Non è successo niente

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Non è successo niente



Merapi, Giava, 5 luglio Le tre del mattino erano passate e la salita si faceva sempre più impegnativa. Non di escursione per amatori si trattava, bensì di trekking serio per gente allenata, al buio, al freddo, lungo cammini scavati nella lava, ripidi e scivolosi, a tenere il ritmo imposto dalle guide locali, piccoli uomini sempre curvi che sembravano danzare mentre poggiavano il loro corpo ora su un lato ora sull’altro del sentiero di cui conoscevano ogni rilievo, ogni seno. Il gruppo era partito all’una di notte da Kaliurang. Una decina di turisti e tre guide indonesiane. Tra i turisti, che venivano da più Paesi, due ragazzi australiani giovani e allenati costantemente alle spalle della prima guida. L’avrebbero volentieri superata, ma la notte senza luna nascondeva loro un cammino che non conoscevano. Una coppia di francesi di Digione che, a sentir loro, avevano passato la vita sui vulcani, in particolare quelli dell’anello di fuoco dell’Indonesia. In un inglese pesantemente segnato dall’erre moscia avevano raccontato molte delle loro avventure, fra cui quella in cui un compagno di viaggio era scivolato lungo un pendio ed era finito dentro un geyser che l’aveva risputato solo dopo un quarto d’ora, quando ormai era cotto. Dopo essere state ad ascoltarli, due ragazze giapponesi avevano deciso di restare in albergo. C’era una coppia di americani sovrappeso che ansimava, sbuffava e temeva di dover tornare indietro ogni volta che il sentiero s’impennava, ma si capiva che avrebbero resistito fino alla morte pur di non intaccare la reputazione della loro bandiera. Un’altra coppia, due fidanzatini inglesi partiti in maniche 9


di camicia, convinti che all’equatore facesse caldo anche a tremila metri, aveva dato forfait dopo la prima ora. Antonio e Simona Vaccaro fino a quel momento avevano retto bene. Sapevano cosa li aspettava, si erano preparati in palestra a lungo, avevano scelto abbigliamento tecnico all’avanguardia per proteggersi dal freddo pungente e dal terreno insidioso, si tenevano in continuo contatto con l’agenzia di Palermo che aveva venduto loro il pacchetto «perché, dovesse capitare qualcosa, è meglio parlarne subito con gente che parla la tua stessa lingua». Mancava un’ora di cammino alla vetta. Uno spettacolo che avevano descritto loro come impareggiabile, tanto più grandioso quanto più estese erano le fenditure attraverso le quali si poteva scorgere la lava ribollente che a volte, tracciando fiumi incandescenti, colava lungo valloni lunari nei quali, da sempre, cenere e pioggia si riversavano in parti uguali. E, da ultimo, l’alba. Un’alba improvvisa e immensa che a ognuna delle ferite del vulcano dava luce e rilievo così intensi e inattesi che sembrava di essersi calati sul palcoscenico della creazione del mondo. I due italiani marciavano in coda alla carovana. Davanti a loro un movimentato intreccio di fasci di luce che le torce elettriche, una per ciascuno, disegnavano nel buio. Chiudeva il gruppo Sukmono, la guida che parlava meglio di tutte l’inglese. Statura media, che da quelle parti non arriva all’uno e settanta, e ciuffo nero ribelle che, quando scendeva sull’occhio destro veniva ricacciato a forza indietro con un avvitamento del capo simile a un tic. A mezzo metro da Sukmono arrancava sulle sue tre zampe Chiki, piccolo cane di mille razze, l’archetipo del bastardo per taglia, colore, pelo, muso e coda, ma soprattutto per lo sguardo, sempre incerto fra paura e sottomissione. Sukmono era una delle guide del Merapi, e il Merapi è un dio grande e balzano, carismatico e tremendo, che tuttavia ha un punto debole. Quando la pressione interna di gas e magma sta per avere la meglio sulla solidità della roccia che la trattiene, quando la sua collera sta per scoppiare, trema. Nella maggioranza dei casi si tratta di sussulti impercettibili subito sopiti, solo a volte di vere scosse Non è successo niente


