Storie dell’immediato presente L’invenzione del modernismo architettonico
Introduzione
Quale influenza hanno avuto gli storici dell’architettura contemporanea sulla storia dell’architettura contemporanea? Reyner Banham, Il neobrutalismo
In questo libro mi occupo dei vari modi in cui gli storici dell’architettura, nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale, cominciarono a vagliare l’eredità delle avanguardie per tentare di giungere a un racconto coerente dello sviluppo del modernismo. Ricercando una visione unitaria della modernità dopo gli esperimenti eterogenei dell’avanguardia nel primo quarto del XX secolo, gli storici svolsero un ruolo decisivo definendo programmi, forme e stili del primo Novecento in modo tale da sottintendere possibili continuità con il presente. Gli ultimi anni hanno visto sempre più studi sulla storiografia del modernismo e sono stati inaugurati campi di indagine volti a stabilire quanto fosse utile considerare la storia come parte della storia che racconta. A me, invece, interessano i modi in cui le storie stesse del modernismo furono costruite, entro i rispettivi contesti, come programmi più o meno espliciti per la teoria e la pratica della progettazione. In altre parole, che le “origini” del modernismo venissero fatte risalire al periodo rinascimentale, barocco o revivalista, ogni genealogia, a sua volta basata su teorie storico-artistiche sullo stile, la società, lo spazio e la forma, proponeva un modo diverso di guardare al presente e alle sue potenzialità, e cioè ognuna, concepita com’era all’interno dei paradigmi dominanti dell’astrazione, poteva essere usata dagli architetti in cerca di un modo per affrontare le crisi sociali e culturali del dopoguerra senza perdere di vista i principi ispiratori dei primi modernisti. Negli ultimi decenni la storia dell’architettura è emersa come decisamente problematica per un’architettura che, almeno apparentemente, si è dedicata fin dai primi del Novecento a sospendere, se non a cancellare, qualsiasi riferimento storico, per lasciare spazio a un’astrazione universalizzata. Quel che Nikolaus Pevsner ha chiamato «il ritorno dello storicismo», Charles Jencks «postmodernismo», Manfredo Tafuri «ipermodernismo» ha dilagato nelle citazioni e negli appelli ripetuti all’autorità dell’architettura storica, presumendo che l’astrazione, il linguaggio del modernismo internazionale, non fosse mai stata accettata dal vasto pubblico e fosse in ogni caso essenzialmente antiumanistica. Introduzione
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Un simile revivalismo pose un problema agli storici e ai critici. Da un lato, gli storici tornavano a essere richiesti, come lo erano stati in epoca premodernista, per infondere autorità e profondità alla prassi corrente. L’idea di “tipo”, per fare un esempio emblematico – un’idea nata dal bisogno di ripensare le strategie di pianificazione “a tabula rasa” degli anni cinquanta e di rispettare la struttura interna, formale e sociale, delle città – fu fatta risalire alle sue radici teoriche settecentesche. Tale stato di cose modificò quella che era stata la questione dominante per gli storici nel periodo del Movimento Moderno avanzato. Laddove, a quell’epoca, la storia era considerata con grande sospetto in quanto potenziale messaggera di un revival stilistico, ora era sempre più radicata nei curricula e nei discorsi critici. Questa storia non era più la “storia” degli anni venti del Novecento, con la sua visione teleologica dell’astrazione moderna che superava gli “stili”: era al tempo stesso più accademicamente corretta secondo gli standard del sapere storico-artistico, e più ampiamente basata sugli studi interdisciplinari che la collegavano alle strategie interpretative dello strutturalismo e del poststrutturalismo. Nel mondo accademico il postmodernismo dei dibattiti intellettuali venne a convergere con il postmodernismo rilevato nella pratica architettonica; la teoria emerse come una disciplina quasi a se stante e, insieme alla storia nelle sue forme più responsabili, si staccò sempre più dalla progettazione. Per molti storici e critici, come Manfredo Tafuri, era così che doveva essere: quella che Tafuri chiamava la critica «operativa» era stata, secondo lui, di ostacolo fin dal XVII secolo alla visione spassionata dell’architettura che era richiesta allo storico autenticamente critico. Secondo questa linea, gli storici dovrebbero evitare di abbracciare qualsiasi tendenza particolare nell’architettura contemporanea. Per altri, invece, ciò significava l’abbandono da parte del critico del dovere sociale e politico di riversare sul presente l’intero peso dell’esperienza passata. Recentemente gli aspri dibattiti tra i cosiddetti modernisti e postmodernisti si sono un po’ attenuati, in favore di una generalizzata posizione “tardomoderna” che unisce espressione tecnologica e forma iconografica, ma per la storia, e quindi per gli