Sanguisughe

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David Albahari

Sanguisughe Traduzione di Alice Parmeggiani



Adesso, a distanza di sei anni, so che le cose sarebbero potute andare diversamente, ma allora, quella domenica 8 marzo 1998, quando ebbe inizio la serie di eventi che mi appresto a raccontare, era praticamente impossibile immaginare una qualsiasi altra direzione, rispetto a quella che stavano prendendo. D’altronde, può anche darsi che io non abbia nemmeno provato a immaginare qualcosa di diverso, che credessi di non avere alcuna scelta, neppure minima, che pensassi di dover affrontare una realtà ineluttabile, sulla quale, volente o nolente, non ero in grado di esercitare alcuna influenza. Ora tutto questo non ha più importanza, perché ciò che accade, sia esso frutto di una scelta oppure no, diventa un destino che non si può più cambiare. Una mela cade dall’albero, rossa e soda, nell’erba fitta quasi non si vede, ma le formiche, le lumache e le vespe trovano la strada per raggiungerla, tanto che alla fine di quella mela non resterà nulla, e anche i fili d’erba col tempo si raddrizzeranno. Probabilmente sto adesso parlando di una mela perché allora, quella domenica di sei anni fa, uscii di casa con una mela in mano – a dir la verità non era proprio rossa, ma giallina –, che divorai letteralmente, inclusi semi e picciolo. No, il picciolo non lo mangiai, lo tenni per un po’ fra i denti, mordicchiandolo piano, finché non si disfece del tutto. La domenica andavo sempre a passeggiare lungo il Danubio, con qualunque tempo, perfino quando pioveva e infuriava la košava. Neppure la neve riusciva a fermarmi. Certo, quel giorno non nevicava, né il vento era particolarmente forte; le nuvole rotolavano nel cielo e a tratti il sole faceva capolino per poi nascondersi di nuovo. Nel complesso, era una comunissima gior7


nata di marzo, magari un po’ fresca. Uscii dopo pranzo, verso le due. In mano, dunque, tenevo una mela. Le diedi il primo morso solo quando, dopo aver attraversato la piazza e imboccato una scorciatoia fra i nuovi grattacieli, scesi sul lungofiume. Nel momento in cui l’addentai, la buccia gialla, punteggiata di lentiggini dorate, oppose per un attimo resistenza ma poi si squarciò. Due o tre goccioline di succo mi spruzzarono il viso: una sulla fronte, due sulla guancia sinistra. Sollevai la mano per asciugarle, e attraverso le dita con cui mi sfioravo la fronte scorsi un ragazzo e una ragazza in piedi, a pochi passi dall’acqua. Non avevano catturato la mia attenzione perché si trovavano così vicini al fiume, dove si poteva arrivare solo sguazzando nel fango o saltellando cautamente di sasso in sasso, c’era piuttosto qualcosa nei loro gesti che li separava dal contesto, come se appartenessero a un altro mondo, a uno spazio del tutto estraneo alle persone che in quel momento passeggiavano lungo l’argine. Qualunque cosa fosse, mi bloccò. Mi sedetti sulla panchina più vicina, facendo finta di osservare il profilo dei palazzi di Belgrado in lontananza o una qualsiasi altra cosa, tutto fuorché loro. Della mela nel frattempo non era rimasto che il picciolo. Lo strinsi fra i denti, ne sentii il sapore amaro sulla lingua, e fu in quell’istante, di punto in bianco, che il giovane diede uno schiaffo alla ragazza. È possibile che il colpo non fosse stato particolarmente forte; dalla posizione in cui mi trovavo mi sembrò sferrato in modo superficiale, col gomito piuttosto che con la spalla, ma questa poteva essere una conseguenza della prospettiva, della traiettoria obliqua del mio sguardo; la ragazza aveva comunque barcollato, piegata verso destra, come se avesse combinato la forza del colpo con il tentativo di sfuggirgli, e poi, trascinata dall’inerzia, era finita con il piede destro nel fiume. Si vedeva bene che l’acqua le bagnava la caviglia, che la calza le si stava inzuppando, che il piede affondava nel fango. Il giovane sollevò la mano come se intendesse colpirla di nuovo, poi l’abbassò, si girò e si diresse verso la riva. Anch’io mi voltai, e sembrò che nessun altro si fosse accorto di nulla. Il giovane raggiunse ben presto il viottolo, Sanguisughe