sismiche. Gli uomini che vivono alle pendici del vulcano non percepiscono le premonizioni più lievi. Cosa che invece può accadere a qualcuno dei loro animali. Chiki era uno di questi, avvertiva in anticipo gli umori del dio del fuoco. E aveva un modo inequivocabile di annunciare le eruzioni: correva ad agguantare una gamba del padrone, la serrava fra il muso e l’altra gamba anteriore e gli urinava sulle scarpe. Non si contavano le volte che la bestiola, prima che la gente si accorgesse di questa sua peculiarità, si era buscata sassi e calci. La zampa l’aveva persa quando aveva inzuppato le scarpe di un malese intento ad affilare il suo machete completamente sbronzo. Ma si trattava di un riflesso condizionato, e non c’erano punizioni che potessero correggerlo. Nonostante da casa sua, a Mondello, il cono dell’Etna non riuscisse a vederlo, Antonio Vaccaro ne parlava come di un familiare. C’era salito spesso, una volta si era spinto fino a pochi metri dalla lava e lo avevano tirato via appena prima che gli fumassero i capelli. Un mese prima, preso dalla voglia di fare un viaggio, ma soprattutto, come aveva confidato a un paio di amici, per cambiare aria in attesa che certe faccende si mettessero a posto, si era recato alla solita agenzia e aveva cominciato a sfogliare dépliant. Vaccaro era convinto che nessuno meglio di lui fosse in grado di scegliersi una vacanza. Purtroppo arrivava sempre tardi, i voli erano pieni e spesso la scelta era quasi obbligata, di norma quella che faceva più comodo all’agenzia. Quel giorno non aveva trovato altro che una settimana sul Mar Rosso. Ma c’era già stato tre volte. Andarci una quarta volta di luglio, quando le temperature raggiungono i quarantacinque gradi e distese di turisti italiani abbrustoliti contemplano incuriositi l’ennesimo cammello, era cosa che non lo attraeva per nulla. «Prova a usare l’immaginazione» aveva detto alla ragazza. Lei si era messa a scorrere il video e aveva scoperto, per l’inizio di luglio, due posti liberi a completamento di un tour in Indonesia. «Indonesia? Un Paese islamico dove i cristiani li ammazzano per strada?» era stato il suo commento. 10 11


«Anche l’Egitto è un Paese islamico.» «Ma sul Mar Rosso gli egiziani non ti inseguono brandendo armi da taglio.» «Capita, è vero, ma soprattutto a Jakarta. O a Timor. Il tour che ti propongo si svolge quasi tutto nel centro di Giava, dove la gente è più rilassata. Non abbiamo mai avuto problemi.» Vaccaro guardava con ostilità a quei Paesi in cui le donne devono fare attenzione a come vestono, a come si muovono e a chi si portano a letto. Sua moglie, su questo punto, la pensava allo stesso modo. «Ma poi,» si chiedeva Antonio Vaccaro «perché dovrei spendere tre volte quello che costa un soggiorno sul Mar Rosso per rischiare la pelle, camminare per gran parte del tempo su rovine sacre di religioni che conosco ancor meno della mia, senza la possibilità di fare neppure un bagno e per di più sprecando tre giorni in viaggio?» Ma quando la ragazza dell’agenzia, una che si sarebbe scopato all’istante, gli aveva raccontato dell’anello di fuoco dei vulcani dell’Indonesia, di quello che aveva combinato il Krakatoa nel 1883, della perenne attività di alcuni di essi e della latente pericolosità di tutti, Vaccaro si era infoiato e aveva accettato il pacchetto, a condizione che vi fosse inserita l’ascensione al Merapi, Giove potente, crudele e imprevedibile. Sua moglie, come al solito, aveva finto entusiasmo e si era ben guardata dal suggerire alternative. La partecipazione ai viaggi del marito non era cosa che convenisse mettere in discussione. Così come tutto ciò che decideva lui. Inoltre alcuni viaggi, come le crociere, erano rilassanti e divertenti. Vacanze durante le quali Simona poteva agghindarsi come a una prima teatrale e adoperarsi affinché tutti l’ammirassero e coltivassero i pensieri più torbidi su di lei. Passare il suo tempo sulla nave a tenere a bada gli ammiratori, mentre il marito si cimentava nel tiro al piattello dal ponte, era fonte di grande sollazzo. E una volta, poiché la sparatoria si era protratta per l’intero pomeriggio, era finita in una cabina che non era la sua e il sollazzo era stato ancora maggiore. Quella a Giava, al contrario, era una vacanza durante la quale, ne era certa, Non è successo niente


