora, la nostra cucina?» «Se la ricordo! Gli alpini mangiavano la polenta, lei girava la manovella dell’apparecchio telefonico ed Enrico se ne stava lì imbronciato. Momenti belli, nonostante la guerra!» disse seguendola. «È stato qui, Enrico, sa» disse la signora Amalia mescolando qualcosa sul fornello. «Come gli va?» «Oh, è sempre lo stesso, sempre un poeta, ma è invecchiato, e molto.» Spolverò il tavolo bianco, privo di vernice. «Si sieda, si sieda» disse. «L’ho riconosciuta subito, vero? E non ho forse detto all’istante: Mirko! Gradisce un bicchiere del nostro? Certo che lo gradisce. Ora lei è ingegnere, vero? Ha finito gli studi, ne sono davvero felice per lei. Ora dovremmo chiamarla “signor ingegnere”, no?» «Architetto» disse lui sorridendo. «Non è lo stesso? No? Be’, lei lo sa meglio di me. Su, assaggi il nostro vino. Un tempo le piaceva.» Gentile e premurosa, eppure con l’immancabile diffidenza negli occhi inquieti, pensò. Anche la diffidenza di oggi è pari a quella di anni addietro. Parla un po’ troppo e ritrae di continuo lo sguardo come chi non riesce a esprimere quel che pensa, perché 10 11
non si sente a proprio agio. Io non le vado a genio, nemmeno adesso, dopo tutti questi anni, pensò. All’epoca fu a causa di quella donna sposata. Le era stato infatti riferito che un pomeriggio lui sedeva sulla spiaggia insieme a una donna sposata e che i due se la ridevano. Non aveva perso occasione per alludervi, in modo larvato, è vero, ma sempre sufficientemente chiaro, come tutte le pie donne, le quali si sentono in dovere di ergersi a guardiane della morale pubblica, e quanto meno sanno di certe vicende, tanto più si rodono in una sterile indignazione. Del resto, una sera era capitato che Enrico e Mirko, seduti sulla panca davanti al suo locale, avessero dileggiato con battute mordaci Mussolini e la sua dittatura – un peccato che la signora Amalia aveva perdonato a Enrico, ma non a lui. Vabbè, era un tantino troppo bigotta, parecchio nervosa e notevolmente pettegola. Con gli alpini però era materna e cucinava dell’ottima polenta, sicché quelle rumorose tavolate non si accorgevano nemmeno della sua curiosità che prontamente le rendeva note le private faccende di ogni singolo soldato. «Oh, c’era un bel vociare qui da noi, vero? Allora il mio Ernesto era ancora vivo – se lo ricorda, Ernesto? Abbiamo perso la guerra, Ernesto non c’è più, tutto è vuoto e silenzioso» disse come se il pacifico ordine delle sedie, rimaste dopo la guerra sempre impilate l’una sull’altra lungo il muro, l’avesse di colpo sconvolta. «Il signor Ernesto? Ma certo, nelle sere d’estate chiacchieravamo cordialmente sulla panca davanti a casa, come potrei dimenticarlo!» Per un attimo quieta, rimase accanto al fornello asciugandosi le lacrime dalle guance angolose, sovrastate dai capelli grigi. Avrebbe voluto provare compassione per lei, ma ci sarebbe riuscito solo sforzandosi. Preferì quindi pensare al suo affabile consorte Ernesto. Il dispiacere per la morte di lui era sincero, ma nei confronti di quella donna non riusciva a provare l’autentica commozione che il dolore del prossimo fa scaturire nel profondo del cuore. E quasi a confermargli un simile stato d’animo, lei si aggirò di nuovo agile e loquace in mezzo alla cucina; a sessant’anni era scattante come un tempo. La villa sul lago