storici, il problema rimane. Per dirla in breve, che cosa fa lo storico dell’architettura, non in quanto storico ma per gli architetti e l’architettura? O, in termini più teorici, che tipo di lavoro fa o dovrebbe fare la storia dell’architettura per l’architettura e, in particolare, per l’architettura contemporanea? Naturalmente è una variante della solita questione: qual è il “rapporto” tra storia e progettazione? La storia è utile? E se lo è, in che modo? Questa domanda è relativamente nuova; per gran parte della storia dell’architettura, la storia non è stata un problema per l’architettura – o meglio, anziché essere un “problema” di per sé, le domande che circondavano la storia sono state una soluzione per la disciplina. Dal Rinascimento fino alla metà dell’Ottocento, cioè dal momento in cui la tradizione medievale fu 10
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gradualmente ma consapevolmente sostituita dal revival storico dell’antichità, la storia fornì la materia stessa dell’architettura. A quel fine, più o meno senza eccezioni, lo storico fu l’architetto: da Alberti a Schinkel, fu responsabilità dell’architetto scrivere la storia che avrebbe autorizzato sia la pratica invalsa sia l’innovazione. L’opera incompiuta a cui Schinkel lavorò tutta la vita, Das architektonische Lehrbuch, fu forse l’ultima in questa serie di giustificazioni simil storiche della progettazione. L’emergere dello storico dell’architettura professionista, da James Fergusson, Jacob Burckhardt, Heinrich Wölfflin, Wilhelm Worringer e August Schmarsow fino a Paul Frankl, segnò lo sviluppo di una storia dell’arte eruditamente accademica, nata dalla revisione erudita della storia dell’architettura – fino a che il senso del “moderno”, alleato con un senso nascente di “astrazione” e di “forma”, e guidato da imperativi strutturali nuovi, non diede agli architetti una sensazione di rottura così completa con gli “stili storici” da far diventare sospetta la storia stessa. Naturalmente la storia non scomparve per il modernismo, anzi divenne ancora più essenziale per raggiungere almeno tre obiettivi: primo, per dimostrare la fondamentale antichità del vecchio modo di costruire; secondo, per raccontare la storia della preistoria del modernismo così come essa emergeva dal passato; infine, con l’aiuto di idee astratte di forma e spazio, per essere ridisegnata come un processo di invenzione ininterrotto e come un repertorio di mosse formali e spaziali. Per certi aspetti, questa condizione resistette solidamente per tutti gli anni quaranta e cinquanta, in particolare in ambito accademico, dove a storici come Bruno Zevi e Reyner Banham furono assegnate cattedre di Storia dell’architettura in scuole di architettura. Ma in quello stesso immediato dopoguerra ci si cominciò anche a chiedere con insistenza se la storia, tradizionale o modernista che fosse, continuasse a essere utile. Perché in quegli anni le energie, in larga misura non consapevoli, che avevano animato i modernisti di prima e seconda generazione furono a loro volta gradualmente soggette al processo inevitabile di storicizzazione. In effetti, come ha osservato Fredric Jameson, lo stesso “modernismo” in quanto concetto e ideologia – il modernismo nel senso in cui tendiamo a conoscerlo oggi – fu in gran parte il prodotto di quegli anni postbellici, quando critici e storici come Clement Greenberg stavano costruendo una versione coerente e sistematizzata del “modernismo”, fondata sulla loro interpretazione dell’arte da Manet a Pollock.1 Allo stesso modo, in architettura intorno alla metà degli anni cinquanta lo status della storia fu messo in dubbio e i suoi impieghi furono resi discutibili proprio dalla storia del Movimento Moderno che era stata scritta dai suoi storici – Pevsner, Hitchcock e Johnson, Giedion, per citarne alcuni. Una volta relegata allo status di “storia”, la stessa architettura moderna divenne suscettibile di accademizzazione e persino di revival. E fu il revival dell’architettura moderna come stile negli anni cinIntroduzione
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quanta e sessanta – ciò in cui i critici successivi avrebbero visto le prime avvisaglie di “postmodernismo” – a disturbare tanto gli storici e i critici che, come Sigfried Giedion e Nikolaus Pevsner negli anni trenta e quaranta, avevano tentato di scrivere la storia del modernismo in modo partigiano, quando non addirittura propagandistico. È questo il momento che voglio passare in esame, attraverso la lente di quattro dei suoi storici più incisivi. Infatti, credo che nei dibattiti sugli effetti della storia sulle pratiche che animarono la scena architettonica europea e statunitense in quei decenni possiamo cominciare a gettare le basi di un nostro pensiero sulla storia, sui suoi usi e abusi, come disse una volta Nietzsche. Banham fu uno dei primi a porre la domanda: «Quale influenza hanno avuto gli storici dell’architettura