mi passò accanto e si diresse verso l’hotel Jugoslavija. Lo seguii con lo sguardo finché non si perse tra la folla. Nel frattempo la ragazza non si era mossa: il piede destro era ancora nell’acqua, il corpo piegato, le mani sollevate all’altezza del petto. Pensai che fosse sotto shock e che sarei dovuto avvicinarmi per aiutarla, e infatti mi ero già preparato ad affrontare la ripida discesa che dal bordo della passeggiata portava alla riva, quando notai un uomo con un impermeabile nero. Stava in piedi accanto a una delle altalene del piccolo parco giochi e osservava proprio la ragazza. Ancora oggi non saprei dire se si trattava dello stesso uomo che avrei incontrato in seguito, ma fu a causa sua che rinunciai a scendere fino al fiume. Masticando il picciolo ormai ridotto in polpa, mi chinai fingendo di allacciarmi le scarpe. Quando alzai di nuovo lo sguardo l’uomo con l’impermeabile nero era scomparso. Neppure la ragazza era più al suo posto: camminava nel fango evitando i sassi, finché non raggiunse la scaletta che portava alla passeggiata. Saliva lentamente, un gradino alla volta, come se non volesse arrivare in cima. Fra me e lei si trovava il piccolo parco giochi, con la malconcia giostra in miniatura, le altalene e il trenino trascinato da un bruco sorridente. Allora smisi per un istante di osservarla, mi feci strada in mezzo al gruppo di genitori che incoraggiavano i figli a entrare in decrepiti vagoncini verdi e a salire su cavallini spelacchiati, e al di sopra delle loro spalle continuai a spiare i movimenti della ragazza. Il trenino fece un giro completo prima che la sua testa comparisse di nuovo. Lei salì ancora un poco, si girò, come se avesse paura dell’altezza, e infine appoggiò il piede sull’asfalto della passeggiata. Guardava verso l’hotel Jugoslavija, ma – e io questo lo sapevo – non poteva vedere il giovane. Poi si voltò nella direzione opposta, verso il ristorante Venecija, e qualche istante dopo, proprio quando un bambino prese a strillare perché sua madre lo stava tirando giù da un cavallino bianco e nero, si diresse da quella parte. Aspettai che si fosse allontanata un po’ e mi avviai dietro di lei. In quegli istanti non pensavo, non riflettevo su quello che stavo facendo, né mi ero detto che avrei dovuto seguirla, avevo 8

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semplicemente iniziato a camminare, a percorrere la sua stessa strada a qualche passo di distanza. In una parola, non sapevo perché lo stessi facendo. Lo schiaffo che aveva preso mi aveva fatto arrabbiare, anche se non ne avevo alcun diritto. Non sapevo niente di lei, e neppure del giovane assieme al quale poco prima l’avevo vista sul bordo dell’acqua, e anche se le possibili cause di quello schiaffo erano innumerevoli, ritenevo che non ce ne fosse alcuna che potesse giustificare una reazione simile. Tutto ciò non legittimava il mio gesto, per cui esitavo, fermandomi di tanto in tanto, mentre lei, come se lo sapesse, percorreva il lungofiume sempre più velocemente, mettendosi addirittura a correre quando raggiunse il Venecija. Lasciai che svoltasse dietro la Capitaneria, poi mi misi a correre anch’io, ma dall’altro lato dell’edificio, convinto che in quel modo avrei accorciato la distanza fra di noi. Una volta raggiunto l’angolo più lontano della Capitaneria, però, non riuscii più a vederla. Feci il giro dell’edificio, sbirciai nella galleria, osservai le barche: non era da nessuna parte. Tornai fino al Venecija, al punto in cui avevo cominciato a correre, e rifeci lo stesso tragitto. Non mi rimaneva che accettare di averla persa. Se non si era unita a qualche gruppo di passanti, ed era una possibilità, mentre io correvo lungo l’altro lato della Capitaneria, si era senz’altro voltata a metà strada ed era tornata al ristorante, e da lì, mentre io facevo il giro della Capitaneria e controllavo la galleria, aveva preso chissà quale direzione. Ero furibondo con me stesso per quell’errore, anche se continuavo a ripetermi che tutto ciò non avrebbe dovuto minimamente riguardarmi. E comunque non era successo niente di speciale: uno schiaffo, una calza bagnata, il silenzio, la corsa. Minuzie, dettagli insignificanti in confronto a ciò che stava accadendo nel resto del mondo. È così, pensai, e rinunciai a proseguire le ricerche. Il pomeriggio seguente mi trovavo di nuovo all’angolo della Capitaneria, in procinto di perlustrare le strade in cui la ragazza poteva essersi infilata mentre io la cercavo. Nel frattempo mi ero convinto che a un certo punto lei si fosse accorta che la seguivo e che la sua corsa in realtà non rappresentava una fuga dalla sofferenza per Sanguisughe


