Lo yatagan

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Nada Vujadinović

Lo yatagan

storie montenegrine

prefazione di Sergio Romano



Indice

Prefazione di Sergio Romano

VII

Lo yatagan Una patria, molte patrie 5 Il nonno, Enrico Vasconi 8 Milano 1900-1906 11 La Compagnia di Antivari 14 Il Montenegro e la sua gente 17 La battaglia di Fundine 25 Novak e Arso Vujadinović 31 La Prima guerra mondiale 37 Antivari 1920-1932 42 Mio padre Mojsije 47 La mia infanzia 52 L’aurora boreale e il distacco 59 Ternate 61 Finale Ligure 66 La guerra 69 La partenza per Varano Borghi 76 Il processo e il ritorno 83


Gli anni del dopoguerra 89 Gli anni dell’università 96 Un grande amico: Vanni Scheiwiller 98 Una nuova casa 104 Milano, maggio 1961 108 Visita alla vecchia casa 111 Orahovo 113 Momče 116 La donna senza naso 119 Medun 121 Cetinje 124 Conclusione 127 Bibliografia 129


Prefazione

di Sergio Romano

Uno dei più brillanti, discussi e contestati esponenti della Jugoslavia di Tito fu un montenegrino. Al potere o all’opposizione, libero o in carcere, Milovan Djilas discuteva il futuro del regime, rimetteva in discussione i princìpi del comunismo, sfidava la collera dei suoi compagni e non temeva di pagare il prezzo delle sue battaglie. Dei montenegrini aveva il coraggio, la franchezza, l’audacia imprudente, il gusto della lotta e il senso dell’onore. Durante un viaggio a Belgrado, nel dicembre del 1994, chiesi di fargli visita e mi ricevette nel salotto di un piccolo appartamento del centro di Belgrado in cui l’unica nota di colore era il ritratto di un uomo austero e arcigno, vestito di uno sgargiante costume montenegrino. Quando gliene chiesi notizia, si limitò a descriverlo genericamente come un combattente della guerra che il Montenegro, precedendo di qualche giorno la Serbia, aveva spensieratamente lanciato contro il gigante ottomano l’8 ottobre 1912. Ma era probabilmente il padre, eroico protagonista di una delle battaglie che i montenegrini avevano vinto prima di logorare le loro forze nel lungo assedio di Scutari. Ricordavo le parole con cui Djilas era stato descritto da Fitzroy MacLean, capo di una missione militare britannica presso i partigiani di Tito e autore di un eccellente libro sulle guerre che si combatterono in Jugoslavia fra il 1941 e il 1945 (Disputed Barricade, Londra 1957). Secondo MacLean, il giovane Djilo VII


(era il suo nome di battaglia) aveva un viso sensibile, uno sguardo sognatore, un ciuffo di capelli neri, ed era bello, intollerante, impetuoso. L’uomo seduto in una poltrona di fronte a me aveva 75 anni e portava sul viso i segni di quelli passati nelle prigioni del regno, nelle prigioni della Repubblica di Tito fra il 1958 e il 1967, sui campi di battaglia della guerra partigiana dal 1941 al 1945 e su quello, molto più insidioso, del Comitato centrale del Partito comunista dopo la fine del conflitto. Nel corso della conversazione non fu né intollerante né impetuoso. A ogni mio tentativo di affrontare i problemi dell’attualità reagiva con lunghi silenzi e risposte generiche. Pensai per un istante che fosse stanco di recitare la parte del dissenziente e che preferisse, per carità di patria, attendere nel silenzio la fine della sua vita. Ma a una mia ennesima domanda rispose bruscamente che non aveva più nulla da dire. Esistevano ormai partiti e uomini politici che potevano esprimersi liberamente, ma lui non aveva né progetti né ambizioni. Preferiva dedicarsi alla correzione delle sue opere, che erano state pubblicate con molti errori. Non appena accennai a quelle tradotte in italiano, mi disse di avere suggerito più volte, inutilmente, la pubblicazione delle sue memorie del tempo di guerra e aggiunse: «Vi sono cose interessanti sull’Italia». E aveva ragione. La prima parte di Tempi di guerra, apparso ora finalmente in italiano presso la Libreria editrice goriziana, è dedicata alla guerra di guerriglia del Montenegro contro le forze d’occupazione dell’Italia e della Germania dopo l’insurrezione del 13 luglio 1941, la prima in una regione europea occupata dall’Asse durante la Seconda guerra mondiale. Dopo la spartizione della Jugoslavia nell’aprile di quell’anno, il Montenegro era divenuto nuovamente un regno, unito all’Italia dallo stesso re, e aveva una regina montenegrina nella persona di Elena, figlia di Nicola Petrović Njegoš e moglie di Vittorio Emanuele III. Ma era nella realtà uno Stato vassallo, e questo bastò perché i montenegrini si sollevassero con uno spavaldo coraggio che colse di VIII