contemporanea sulla storia dell’architettura contemporanea?». Si rispose da solo, osservando: «Hanno creato l’idea di un movimento moderno […] e a parte questo hanno offerto una classificazione sommaria degli ismi in cui si riconosce il marchio della modernità».2 Le prime indagini accademiche sull’architettura moderna cominciarono ad apparire nei tardi anni venti. Der Moderne Zweckbau di Adolf Behne (1926), Die Baukunst der neuesten Zeit di Adolf Platz (1927), Bauen in Frankreich di Sigfried Giedion (1928) e Modern Architecture di Bruno Taut (1929), tra tante altre raccolte, inaugurarono il processo di raccolta delle prove e di sviluppo dei criteri della “modernità” su cui Modern Architecture: Romanticism and Reintegration di Henry-Russell Hitchcock (1929), Modern Building di Walter Curt Behrendt (1937), Pioneers of the Modern Movement di Nikolaus Pevsner (1936) e Space, Time and Architecture: The Growth of a New Tradition di Giedion (1941) poterono fondarsi per costruire una narrazione più o meno coerente di origine e sviluppo.3 Nonostante quasi tutte avessero un’avversione comune per il termine “storia”, in quanto ostile agli ideali moderni, queste narrazioni condivisero comunque, come ha dimostrato Panayotis Tournikiotis, un concetto di storia come forza determinante, in evoluzione, capace di articolare domande su passato, presente e futuro dell’architettura, e la fede in un qualche spirito del tempo socioculturale che, se identificato correttamente, parimenti determina la rispettiva “modernità” o non modernità dell’opera.4 La storia poteva anche condurre l’architettura alla modernità, ma una volta giunta là doveva essere dismessa, come gli “stili” denigrati da Le Corbusier in Vers une architecture [Verso un’architettura, 1966].5 Si trattava inoltre di narrazioni estremamente parziali, le cui genealogie si sviluppavano da momenti del passato che gli autori giudicavano punti di partenza capaci di giustificare le pratiche contemporanee specifiche da loro sostenute o ammirate. Ecco quindi Hitchcock, in Romanticismo e reintegrazione, cercare le radici della sua amata «tradizione nuova» nel tardo Settecento, turbato e insieme eccitato dall’opera dei «nuovi pionieri» che secondo lui stavano superando, ma anche distur12
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Copertine e frontespizi di alcune edizioni delle prime indagini accademiche sull’architettura moderna.
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bando, il razionalismo di Frank Lloyd Wright, Otto Wagner, Peter Behrens e Auguste Perret. Pevsner, in I pionieri dell’architettura moderna, si concentrò sui rapporti tra Gran Bretagna e Germania, individuando le origini del funzionalismo razionale di Gropius nel movimento Arts and Crafts e convenientemente ignorando il contributo francese, mentre Giedion, in Spazio, tempo e architettura, cita Mies van der Rohe solo di sfuggita, preferendo saltare direttamente dal movimento barocco a quello racchiuso nelle ville di Le Corbusier degli anni venti. Quali che fossero le loro parzialità, però, queste opere pionieristiche riuscirono in ciò che più di ogni altra cosa spaventava gli stessi architetti moderni: storicizzare il modernismo. In effetti, nel 1940 l’architettura moderna era già entrata completamente a far parte del canone della storia dell’arte e le era stato assegnato un posto nella storia degli “stili”. Laddove un tempo Le Corbusier aveva decretato la fine degli “stili” e Mies van der Rohe aveva respinto la storia dell’arte accademica in favore di un’«arte del costruire», ora Hitchcock stava riscrivendo l’intera storia degli stili dell’architettura per definire quello che chiamò un «International Style modellato sulla diffusione del gotico nel XII secolo»; Pevsner stava tracciando una linea temporale intorno a qualcosa di identificabile, chiamato «Movimento Moderno», e Giedion stava articolando i rapporti e gli sviluppi storici che univano una visione moderna agli stili precedenti. Non importa se l’inizio dell’architettura moderna veniva fatto alternativamente risalire al barocco, al classicismo, al neoclassicismo, all’eclettismo ottocentesco o al revivalismo Arts and Crafts: si erano aperte le cateratte per una miriade di narrazioni contrastanti, per una varietà di modernismi storicamente fondati e per numerose versioni di una possibile “unità” di stile che caratterizzava il “moderno”. Un simile ampliamento dei riferimenti e delle radici storiche, inoltre, fece sì che la storia dell’architettura moderna dipendesse dagli storici di altre epoche quanto dai propri specialisti: così come la modernità era stata definita, i suoi antecedenti risultavano isolati – e viceversa, consentendo agli storici del Rinascimento, del barocco, dei periodi recentemente definiti manierista e neoclassico di fare riferimento alle tendenze contemporanee, se non di definire i propri “stili” in risposta, consapevole o meno, alle tendenze contemporanee. Ciò che infatti univa tutte queste analisi storiche della modernità a ogni altra opera storica sull’architettura era la base comune di un metodo emerso verso la fine dell’Ottocento, un metodo che non faceva tanto affidamento sull’identificazione di motivi “stilistici”, quanto sulla comparazione di forme – masse, volumi, superfici – in astratto. A cominciare da Alois Riegl, con la sua interpretazione formale dell’ornamento e la storia concettuale della visione spaziale, continuando con Heinrich Wölfflin e la sua analisi psicologica della forma unita agli studi sul periodo del Rinascimento e del barocco, fino a culminare nella costruzione 14