lo schiaffo ricevuto, ma da me, e che quindi dovevo ritrovarla e spiegarle il mio ruolo, anche se non di un ruolo si trattava, ma di un’involontaria comparsata. Naturalmente non la trovai da nessuna parte. Sbirciai dietro due o tre portoni, entrai in un cortile, mi fermai sotto una finestra aperta, esaminai certe facciate in rovina: era tutto inutile, lo sapevo, ma non riuscivo a fermarmi. La notte precedente non avevo quasi chiuso occhio. L’ avevo passata disteso a letto supino a fissare il soffitto, e ogni volta che abbassavo le palpebre vedevo la mano del giovane calare sulla guancia di lei. Mi ero addormentato solo prima dell’alba, alzandomi più stanco di quando ero andato a letto. Avevo fatto colazione con del caffè e una fetta di pane e marmellata di albicocche. Avevo le mani pesanti, mi tremavano le gambe, la testa mi ronzava ed era evidente che quel giorno non avrei scritto nulla. Telefonai al direttore e gli dissi di non preoccuparsi, il testo sarebbe arrivato in tempo per poter essere inserito nel nuovo numero. Bene, rispose il direttore, e interruppe la conversazione. Resistetti in casa fino all’ora di pranzo, poi mi diressi verso il lungofiume. Dallo stesso punto in cui ero seduto il pomeriggio precedente non si vedeva niente sul bordo dell’acqua, almeno non nella zona in cui si trovava la coppia. Andai fino alla scalinata attraverso cui la ragazza aveva raggiunto la passeggiata, ma nemmeno lì notai nulla. O meglio, alcuni grumi di fango essiccato che potevano provenire dalle sue scarpe, proprio come la foglia raggrinzita sul margine del gradino più alto, ma né il fango né la foglia mi dicevano qualcosa che non sapessi già. Percorsi tutto il lungofiume fino al ristorante Venecija, poi feci nuovamente il giro della Capitaneria. Se davvero mi aveva visto, o se in qualche modo si era accorta che la seguivo, quando era successo? Non mi ero mai avvicinato troppo, inoltre sul lungofiume c’erano parecchie persone, molte delle quali passeggiavano nella nostra stessa direzione. Per quale motivo avrebbe dovuto pensare che proprio io la seguivo? A quel punto mi ricordai dell’uomo con l’impermeabile nero. Era stato forse lui ad attirare la sua attenzione su di me? Sciocchezze, pensai, fermo all’angolo della Capitaneria, ma più cercavo di di10 11