si sarebbe rotta le palle dal primo all’ultimo giorno. Una trasferta aerea faticosa con tre scali estenuanti e il resto del tempo a scalare pietre sacre e scalare vulcani fino a tremila metri in notturna. Un viaggio in un Paese islamico nel quale tutto il cerimoniale dell’ostentazione della grazia femminile era bandito come la lebbra. Ma di lasciar andare il marito da solo non se ne parlava, perché il loro matrimonio doveva continuare a mostrarsi senza crepe agli occhi della gente. Le corna avrebbe ricominciato a mettergliele appena tornati. Il gruppo avanzava spedito, gli americani sentivano che il gioco si faceva duro, e loro cercavano di essere all’altezza. Conoscevano tutti i film sulle guerre in Oriente, Pacifico, Corea e Vietnam, e nel loro immaginario nazionalpopolare avevano ben chiari, documentati da mille interpretazioni, gli stereotipi dell’eroismo, fra i quali la marcia forzata, da portare a termine fino all’esaurimento dell’ultima briciola di energia, per agguantare il traguardo, che di solito era costituito dall’annientamento di quattro sdruciti soldatacci di una scalcinata postazione nemica. Il cane zampettava in coda, teneva il muso basso e sembrava fosse lui a spingere il drappello. Il giorno prima l’agenzia di Yogya aveva impartito agli escursionisti una rudimentale lezione di comportamento. Aveva descritto il percorso e le maggiori difficoltà e spiegato loro quale atteggiamento tenere nei confronti del vulcano, una vera divinità secondo il credo animistico di quelle parti, che cova irrequieto e inestinguibile sotto la coltre della dottrina islamica. Il vulcano merita rispetto, ma ha le sue fisime. Non sopporta, per esempio, che lo si chiami per nome. I locali se ne guardano bene e lo chiamano Si Mbah, letteralmente “nonno”, ma anche espressione di deferenza simile a “vostro onore”. Lo si può guardare, anche se è schivo e appena può si ammanta di nubi, ma guai ad additarlo. Inoltre – e questa era la cosa che più aveva divertito Vaccaro, che l’inglese lo capiva abbastanza bene – il Merapi mal sopporta coloro che vestono di verde. Non bisogna parlare di eruzione, perché le sue colate vengono considerate null’altro che folclore cerimoniale. Anzi, 12 13


la lava che scende verso la pianura simulerebbe il coito con il quale Si Mbah insemina Ratu Kidul, la regina dei mari del Sud. Altri sono convinti che non di coito si tratti, bensì di un più ossequioso dono di carri d’oro. Durante la spiegazione, Antonio traduceva in simultanea a Simona. Anche se più che traduzione, si trattava di interpretazione, dal momento che ogni frase si trasformava in un’occasione di dileggio. «Questi stronzi non puntano mai il dito contro la montagna. Lo tengono infilato in culo…» «Porta sfiga vestire di verde. La Lega Nord ci dobbiamo portare…» «Credevi che le colate fossero lava? No, le colate del Merapi sono tanti cazzi che vanno a ingravidare la regina dei mari del Sud» e giù sogghigni, perché a ridere, vista la serietà con cui gli altri stavano ad ascoltare, non ce la faceva proprio. In due ore di marcia la vetta del Merapi non si era ancora vista: l’itinerario di avvicinamento le girava sui fianchi e alle spalle senza mai mostrarla. Salivano, salivano, ma la vetta si trovava sempre al di là del rilievo sul quale si stavano inerpicando. Poi, quando pareva a un passo, il sentiero piegava ora a destra ora a sinistra e sempre in modo da metterli davanti a un’altra giogaia per la quale inerpicarsi e costringerli a rinviare il momento della rivelazione. Poi, sempre più vicini e sempre più forti, cominciarono a risuonare soffi e scoppi, i rumori di una montagna che respira, tossisce e sputa. E bagliori in lontananza. Finalmente, al termine di un tratto sassoso che si inerpicava fino a un terrazzo di lava, videro l’albore di una luce dietro di esso, una luce che variava d’intensità e che, nei momenti di maggior forza, illuminava il sentiero di riflessi arancioni. La prima guida si voltò e, a gesti, lasciò intendere che era questione di poco, e ordinò di spegnere le torce. Quando arrivarono alla fine del sentiero, quando davanti a loro si aprì il grande balcone, largo cinquanta metri e profondo una ventina, che si affacciava sulle pendici delle bocche attive, lo spettacolo li paralizzò. Sotto di loro, a una dozzina di metri, la lava sgorgava con rombo di tuono dalla fenditura più prossima e si infilava in un fiume sotterraneo che la faceva ricomparire Non è successo niente