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spaziale della storia realizzata da August Schmarsow, l’architettura di ogni epoca è stata vista come una serie di combinazioni formali-spaziali tipiche, ciascuna delle quali legata a “volontà” o “pulsioni” epocali specifiche e comparabile alla successiva nell’ambito di una storia naturale di trasformazioni morfologiche.6 Ciò che per storici dell’arte come Bernard Berenson e Aby Warburg fu rappresentato gli indizi racchiusi nella forma di un orecchio o nei movimenti di una tenda, per gli storici dell’architettura fu rappresentato dalla forma dello spazio. Una storia del genere, che si autodefinisce più una storia dello spazio che una storia dello stile, non fu solo commensurata alle aspirazioni del modernismo stesso, ma cominciò a definire un approccio proprio di una storia architettonica man mano che questa andò sviluppando la sua identità di disciplina a partire dalla storia dell’arte in generale. Mentre per Burckhardt e per Wölfflin la storia dell’architettura era parte integrante della storia dell’arte, se non un oggetto fondante e costruttivo dello studio di quest’ultima, con l’emergere dell’analisi spaziale le caratteristiche tridimensionali dell’architettura cominciarono a porla in una posizione a sé, prima rispetto alle forme visive e bidimensionali della pittura, poi rispetto alla ricezione, ugualmente visiva ma anche empaticamente tattile, della scultura come la studiava Adolf von Hildebrand.7 Fu così che Paul Frankl, nel suo studio del 1914 sulle fasi di sviluppo del costruire moderno, si propose di articolare un metodo analitico specifico per l’architettura, basato sull’identificazione della forma spaziale declinata dalla struttura, dal movimento e dall’uso.8 Le sue categorie di forma spaziale (Raumform), forma corporea (Körperform), forma visibile (Bildform) e intenzione voluta (Zweckgesinnung) furono poi calibrate una rispetto all’altra in ordine cronologico in base a quattro fasi di “sviluppo”: Rinascimento, barocco, rococò e neoclassicismo. Ma Frankl tentò anche – ed è forse ciò che più conta ai fini del nostro discorso – di mettere a punto degli innovativi diagrammi dell’organizzazione spaziale. Gli storici avevano spesso descritto dei diagrammi “virtuali” dello sviluppo temporale della storia, gli storici dell’architettura come James Fergusson e César Daly avevano raffigurato il procedere del tempo in forma diagrammatica e gli storici della struttura da Viollet-le-Duc a Auguste Choisy avevano scelto la proiezione assonometrica per presentare pianta, sezione e forma volumetrica simultaneamente, ma prima di Frankl nessuno storico aveva concepito una tassonomia comparativa degli spazi sotto forma di diagramma, con le unità separate, il ritmo delle loro campate strutturali, le interconnessioni e i reciproci movimenti potenziali uniti in un unico compendio semplificato dell’edificio. Questa tassonomia si differenziava dalle presentazioni del Settecento e dell’Ottocento di raffronto tra tipi, come per esempio le piante comparate di edifici religiosi di Julien-David Le Roy o il più esaustivo “parallelo” storico di Jean-Nicolas-Louis Durand, per il fatto che le nozioni di distribuzione e di carattere alla base Introduzione
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P. Frankl, diagrammi dell’organizzazione spaziale di chiese a pianta centrale della prima fase di “sviluppo” del costruire moderno (disegni a scale differenti).
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di questi primi confronti erano direttamente collegate alla forma e all’effetto della pianta. Frankl, invece, stava lavorando con un’idea di dinamica spaziale derivante dalla psicologia di Robert Vischer,9 dagli studi spaziali sul barocco di August Schmarsow, dalle interpretazioni psicologiche di Wölfflin e, più avanti, dalle scoperte degli psicologi della Gestalt. Per Frankl lo spazio aveva un suo rapporto distinto con il movimento e le relazioni tra le varie unità spaziali erano dotate di ritmi e flussi propri. Tracciare in forma diagrammatica tali rapporti significherebbe fermare le caratteristiche formali essenziali dell’oggetto nella sua collocazione storica e, attraverso l’analisi comparata, tracciare i passaggi tra una fase dello sviluppo architettonico