menticare quell’uomo e più finivo per pensarci. E anche in seguito, mentre perlustravo le strade in cui la ragazza sarebbe potuta fuggire, l’uomo con l’impermeabile nero camminava, per così dire, assieme a me. Percorsi via Gospodska, la Zmaj Jovina e la Karamatina, così come le traverse. Mi rimaneva solo da prendere la via che fiancheggiava la passeggiata, ma in direzione opposta, verso il caffè Zlatno veslo. Proprio quando stavo per fare marcia indietro, sul marciapiede all’angolo della Zmaj Jovina scorsi un bottone. Nero, lucido, di quelli che solitamente si usano sui cappotti invernali, con un pezzo di filo intrappolato tra i buchi, stava accanto a una fessura che si allargava sull’asfalto come una radice. Sia la ragazza sia il giovane indossavano giubbotti scuri, blu o neri, ne ero sicuro, ma ero altrettanto sicuro che si trattava di giacche con cerniere lampo, senza bottoni. Inoltre, il bottone sul marciapiede era troppo grande per un giubbotto, perciò in ogni caso non poteva essere della ragazza. Mi avviai verso lo Zlatno veslo. Feci tre passi, poi mi voltai. Il bottone era ancora lì. Tornato indietro, mi chinai per raccoglierlo e così mi accorsi di un piccolo segno, tracciato probabilmente con un pennarello: un triangolo inscritto in un cerchio, e al suo interno un altro triangolo, ma rovesciato. Rimisi il bottone al suo posto e mi rialzai. Non ci capivo niente, lo ammetto. Forse si trattava di un segnale, magari una qualche relazione con la ragazza ce l’aveva davvero, il problema era che il triangolo indicava tre direzioni diverse. Ben nascosto dal bottone, una volta allo scoperto quel triangolo indirizzava la mia attenzione contemporaneamente su via Zmaj Jovina, sulla Capitaneria e sulla strada che portava allo Zlatno veslo. Dato che la Zmaj Jovina e la Capitaneria le avevo già battute, non mi restava che la terza opzione. In realtà, quel locale non segnava la fine dell’ipotetico percorso della ragazza, sempre che si trattasse della direzione giusta, perché la via proseguiva, e oltre l’edificio dell’azienda elettrica conduceva fino ad alcuni palazzi di recente costruzione poco distanti dal punto in cui avevo visto la coppia. La vergogna, che senza dubbio lei provava, si cura solo con la solitudine, dunque se avesse abitato in uno di quei palazzi, Sanguisughe


non si sarebbe certo spinta fino all’altra estremità del lungofiume quando poteva semplicemente attraversare di corsa la strada e cercare rifugio a casa sua. A dirla tutta, era anche possibile che avesse svoltato a destra, accanto allo Zlatno veslo, per uscire poi sulla piazza da cui si arriva al mercato e al centro di Zemun, ma questo mi pareva un inutile allungamento del percorso, perché il centro poteva raggiungerlo più comodamente e velocemente imboccando le strade che si biforcavano dalla Capitaneria. Dentro al caffè, comunque, non c’era nessuno. La porta era chiusa, le vetrine nascoste dalle tende, gli scalini ricoperti di spazzatura. Per un attimo pensai che avrei dovuto sollevare ognuno di quei detriti per verificare se nascondeva qualche altro segnale, ma rinunciai quasi subito e me ne tornai a casa. Il giorno stava già per finire, a casa mi aspettava la stesura del pezzo che avevo promesso al direttore. Negli ultimi mesi scrivevo brevi saggi e commenti per il settimanale “Minut”, che rappresentavano, assieme a qualche traduzione letteraria, la mia unica fonte di reddito. Alcuni dei miei articoli avevano provocato reazioni tempestose da parte dei lettori, e ciò aveva stimolato il direttore ad aumentarmi progressivamente il compenso, soprattutto quando il dibattito scatenato dal mio testo sul saccheggio dei musei nazionali raggiunse il resto della stampa e persino alcuni programmi televisivi. La maggior parte di quello che scrivevo, questo va detto subito, non aveva un tono particolarmente pungente, e quel commento che mi aveva dato, tra virgolette, notorietà, era stato propiziato dalle confidenze di un mio buon amico impiegato in una delle gallerie saccheggiate. I ladri, si leggeva, non erano criminali che lavoravano per qualche ricco amante delle arti o per il mercato clandestino, ma personalità pubbliche che, grazie alle loro conoscenze, prendevano a prestito quadri e oggetti d’arte, e poi semplicemente si dimenticavano di restituirli. Nell’articolo citavo tutta una serie di personalità – attori, dirigenti di importanti aziende, membri dell’Accademia, politici e burocrati –, ed era stato questo, credo, ad attirare l’attenzione sulla mia rubrica, che prima non leggeva quasi nessuno. A chi potevano interessare i miei 12 13