«Lei è partito nel settembre del quarantatré, vero?» disse. «Oh, è stato appena dopo che si è cominciato a vivere, qui da noi. Abbiamo avuto il governo, qui, abbiamo avuto i ministri, le automobili – e il nostro Duce risiedeva nella grande villa sul lago.» «Bah» borbottò lui. «Quella bella villa in mezzo al parco, sul lago, non la ricorda più?» «No!» fece lui secco. «Poverino, un così grand’uomo e una fine di quel genere.» Scosse nervosamente la testa come chi – un tempo al potere – si vedeva ora ridotto al silenzio. «E pensi che noi non siamo stati bombardati proprio perché lui risiedeva qui… trucidarlo in una maniera così barbara, ma insomma – cos’è che ha fatto di male, poverino?» Lui bevve un sorso dal bicchiere, e tacque. Non pensava a come darle una risposta che riuscisse efficace, cominciava però ad avvertire che una sorta di torpore si stava impadronendo di lui. Tuttavia un attimo dopo disse con noncuranza: «Oh, ne ha combinate pure lui, la sua parte.» Lei, naturalmente, non lo ascoltava. Non ascolta mai, pensò, e se una buona volta decide di prestare ascolto, lo fa in modo che nessuno si accorga di come tende l’orecchio, e comunque quando parla è spinta da una collera sorda e repressa. «Un uomo che ha voluto solo il bene di tutti, profanarlo in quella maniera! Anche dopo morto! Appenderlo come si fa con un bue in macelleria!» disse. «E ora dica lei che è ingegnere, vabbè, architetto, fa lo stesso, dica lei!» L’architetto sapeva come domarla, ma niente prove, nessuna spiegazione, sarebbe stata solo una perdita di tempo. Tanto più che quel vinello rosato dei colli veronesi già cominciava a saper d’amaro. Non sarai tu a guastarmi la visita sul Garda, donnetta insulsa! Dev’essere proprio cupa l’atmosfera di questa casa, ora che la gente ha compiuto la propria vendetta su chi tu hai adorato. Già, e lo adori tuttora. Ernesto era un uomo ben diverso; quanto a te, so come domarti, disse poi tra sé, e consape12 13
vole di quanto fosse facile far sbollire quell’ardore, si sentì quasi assopire: esercitano infatti un effetto soporifero le parole per le quali già si tiene in serbo una risposta inoppugnabile. «Però» disse. Lei tacque, ma per un attimo soltanto, dopodiché riprese a parlare spedita. «Però» ripeté lui, questa volta secco e duro. Attese un attimo e poi puntò l’indice verso la signora Amalia: «Non solo lui hanno punito, signora Amalia, ma anche lei». La signora Amalia scosse appena le spalle. «Sì, cara signora, anche lei hanno punito insieme a lui, anche lei.» La donna si mise a cercare qualcosa in un cassetto, come fosse preoccupata per il pranzo, e proprio quando gli fu vicinissima, quando poté pronunciarle la frase quasi direttamente all’orecchio, le disse: «E lei non era sua moglie, lo sa questo, signora Amalia?». «Mmm.» Si schiarì la gola, ma non perché fosse imbarazzata, bensì per una sorta di ostinazione isterica. «No!» ribadì spietato. «Non era sua moglie!» La signora Amalia sembrò non aver udito. Ferma davanti ai fornelli, assaggiò la pietanza che stava cuocendo in pentola. Lui però la inseguiva con gli occhi: perché dovrei desistere?, si chiese. Il dittatore aveva un’amante? E con ciò? Se la tenesse, e chi s’è visto s’è visto. Mica si baderà a certe bazzecole, no? Ma la signora Amalia era sensibile soprattutto a peccatacci di questo genere, bisognava quindi prenderla per il verso giusto. Blatera così, dopo tanti anni di sangue – perché dovrei desistere?, si disse. «Vede, signora Amalia, lui aveva pure una moglie, da qualche parte…» disse calcando le parole. E dopo un attimo aggiunse più deciso: «Da qualche parte aveva la moglie legittima, signora Amalia». A quel punto lei spostò una pentola, senza che ce ne fosse alcun bisogno. «Be’, sì» ammise infine senza guardarlo, mentre le sue spalle si alzavano in rapidi e leggeri sussulti. «Be’, sì, Dio l’ha punito, per i suoi peccati» disse rassegnata, quasi controvoglia. La villa sul lago