e la successiva. Tramite Frankl la storia dell’architettura giunse a una sua forma peculiare di rappresentazione, una forma che ricercava un diagramma in ciascun momento temporale e che fu facilmente ripresa dagli stessi architetti, intenti a incorporare la storia nei loro progetti più astratti.10 In questo sviluppo, che potremmo chiamare “diagrammare” la storia, si riconosce l’influsso reciproco dell’astrazione, che si affaccia come forza nell’arte e nell’architettura, e dell’esplorazione di metodi più “scientifici” interni alla storia dell’arte. Mentre l’architettura moderna desidera scrollarsi di dosso l’eclettismo stilistico del XIX secolo, la storia dell’arte moderna favorisce una modalità di analisi antistilistica che accentua la percezione, l’esperienza e l’effetto psicologico da un lato, e gli attributi formali fondamentali dall’altro. Da questo punto di vista, Die Entwicklungsphasen der neueren Baukunst di Frankl (1914) appare come l’equivalente architettonico di Kunstgeschichtliche Grundbegriffe di Wölfflin (1915) – un legame sottolineato dal titolo della successiva edizione inglese del libro di Frankl: Principles of Architectural History.11 Considerato l’interesse della prima generazione degli storici dell’architettura per il Rinascimento, non è un caso che le prime storie del modernismo fossero scritte da storici che avevano seguito Riegl e Wölfflin nell’esplorare il nuovo territorio del barocco e la sua estensione apparente nel periodo moderno. Wölfflin aveva già dimostrato di non amare il barocco, che considerava il primo segnale della disseminazione nello spazio tipica del periodo moderno: «Non si può misconoscere quanto il nostro tempo sia affine al barocco italiano – almeno in certi fenomeni. Sono gli stessi slanci passionali a costituire gli effetti di Richard Wagner».12 Respingendo il rifiuto opposto da Wölfflin al barocco in quanto «arte senza forma», Giedion, nella sua tesi intitolata Spätbarocker und romantischer Klassicismus (1922) – un’opera che, pur riprendendo l’essenza di Romanticismo e reintregrazione di Hitchcock aveva un debito metodologico verso Spätrömische Kunstindustrie di Riegl, del 1901 –, cominciò a riempire il vuoto lasciato da Wölfflin tra il barocco e il moderno. Il primo libro di Pevsner, una minuziosa storia del barocco di Lipsia pubblicata nel 1928 sulla base della tesi da lui discussa
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all’Università di Lipsia nel 1924 sotto la guida di Wilhelm Pinder, aveva un chiaro debito nei confronti degli studi sull’architettura barocca e rococò di Schmarsow.13 I suoi studi successivi sul manierismo e il pittoresco furono direttamente legati alla convinzione che tali stili prefigurassero il modernismo. Emil Kaufmann, allievo di Riegl e Dvořák, elaborò la sua concezione di una “rivoluzione” in architettura avvenuta intorno al 1800 sulla base della convinzione che la generazione di Ledoux e Boullée avesse anticipato il modernismo di Loos, Le Corbusier e Neutra. L’emigrazione forzata degli studiosi tedeschi e austriaci negli anni trenta portò queste discussioni all’attenzione del pubblico britannico e statunitense, infondendo un senso di legittimità storica a un Movimento Moderno fino a quel momento confinato perlopiù all’Europa continentale. Emil Kaufmann trascorse un breve periodo in Inghilterra prima di trasferirsi negli Stati Uniti nel 1940; Nikolaus Pevsner abitò in Inghilterra dal 1933; Rudolf Wittkower si trasferì a Londra nel 1934 per entrare a far parte del Warburg Institute, da poco ricreato lì dopo l’abbandono di Amburgo: questi studiosi e altri, che entrarono ben presto a far parte della cultura intellettuale dei Paesi ospitanti, avrebbero fornito lo stimolo per una rivalutazione completa della storia modernista dopo il 1945, quando raggiunsero un bacino di lettori anglofoni fino ad allora inaccessibile. Emil Kaufmann, ospite di Philip Johnson e della neonata Society of Architectural Historians di Boston, inaugurò un decennio di ricerche e pubblicazioni sul neoclassicismo, le sue radici e i suoi echi nel presente; Nikolaus Pevsner trasferì dalla Germania all’Inghilterra il suo approccio alla cultura nazionale fondato sullo spirito del tempo e divenne una voce importante della cultura architettonica dell’epoca ricoprendo il ruolo, dopo il 1941, di direttore della “Architectural Review”; Rudolf Wit tkower, pubblicando dal 1946 i suoi studi palladiani sul “Journal of the Warburg Institute” cominciò ad attirare l’attenzione di un gruppo di architetti più giovani, interessati a riformulare i principi di un modernismo distinto nel suo approccio sociale e formale dalla teoria e dalla pratica anteguerra, dominate dai CIAM (Congrès Internationaux d’Architecture Moderne). Il progenitore misconosciuto di questa rivalutazione della storia moderna fu Emil Kaufmann. Mettendo in relazione i progetti pseudoastratti di Ledoux e Boullée con i principi dell’Illuminismo nel suo Von Ledoux bis Le Corbusier del 1933 [Da Ledoux a Le Corbusier, 1973], Kaufmann diede spessore all’idea di modernismo che piacque a quanti desideravano rivendicare l’eredità di Le Corbusier ma erano costretti a ricercare nuove fonti per il razionalismo alla luce dell’apparente tradimento di quest’ultimo nell’opera postbellica a Ronchamp. L’influsso di Kaufmann toccò in un primo momento Philip Johnson (nei primi anni quaranta), dotando di sfumature neoclassiche l’interpretazione di Mies compiuta dallo stesso Johnson; più tardi, con la pubblicazione postuma di Architecture in the Age of Reason (1954) [L’architetIntroduzione