sorpresa persino gli ispiratori comunisti della rivolta. La prima insurrezione fallì sotto i duri colpi delle forze italiane e tedesche, ma la guerriglia continuò e divenne guerra di liberazione nell’ultima fase del conflitto, dopo l’armistizio italiano dell’8 settembre 1943. Questo non fu il primo capitolo dei rapporti italo-montenegrini. Agli inizi del Novecento, dopo il matrimonio fra Elena e Vittorio Emanuele, un gruppo di imprenditori italiani, guidati da Giuseppe Volpi e finanziati dalla Banca Commerciale, era arrivato a Cetinje, capitale del Regno, con alcuni progetti: una Regia cointeressata dei tabacchi del Montenegro, la costruzione di un porto franco a Var (nelle carte italiane Antivari), la costruzione e l’esercizio di una ferrovia da Var al lago di Scutari, l’esercizio di un servizio di navigazione sul lago e, in prospettiva, una ferrovia transbalcanica dall’Adriatico al Mar Nero. Il tratto ferroviario sino a Vir Bazar sul lago di Scutari (44 chilometri a scartamento ridotto attraverso le montagne) fu inaugurato il 1 gennaio 1909 e il porto franco il 23 ottobre dello stesso anno. Con i progetti di Volpi arrivarono gli ingegneri, gli architetti, i contadini delle Puglie esperti nella coltivazione del tabacco, e i tecnici ferroviari, fra cui il nonno materno dell’autrice di questo libro. Gli obiettivi erano ambiziosi: liberare il Montenegro dalla prigione montana in cui geografia e politica lo avevano rinchiuso, offrire nuovi approdi e nuovi mercati al porto di Venezia e al commercio italiano, allargare l’area dell’influenza dell’Italia nell’Adriatico. I progetti furono rallentati da numerosi ostacoli: le iniziative concorrenti della politica austriaca, la guerra italoturca per il possesso della Tripolitania e della Cirenaica, le guerre balcaniche del 1912 e del 1913, l’attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914. Alla fine della Grande guerra, lo Stato montenegrino, coraggioso alleato della Serbia nell’agosto del 1914 e quindi vincitore, fu trattato alla stregua di una preda di guerra e divenne un’apIX


pendice della Serbia nel nuovo Regno dei serbi, croati e sloveni. L’Italia avrebbe avuto interesse a battersi per la sua sopravvivenza, ma era immersa nella questione di Fiume e agitata da una crisi politica che riduceva considerevolmente le sue possibilità d’intervento nelle questioni territoriali del dopoguerra. Si costituì tuttavia, con il patrocinio di Gabriele D’Annunzio, un Comitato italiano per l’indipendenza del Montenegro. Era presieduto dal professor Antonio Baldacci, un assiduo frequentatore degli ambienti montenegrini, prima della guerra, amico del primo ministro Tomanović. Secondo lo storico americano Richard Webster, autore di L’imperialismo industriale italiano 1908-1915, Baldacci era «un’autorità nel campo della geografia illirica e in etnologia», ma anche nemico di Volpi e autore di rapporti segreti, indirizzati al Ministero degli Esteri italiano, con cui cercava di screditare l’imprenditore veneziano. Nel 1923, quando Nicola era morto da due anni e le sorti del Montenegro erano ormai segnate, Baldacci pubblicò a Bologna, con la prefazione di un noto giornalista italiano (Luigi Barzini), un piccolo libro intitolato Montenegro. Il delitto della Conferenza della pace. L’autore era Whitney Warren, un architetto americano che aveva frequentemente visitato il fronte italiano durante la Grande guerra e disegnato la nuova biblioteca dell’Università cattolica di Lovanio al posto di quella distrutta durante il conflitto da “teutonico furore”. Innamorato del Montenegro e del suo popolo coraggioso, Warren descrisse i Balcani come un grande palcoscenico popolato da uomini e donne che sembravano usciti dai drammi di Shakespeare. In quello iniziato a Sarajevo nel 1914, il Montenegro era Cordelia, l’infelice e diseredata figlia di re Lear, la Serbia era Lady Macbeth. Ho accennato a qualche pagina di storia, dall’inizio del Novecento alla fine della Prima guerra mondiale, in cui l’Italia e il Montenegro furono protagonisti degli stessi avvenimenti. QueX


sto è il fondale contro cui vanno in scena, nelle memorie di Nada Vujadinović, le storie intrecciate di una famiglia italiana approdata a Var negli anni in cui Volpi cercava di fare della città la base delle sue operazioni, e di una famiglia montenegrina che aveva con il suo re un debito non onorato. Non cercherò di riassumere le vicende narrate nel libro perché ogni sintesi priverebbe queste pagine della loro naturalezza, della loro vivacità e di un certo fascino fiabesco. Lo storico deve farsi da parte e lasciare il posto a una donna che racconta con occhi italiani una favola montenegrina e scopre, raccontandola, di avere due patrie.

XI


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