È sempre così avvilente, così impossibile parlare con lei, come un tempo del resto, è sempre stato penoso e irritante, pensò. Lo avvertivano entrambi, anche in quel momento. E non erano neanche mai giunti allo scontro. Anzi, allora come ora, era proprio questa la cosa peggiore: un conflitto soffocato e dissimulato, mai portato a termine, ai suoi colpi definitivi. Oggi, comunque, la sorpresa dell’incontro ha il sopravvento. È naturale, dopo una guerra simile! Certo, per la signora Amalia lui è senza dubbio un libero pensatore, ma un libero pensatore loquace e gentile che dà poche occasioni di scontro; ed è pure un amico di suo figlio Bruno e un amico di Enrico. E poi, ora è persino architetto. Ed è, naturalmente, un uomo distinto, quindi è bello che sia venuto a trovarli. Sono così soli, dacché Ernesto non c’è più, e c’è un tale disperato silenzio in casa, da quando la trattoria ha chiuso. Un vero tormento, questo silenzio. Bruno? Certo che ne va fiera, fa l’impiegato e si fa rispettare, ma può tornare a casa solo per le feste più importanti! Chiacchierando uscirono dalla palude delle ideologie, e si ritrovarono di nuovo lì, accanto a quel lago stupendo. E la signora Amalia gli faceva da ufficio informazioni. «E il direttore della posta?» chiese lui. «Il sior Nando? Eh, il sior Nando è come un giovanotto… ma certo, lui allora si occupava sempre della posta – mi sembra ieri, vero che sembra ieri?» «E Bruna?» «Bruna è già una signora, e ricca pure, sta a Bologna, ha l’automobile e la governante per la figlioletta, altroché!» «E Jole?» «Jole? Jole fa la sarta, con sartoria propria, mio caro. In quella casetta sul lago dove allora dormiva lei; Enrico non stava lì, lo ricordo bene, ma lei sì, lei sì. Eh, mica stava male lei, mica stava male, vero?» e scandì lentamente le sillabe, quasi volesse vendicarsi di aver capitolato davanti ai peccati del dittatore. «No, non era male» assentì lui sorridendo. «Direi!» «Quegli oleandri sotto le finestre, ci sono ancora?» «Certo che ci sono.» 14 15
«Quando aprivo quelle imposte traballanti dovevo far sempre attenzione a non schiacciare i fiori.» «Direi!» esclamò di nuovo con aria eloquente, annuendo. «Crescevano come alberi, dal cortile fino alle finestre, e avevano fiori incredibilmente grandi. Sembrava di avere un’aiuola di garofani davanti alla finestra. E facevano entrare nella stanza un chiarore rosato.» «È proprio brava, Jole; sono sei le ragazze a cucire da lei» aggiunse assorta, quasi ritenesse di dover volgere il discorso nella direzione giusta. Poi ripeté di nuovo: «Jole è brava». Infine, quasi a bilanciare le lodi alle ragazze del paese, esclamò spavalda in mezzo alla cucina: «E mia nipote Alice si sposa!». «Davvero?» disse lui. Divenuta di colpo più scattante, la signora Amalia gli si avvicinò per poi scostarsi di nuovo, come se i suoi nervi cercassero la distanza più adeguata. «Oh, non per vantarmi, ma ciò che è vero è vero… Bruno è un uomo in gamba, per lui non temo proprio» constatò decisa sfregandosi le mani accanto al tavolo. Allungò poi la destra, e gli mostrò il palmo aperto, quasi gli presentasse un documento di grande rilievo: «È così, ha una posizione di riguardo, e dovunque va riceve apprezzamenti e stima, non è vero? La nostra Alice? È sistemata. Be’, ora bisognerà provvedere pure a Luciana». «Luciana non la conosco» disse lui. «Com’è?» «Non la conosce? Come mai? Ma non è possibile che non la conosca!» «Non l’ho mai vista.» «Non l’ha vista? Ma se era da noi quasi ogni sera. Be’, durante la guerra Luciana lavorava a Brescia, ma tornava spesso a casa. Deve averla vista.» «Né vista né sentita» fece lui sorridendo. «Strano, un caso strano davvero.» «E com’è questa sua Luciana?» chiese con allegria. Lei però non poteva ammettere, neanche per scherzo, che uomini così disinibiti s’interessassero a sua figlia. Perciò si affrettò a dire: «Ora lavora nella filanda, a Campione, La villa sul lago
sul lago dunque, ma deve fare dieci chilometri di bicicletta all’andata e dieci al ritorno. Tutti i santi giorni. Non è cosa da poco, sa? D’estate e d’inverno la stessa storia: prima la pioggia e il vento, poi il giro d’aria delle gallerie. E non sono poche, come lei sa, quelle gallerie. E quanto sono lunghe! Perciò è sempre col mal di gola, è sempre rauca, continuamente rauca. No, così non può durare, così non durerà» disse scuotendo di scatto la testa. «Bisogna farla finita con questa faccenda» disse poi decisa incrociando le braccia sul petto. Lui allora s’alzò. «Sì, è una vita dura» disse con un sospiro. «Ora vado a dare un’occhiata ai luoghi che conosco» aggiunse. «Suvvia, attenda, a momenti Luciana tornerà dalla messa» cercò di trattenerlo sorpresa. «Ma ritornerò, c’è ancora tempo per la corriera della sera.» «Venga a pranzo, perché pagar caro in trattoria, per alzarsi da tavola insoddisfatti?» «Grazie, verrò piuttosto dopo mangiato.» «No, no, pranzi con noi. Siamo sole, Luciana e io, sarà tutto molto semplice, sa, un boccone in famiglia.» «Verrò» disse lui allora, e sorrise. «Così va bene» disse lei accompagnandolo verso l’uscita e ancora sull’uscio gli raccomandò: «Si guardi per bene ogni cosa. Nulla è cambiato, tutto è come un tempo. Forse incontrerà Luciana, dovrebbe essere qui a momenti. Si guardi bene ogni cosa, ma venga. Anche se è ingegnere, non è il caso di buttar via soldi per il pranzo!». Sarà tutto semplice, in famiglia, aveva detto. Ma nell’attraversare la piccola piazza, sensazioni di calore familiare lui ora non ne provava proprio. Sulla riva c’erano, è vero, le reti dei pescatori, stese da albero ad albero come un tempo, ma le casette che circondavano la piazzetta avevano un aspetto poco accogliente. Che peso hanno le parole del prossimo, pensò, pesano anche più del tempo perché prima, prima di parlare con la signora Amalia, quelle nubi basse e cupe mica intristivano ogni cosa: è a causa sua se adesso in mezzo alla piazza lui si sentiva di casa e straniero al tempo stesso. 16 17
Si guardò intorno alla ricerca di un volto conosciuto e cordiale, ma non c’era proprio anima viva. Nemmeno il vecchio battelliere attendeva in fondo al molo l’arrivo del vaporetto e del marinaio che gli avrebbe lanciato la fune: il vaporetto passerà di nuovo di qui solo dopo pranzo e probabilmente, anche se è domenica, non sarà carico di passeggeri, pensò, ma tra non molto la primavera sarà calda come l’estate, e lo Zanardelli traboccherà di turisti. Lo Zanardelli è quello senza l’elica sotto la poppa, e con due grandi ruote ai fianchi che sembrano le vecchie ruote di un mulino, e di domenica, quando è pieno di passeggeri, oscilla rasente