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tura dell’Illuminismo, 1966], Kaufmann si conquistò un pubblico in Gran Bretagna e in Italia, in particolare Colin Rowe e Aldo Rossi. Lo stesso Rowe fu particolarmente aperto alla tesi di Kaufmann, dato che nel 1947 aveva seguito il suo maestro, Wittkower, nell’anticipare ancora di più le origini del modernismo, arretrandole fino al periodo manierista con l’accentuazione della continuità della tradizione nell’ordine matematico e nella composizione manierista. Rowe esercitò una profonda influenza sui suoi contemporanei, da Alan Colquhoun a James Stirling. Nello stesso periodo Reyner Banham, tentando di superare il suo stesso maestro Pevsner, propose il primo giudizio erudito dell’architettura moderna in una sorta di continuazione dei Pionieri di Pevsner, occupandosi di quella che chiamò la «zona del silenzio» compresa tra il 1914 e il 1939. Con il senno di poi, è paradossale che il neopalladianesimo modernizzato di Rowe, inizialmente ripreso con entusiasmo dai “neobrutalisti”, dovesse poi emergere come uno dei fondamenti dell’idea antimoderna del neobrutalismo espressa dallo stesso Banham – una posizione poi respinta in favore della conclusione secondo cui il Movimento Moderno aveva fallito nelle sue aspirazioni tecnologiche. Le storie del modernismo messe a punto in questo modo poggiarono senza dubbio su basi metodologiche e spesso archivistiche più ampie e più profonde rispetto a quelle dei predecessori, grazie alla maggiore distanza e all’impiego di fonti primarie. I loro obiettivi, però, e nemmeno tanto nascosti, puntavano ancora in vario modo verso la pratica contemporanea. L’Illuminismo di Kaufmann era una chiara favola moraleggiante per un Movimento Moderno rinnovato e in un momento di grave reazione sociale in Germania e Austria; il manierismo moderno di Rowe aprì la porta a svariati esperimenti formali e semiotici che un po’ alla volta spostarono il tema della discussione dal moderno al postmoderno; l’ottimismo tecnologico di Banham e il suo invito a une architecture autre furono di aiuto a brutalisti, metabolisti e neofuturisti. Da questo punto di vista, gli allievi della prima generazione di storici modernisti si impegnarono nel proselitismo quanto i loro maestri: da Pevsner e Giedion fino a Rowe e Banham, forse cambiarono gli oggetti dell’entusiasmo, ma non il messaggio. La storia era al tempo stesso fonte, conferma e autorizzazione. Tra i primi a criticare questo uso “strumentale” della storia fu Manfredo Tafuri, il quale, formatosi come architetto e urbanista, aveva cominciato la sua carriera di storico con una valutazione dello stato attuale della storiografia moderna. Pubblicato nel 1968, il suo saggio Teorie e storia dell’architettura riconobbe il profondo “antistoricismo” delle avanguardie moderniste e tentò di distinguere tra le sfere della critica, della teoria e della storia in modo da proteggere la storia dalla collusione con la pratica.14 La sua critica era rivolta proprio agli storici – Giedion, Zevi, Banham – che avevano considerato la storia come un mezzo fondamentale per attribuire significato all’architettura e avevano 18
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«[letto] nell’architettura tardo-antica le premesse di Wright o di Kahn, nel manierismo quelle dell’espressionismo o del momento presente, nelle testimonianze preistoriche quelle dell’organicismo o di alcune esperienze “informali”».15 Qui, nel rifiuto rigoroso di quanti si atteggiavano a “vestali” del movimento e nell’insistere sulla storicizzazione degli strumenti degli stessi critici, Tafuri tentava una demitologizzazione della storia, totale quanto lo era stata quella rivendicata dal suo mentore intellettuale Max Weber all’inizio del Novecento. La sua continua ricerca di metodi di analisi mutuati dallo strutturalismo, dalla psicoanalisi, dalla semiologia e dal poststrutturalismo creò, tuttavia, un “effetto teoria” che si rivelò in grado di esercitare sugli architetti un fascino potente quanto i riferimenti storici, ma apparentemente al riparo dalle insidie dell’eclettismo grazie all’autorità “scientifica”. Nei capitoli seguenti prenderò in esame gli approcci storici di questi quattro storici e critici modernisti: Emil Kaufmann, Colin Rowe, Reyner Banham e Manfredo