cinquecento metri più a valle. Il flusso dell’eruzione non era uniforme. Vi si alternavano fiotti più regolari e altri scoppiettanti che lanciavano in alto fontane incandescenti decine di metri al di sopra del cratere. Alcune apparivano loro vicinissime, ai bordi del terrazzo. Comparivano con aloni luminosi accecanti nel buio della notte e scomparivano subito, come risucchiate in un imbuto. Ma questo spettacolo, tanto vicino da costituire un pericolo reale, non era nulla se paragonato allo scenario di altre decine di fenditure che, nella notte, in svariati punti di quella valle di fuoco, creavano coreografie inimmaginabili e offrivano una visione d’insieme da cui trasudava la potenza primordiale del fuoco dell’universo. Una forza di fronte alla quale gli spettatori prendevano immediata consapevolezza della loro irrilevanza. Poco più avanti, prossimo al dirupo, un altro gruppo era già in attesa dell’alba. Una dozzina di persone sedute sulla lava, a un paio di metri dal bordo, impalate di fronte allo spettacolo e sorde a quello che cercava di spiegare una guida. Nulla le separava dal baratro perché, con un vulcano come quello, una transenna non sarebbe durata che pochi mesi. «Hai mai visto una cosa simile?» chiese Antonio a Simona a tutta voce per coprire il frastuono. Il tono della domanda era chiaro. «Ti rendi conto di quante cose vedi solo perché ti ci porto?» sembrava voler dire. Simona era scossa. Pensò che tutti quegli allenamenti in palestra, quella faticaccia notturna, lo stesso estenuante viaggio in Indonesia erano valsi la pena. Si guardò alla volubile luce arancione delle fontane di fuoco e le venne da chiedersi a cosa le servissero tutti i capi di marca con cui si era accuratamente ricoperta. E pensò che, forse, non erano degni di quel luogo. Antonio si staccò dal gruppo e si avvicinò al bordo. Quanto più ci si sporgeva, tanto più si godeva lo spettacolo sottostante. Aveva appena riferito a Palermo che erano giunti al termine dell’itinerario, e stava spiegando che il ruggito del vulcano era diventato assordante. L’aveva fatto ascoltare alla ragazza dell’agenzia e le aveva preannun14 15


ciato che, al suo ritorno, le avrebbe raccontato tutto di persona. Accadde in un attimo. Un soffio più potente innalzò un fiotto di lava ben oltre il livello della terrazza. Un globo di fuoco si staccò dal flusso, piombò nel punto in cui Antonio Vaccaro si era spinto, lo avviluppò in un alto getto di vapore e, insieme a lui, andò a sbattere contro la parete di lava che delimitava il terrazzo. Lapilli incandescenti volarono intorno e sfiorarono le altre persone. Il rosso della lava s’incupì in superficie e, continuando a sprigionare fumo e calore, cominciò a confondersi con il colore della roccia. Tutte le persone presenti sulla terrazza gettarono un urlo che sovrastò la voce del vulcano. Simona si portò una mano alla bocca, strabuzzò gli occhi e così rimase. Col cuore in tumulto per il rischio corso e per l’orrore. A Palermo erano all’incirca le undici di sera. L’impiegata dell’agenzia, che quella interminabile conversazione se l’era sorbita fuori orario e malvolentieri, commentò annoiata: «Finalmente è caduta la linea». Antonio non c’era più. Al suo posto un frastagliato blocco di lava dove si intravedevano un corpo centrale e numerose protuberanze, alcune corte, altre lunghe più di un metro, che non conservavano alcun riferimento agli arti di un corpo umano. La scultura di un informale. Adagiata su un fianco di lava a sua volta modellato in modo casuale. Ma non fusa con esso. Padrona di una sua forma originale. Buona per essere accreditata a una firma illustre e ricevere l’onore dell’esposizione nel cavedio cinto di cristalli di un museo d’arte moderna. Tuttavia, all’occhio degli spettatori più attenti, non sarebbe sfuggito che una delle protuberanze più corte mostrava all’estremità un pezzetto di iPhone. E che, al termine di una delle escrescenze più lunghe, si intravedeva qualcosa di simile a un moncherino fumante, del quale la sola parte terminale conservava l’aspetto di un alluce. Il vulcano aveva avvolto il corpo di Vaccaro nella lava, la meno pericolosa delle sue evacuazioni. Perché la lava, di Non è successo niente


solito, è lenta e prevedibile, quando avanza spesso si fa in tempo a scappare e a volte si riesce addirittura a modificarne il percorso. «Si Mbah! Si Mbah!» cominciò a gridare una guida, inframmezzando le invocazioni con altre incomprensibili parole. Altre guide si unirono a lui e sembrava non la volessero smettere. Nessuno dei turisti parlava la lingua del luogo. Fu Sukmono a tradurre per i più vicini: «Stanno chiedendo perdono al vulcano.» «Con quello che ha combinato?» chiese un inglese. «Il signore italiano portava calzoni verdi» rispose Sukmono.

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