strali sulla negligenza in campo ecologico, sull’assenza di investimenti in campo culturale, sugli ostacoli alla formazione di un’autentica mentalità urbana, sulla prevedibilità dei giudizi da parte delle giurie dei più importanti premi letterari? L’ elenco di persone pronte a impossessarsi di oggetti di proprietà altrui – proprietà, come sottolineavo nell’articolo, di tutti noi – era di gran lunga più avvincente. Del resto, anch’io ne ero contento, perché in seguito il direttore mi aveva aumentato il compenso, sebbene non fossi riuscito a trovare subito una storia analoga da pubblicare. Ma l’impegno a scrivere regolarmente i miei pezzi era rimasto e, come tutti gli impegni, si faceva sempre più pressante: all’inizio quei commenti li scrivevo in una quindicina di minuti, mentre ora, solo per il paragrafo introduttivo, mi serviva almeno un’ora. La maggior parte del tempo la passavo a fissare il tremolante schermo bianco del mio computer, cercando di evocare con un incantesimo ciò che avrei dovuto scrivere. Mi cavavo le frasi da dentro come denti con le tenaglie; poi mi arrabbiavo perché non riuscivo a collegarle fra di loro, e così il testo non appariva mai come un tutt’uno, bensì come un’accozzaglia di punti di vista, discordanti e spesso contraddittori. Quella sera, però, buttai giù il mio pezzo senza alcuna difficoltà. Mi sedetti, accesi il computer, avviai il programma di videoscrittura e, senza alcuna esitazione, cominciai a battere sui tasti. Dapprima non ero sicuro di quello che avrei scritto, poi però nominai il fango, il fiume e la riva, i ponti e il lungofiume, e conclusi criticando severamente la nostra mentalità, che per tradizione ci rende diffidenti nei confronti dell’acqua, e le autorità cittadine, che non ammettono che il Danubio e la Sava siano la spina dorsale della nostra città. Non si trattava di un argomento particolarmente originale, ma l’avevo esposto con una tale passione nel tono e nel ritmo delle frasi che il risultato mi sembrava piuttosto soddisfacente. Già il solo fatto di averlo completato con la stessa velocità con cui avevo scritto i miei primi articoli poteva essere una circostanza favorevole alla notorietà. Pensai quindi di rollarmi una canna, ma era ancora presto per l’hashish, perciò andai in cucina Sanguisughe


e mi versai un po’ di brandy. Fuori era completamente buio. Le luci della città si diffondevano al di là della strada, si riflettevano sui segnali stradali, per scomparire negli androni e nei portoni bui. Sarei forse dovuto andare di nuovo fino alla Capitaneria? Talvolta le cose si vedono meglio nell’oscurità che alla luce del giorno. Presi un foglio di carta, un vecchio compasso e un righello di plastica, e cominciai a disegnare il simbolo che avevo scoperto sotto il bottone. Con il compasso tracciai il cerchio, poi, senza modificare il raggio, segnai sulla circonferenza sei punti equidistanti, collegai quindi ogni secondo punto e ne ottenni un triangolo equilatero. Misurai i lati del triangolo e segnai il centro di ognuno, e quando unii quei punti ne ricavai un altro triangolo, orientato in direzione opposta rispetto al primo, con il vertice appoggiato alla sua base. Mi misi a fissare quella struttura geometrica, sorseggiando il brandy e scuotendo la testa. Anche se tutto ciò aveva un qualche significato, io non riuscivo a coglierlo. Inoltre, perché sarebbe dovuto finire lì? Nel triangolo interno era possibile tracciare un nuovo piccolo triangolo o un altro cerchio, e quelle aggiunte potevano, almeno in teoria, continuare all’infinito, senza che cambiasse nulla, ne ero sicuro. O forse dovevo essere meno sicuro, dubitare di più? Mi concentrai di nuovo sulla figura geometrica che avevo disegnato. Inserendo il triangolo minore in quello più grande, avevo dato vita a quattro piccoli triangoli uguali, e quando, in precedenza, avevo tracciato il triangolo nel cerchio, si erano formate tre lunette che ricordavano degli spicchi di mela. Le mie conoscenze matematiche erano sempre state molto scarse, ma forse in quelle combinazioni di forme geometriche, in quelle superfici o nei rapporti proporzionali si nascondeva qualche significato. Più ci pensavo e più mi convincevo che proprio nelle loro relazioni si trovava la spiegazione degli avvenimenti del lungofiume e della scomparsa della ragazza, e che, se ne avessi penetrato l’enigma, sarebbero state loro a condurmi fino alla sua soglia. Mi ricordai di Dragan Mišović, un mio compagno di liceo che aveva proseguito gli studi in matematica e che, come avevo sentito all’ultimo ritrovo di ex studenti, lavo14 15


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