Tafuri. Ciascuno di loro sarà considerato nel contesto della propria formazione intellettuale, della natura specifica del “modernismo” proposto dalla sua narrazione storica, e dell’influenza di tali modelli sulla pratica. Anziché tentare una disamina complessiva della vita e dell’opera di ciascuno storico, ho preferito concentrarmi su un momento specifico o su uno specifico insieme di scritti che mettessero bene a fuoco tali questioni, e in particolare sul periodo tra il 1945 e il 1975, un periodo di dibattiti particolarmente intensi sul ruolo della storia nella pratica e nell’insegnamento dell’architettura. Ognuna di queste diverse storie immaginò il modernismo in una forma profondamente complice dell’“origine” che proponeva. Il modernismo concepito da Kaufmann fu caratterizzato, come i progetti tardoilluministici da lui selezionati, da forme pure, geometriche e da una composizione per elementi; quello di Rowe riconobbe ambiguità e complessità manieriste nelle conformazioni sia dello spazio sia delle superfici; quello di Banham prese spunto dalle aspirazioni tecnologiche dei futuristi, ma con l’ulteriore richiesta di vederle giungere a realizzazione; quello di Tafuri trovò la sua fonte nella divisione in apparenza fatale tra esperimento tecnico e nostalgia culturale, rappresentati rispettivamente da Brunelleschi e Alberti. Inevitabilmente, ciascuno di loro generò una propria versione del “moderno” contemporaneo e ciascuno sostenne, spesso senza accorgersene, un elenco scelto di architetti approvati. Nella conclusione pongo una domanda più generale: dobbiamo riconoscere nel fatto che gli architetti della seconda metà del XX secolo abbiano continuato a fare affidamento sulla storia la fase apparentemente nuova che in genere va sotto il nome di “postmodernismo”, oppure il modernismo nella sua totalità, fin dal principio, covò la propria critica spazio-entropica all’interno di quello che dagli anni sessanta dell’Ottocento conosciamo come pensiero della postistoria, un senso di stasi e di fine corrispondente al neofinalismo della biologia postdarwiniana? Introduzione
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In questa indagine, dunque, non spero di dimostrare né l’effetto pernicioso della storia sulla progettazione né la necessità di separare le due cose in maniera radicale, ma piuttosto la loro collusione inevitabile, una collusione che pervade tutto il discorso architettonico moderno e che ha dato adito ad alcuni degli esperimenti architettonici più interessanti del dopoguerra, compresa la Glass House di Johnson, la Staatsgalerie di Stirling, la Living City di Archigram, la Città Analoga di Rossi e, più di recente, la Kunsthalle di Koolhaas e le Houses I-XI di Eisenman, per fare solo alcuni esempi.
NOTE 1 F. Jameson, A Singular Modernity: Essay on the Ontology of the Present, trad. it. Una modernità singolare: saggio sull’ontologia del presente, Sansoni, Milano 2003, p. 180. Jameson definisce Greenberg come «il teorico che, più di ogni altro, può essere accreditato come inventore dell’ideologia del modernismo in tutto il suo splendore» (Ibid.). 2 R. Banham, The New Brutalism, in “The Architectural Review”, 118, n. 708, dicembre 1955, trad. it. Il neobrutalismo, in Id., Architettura della seconda età della macchina, a c. di M. Biraghi, Electa, Milano 2004, p. 28. 3 A. Behne, Der moderne Zweckbau, trad. it. L’architettura funzionale, Vallecchi, Firenze 1969; G.A. Platz, Die Baukunst der neuesten Zeit, Propyläen Verlag, Berlin 1927; S. Giedion, Bauen in Frankreich, Bauen in Eisen, Bauen in Eisenbeton, Klinkhardt & Biermann, Leipzig 1928; B. Taut, Modern Architecture, The Studio, London 1929; W.C. Behrendt, Modern Building: Its Nature, Problems, and Forms, trad. it. Il costruire moderno: natura, problemi e forme, Compositori, Bologna 2007; H.-R. Hitchcock, Modern Architecture: Romanticism and Reintegration, trad. it. L’architettura moderna: romanticismo e reintegrazione, Compositori, Bologna 2008; N. Pevsner, Pioneers of the Modern Movement from William Morris to Walter Gropius, trad. it. I pionieri dell’architettura moderna: da William Morris a Walter Gropius, Garzanti, Milano 1999; S. Giedion, Space, Time and Architecture: The Growth of a New Tradition, trad. it. Spazio, tempo e architettura: lo sviluppo di una nuova tradizione, Hoepli, Milano 1965. 