al molo come un animale bianco e gravido. Già, ma è solo il ricordo a parlare di tutto questo, pensò, perché adesso le casette e ogni cosa tutt’intorno sono inespressive come bestie che si apprestano al letargo invernale. Ma non è già finito, l’inverno? Non è già finita, la guerra? Cos’è che ha fatto di male, poverino?, mormorò tra sé. Si recò sul molo cercando di nuovo con lo sguardo qualcosa che gli fosse familiare. Ma il molo era freddo e indifferente sotto le nubi fosche. Non in fondo, però: lì, conficcate nel lago, c’erano sempre le grosse travi; se ne stavano verticali e amichevoli come un tempo, nere di catrame e, nell’acqua, verdognole e ricurve. Quando il vaporetto giungerà, accosterà il fianco al molo e si appoggerà alle travi – e queste cederanno elastiche sorreggendolo, e sembreranno chinare graziosamente il capo, coperto da berretti di latta a forma di cono. Portano il berretto perché l’acqua non le bagni fino in cima, dato che vi stanno a mollo in tutta la loro altezza, ricordò la battuta fatta un tempo da Enrico. Tornava sui suoi passi, quando gli parve di vederlo, Enrico, intento a fumare la pipa e a leggere il romanzo La fontana di Charles Morgan. E quando lui gli ripeteva le frasi retoriche dell’ultimo discorso del dittatore, Enrico stringeva la pipa tra i denti sorridendo ironico. L’ironico sorriso del poeta Enrico rappresentava già allora la sconfitta del tiranno e continua a testimoniare l’eterna saggezza del poeta contro la stagnante ottusità della signora Amalia. La villa sul lago
Poi sorse quell’incredibile mattino, che sembrava la nascita del mondo. Il lago risplendeva di una calma festosa. Aveva incontrato Enrico proprio sul molo. «Buon anno!» lo salutò. «Anche a te!» esclamò Enrico, quasi si rammaricasse che Mirko l’avesse preceduto nel fare gli auguri. Proprio in quel mentre si avvicinò Ines col suo cane pachistano, e loro due le augurarono all’unisono: «Buon Capodanno, Ines!» «Ma che vi prende?» chiese Ines. «Siete ammattiti?» «Ne varrebbe quasi la pena!» esclamò Enrico. «Non capisco» disse Ines, ma ci arrivò in quell’attimo stesso; rimase però tranquilla, perché la loro quotidiana e costante ironia non aveva intaccato l’amore che portava al dittatore. «Non hai sentito cos’ha detto la radio?» «Ed è per questo che voi due fate gli auguri?» «Certo, cara» esclamò Enrico. «Non senti fremere l’aria, non ti senti più leggera da quando hanno detronizzato il tiranno?» «Per me non era un tiranno» disse Ines. Ma Enrico le piaceva a tal punto che si trovava sempre, insieme al cane, là dove lui compariva, perciò accettò infine gli auguri, sia pure con riserva. Una giornata indimenticabile. A Enrico però Ines non piaceva. Fingeva di non capire i suoi sguardi insistenti, il suo corrergli dietro. Non era ragazza da riuscir convincente al poeta Enrico, era troppo poco insolita e quanto c’era in lei d’inconsueto non era attraente. Ma quel giorno persino lei parve loro eccezionale e camminandole accanto attraverso la piazzetta si scordarono di avere indosso l’uniforme militare. Che giornata! Si recò alla fine della riva, dove le casette sfioravano l’acqua e dove una villa sfarzosa protendeva verso il lago la sua terrazza di pietra con giardino. Evitò quelle casette e girò intorno alla villa, prendendo il sentiero stretto tra due muri e disseminato di escrementi di capra. Lì, d’estate, sembrava di camminare in un alveo bianco e rovente, e si desiderava ancor più la distesa d’ac18 19