4 Cfr. l’ottima analisi di P. Tournikiotis, The Historiography of Modern Architecture, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1999, che dovrà essere la base per qualsiasi studio serio delle opere di Pevsner, Zevi, Benevolo, Hitchcock, Collins e Tafuri. Influenzato dallo strutturalismo semiotico della sua relatrice Françoise Choay, Tournikiotis restringe la sua analisi al confronto strutturale fra testi chiave, rimuovendo deliberatamente qualsiasi discussione sul contesto o sugli autori, nella convinzione che «il contesto […] e le personalità […] non hanno nulla da dirci sulla natura del discorso scritto in sé» (pp. 5-6). Il presente lavoro, tuttavia, studia tali relazioni in modo specifico, intendendo la scrittura della storia, sia essa o meno sotto le spoglie dell’oggettività, come qualcosa che formi una pratica immersa nella teoria e nella progettazione dell’architettura in qualsiasi momento, all’interno di una pratica generale che, in quanto abbraccia tutti gli aspetti del campo architettonico, si potrebbe propriamente chiamare il suo “discorso”. Un’introduzione meno “strutturalista” e analitica a questo campo è D. Porphyrios (a c. di), On the Methodology of Architectural History, numero speciale di “Architectural Design”, 51, n. 7, 1981, che, con la sua gamma di saggi critici scritti da storici su altri storici, fotografa in maniera significativa questo settore nei tardi anni settanta. 5 Il primo libro ad avere la parola “storia” nel titolo fu in effetti Storia dell’architettura moderna di Bruno Zevi (Einaudi, Torino 1950); il primo in inglese fu A History of Modern Architecture di Jürgen Joedicke, tradotto da James Palmes (Architectural Press, London 1959) dall’originale Geschichte der modernen Architektur: Synthese aus Form, Funktion und Konstruktion, Gerd Hatje, Stuttgart 1958. È interessante notare come entrambi siano riflessioni postbelliche su una modernità già nel passato e soggetta a una seria critica – uno scritto in esilio negli Stati Uniti e ad Harvard, dove l’International Style era già accademizzato, l’altro in Germania sulle rovine 20
Storie dell’immediato presente
delle più buie follie della modernità. Entrambi, però, furono opera di autori che tentarono di salvare gli ideali e le premesse formali del modernismo per poggiarli su nuove basi democratiche. 6 A. Riegl, Stilfragen: Grundlegungen zu einer Geschichte der Ornamentik, trad. it. Problemi di stile: fondamenti di una storia dell’arte ornamentale, Feltrinelli, Milano 1963, e Id., Die spätrömische Kunst-Industrie nach den Funden in ÖsterreichUngarn im Zusammenhange mit der Gesammtentwicklung der bildenden Künste bei den Mittelmeervölkern, trad. it. Industria artistica tardoromana, Sansoni, Firenze 1983 [1953]; H. Wölfflin, Prolegomena zu einer Psychologie des Architektur, trad. it. Psicologia dell’architettura, Abscondita, Milano 2010, e Id., Renaissance und Barock: Eine Untersuchung über Wesen und Entstehung des Barockstils in Italien, trad. it. Rinascimento e Barocco, Abscondita, Milano 2010; A. Schmarsow, Das Wesen des architektonischen Schöpfung, Karl W. Hiersemann, Leipzig 1894. 7 A. von Hildebrand, Das Problem der Form in der bildenden Kunst, trad. it. Il problema della forma, TEA, Milano 1996. 8 P. Frankl, Die Entwicklungsphasen der neueren Baukunst, Verlag B.G. Teubner, Stuttgart 1914. 9 R. Vischer, Über das optische Formgefühl: Ein Beitrag zur Aesthetik, Hermann Credner, Leipzig 1873. 10 Cfr. H.F. Mallgrave e E. Ikonomou, Introduzione, in Aa. Vv., Empathy, Form and Space: Problems in German Aesthetics, 1873-1893, The Getty center for the history of artland and humanities, Santa Monica 1994, pp. 1-85; e M. Podro, The Critical Historians of Art, Yale University Press, New Haven 1982. 11 P. Frankl, Principles of Architectural History: The Four Phases of Architectural Style, 1420-1900, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1968. Il nuovo titolo è un riferimento evidente alla traduzione inglese di Kunstgeschichtliche Grundbegriffe di Wölfflin, pubblicato con il titolo di Principles of Art History (Concetti fondamentali della storia dell’arte, Neri Pozza, Vicenza 1999). 12 H. Wölfflin, Rinascimento e Barocco, cit., p. 98. 13 N. Pevsner, Leipziger Barock: Die Baukunst der Barockzeit in Leipzig, Wolfgang Jess, Dresden 1928. Nella prefazione Pevsner ringrazia «Wilhelm Pinder und Franz Studniczka, Rudolf Kautzsch und Leo Bruhns, denen ich vielleicht, wenn auch nicht mehr auf Grund persönlich genossener Ausbildung, so doch auf Grund seiner für die ganze wissenschaftliche Methode dieses Buches vorbildlichen Arbeiten über das Wesen des Barockstiles, August Schmarsow anfügen darf», e cita Barock und Rokoko: Eine kritische Auseinandersetzung über das malerische in der Architektur di August Schmarsow (S. Hirzel, Leipzig 1897), il secondo volume di Beiträge zur Aesthetik der bildenden Künstei dello stesso Schmarsow. 14 M. Tafuri, Teorie e storia dell’architettura, Laterza, Bari 1968 [3a ed. 1973]. 15 Ivi, p. 266. La versione inglese della quarta edizione di Teorie e storia (1976), tradotta da Giorgio Verrecchia e con una prefazione di Dennis Sharp (Granada Publishing, London 1980) è totalmente inaffidabile, zeppa di omissioni ed errori. Il brano citato è un buon esempio, infatti trasforma le «esperienze informali», legate quindi agli esperimenti delle avanguardie con l’informe e messe in relazione con le architetture preistoriche, in un assurdo some abstract experiences.
Introduzione
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