Volga, Volga

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Miljenko Jergović

Volga, Volga Traduzione di Ljiljana Avirović



A Senad, un tempo



Sotto l’ Albero di Zakum

Mi chiamo Dželal Pljevljak. Da trentacinque anni lavoro nell’esercito come civile. Il colonnello Uzelac mi ha chiamato ieri nel suo ufficio e mi ha offerto un caffè chiedendomi se volevo andare in pensione. Gli anni di servizio me li calcolano come se fossi un ufficiale in servizio, alfiere di prima classe, e come tale già da tempo dovrei essere in pensione. Puoi andartene nel Sangiaccato, al tuo villaggio, stare seduto tranquillo davanti a casa a guardare il tuo pruneto e godertela. Mi ha detto così, osservandomi di sottecchi, per sentire cosa avrei risposto. Dico: io non ho un pruneto, compagno colonnello, non ho neppure la casa, l’ho lasciata a mio fratello Ragib, che si è trasferito tre anni fa, lasciando la casa ai figli. Sono più di vent’anni che non li vedo, da quando non vado nel Sangiaccato, sicché ormai, oltre a non avere una casa e un pruneto, penso di non aver più nemmeno il Sangiaccato. Lui mi guarda e scuote la testa come se avesse di fronte un malato grave. Allora, compaesano, cosa faremo con te, mi ha detto sbatacchiando la stilografica sul mio dossier, mentre l’inchiostro vi gocciolava sopra. Le gocce si sparpagliavano sul libretto di lavoro e sul documento contenente la mia valutazione, chiuso con il sigillo del maggiore Terzić, che avevo portato da Baška Voda quindici anni or sono ignorandone il contenuto, come prescritto. Ora osservo l’inchiostro che gocciola sulla carta scritta, si spande, così che nessuno sarà più in grado di leggerla. 7


Dovrei essere indifferente, ma non lo sono. Vorrei chiedere al colonnello di non scuotere più la penna, di smettere di picchiettarla, ma non posso, non si fa, allora osservo quella punta dorata e spero che lui si accorga dei miei sguardi e la pianti. Allora, cosa dobbiamo fare?, mi chiede. Se solo fosse possibile, gli risponderei, mi lasci lavorare ancora un anno. Però, a patto che entro la primavera tu ti sistemi, te ne vada nel Sangiaccato, dai tuoi nipoti, dicendo loro come stanno le cose, che ti diano un pezzo di terra affinché tu ti costruisca una casa e pianti il pruneto. Così che l’anno prossimo, in questa stagione o giù di lì, tu possa entrare nella casa e aspettare la primavera potando per la prima volta i giovani alberi di pruno. Mi hai capito Dželal? Dico: sì, ho capito e la ringrazio, non lo scorderò mai. Non devi nemmeno scordarlo, devi invece ricordarlo. Se non lo ricorderai tu, se ne va tutto quanto a quel paese, la gente è impazzita, dimentica ogni cosa, dimenticherà quello che è successo e quello che non deve succedere. Così mi ha parlato, e io mi sono alzato avviandomi verso la porta. Cosa fai ora?, mi ha chiesto prima che uscissi. Nulla, ho risposto, domani sarà venerdì. Ed è Capodanno. Allora, buon anno, Dželal! Anche a Lei, colonnello. Così ci siamo lasciati. Ormai è il terzo anno che andiamo avanti con la stessa discussione. Il colonnello Uzelac sostiene che è giunta l’ora di andare in pensione. Mi chiede del pruneto e della casa nel Sangiaccato e io, per non mentire, gli rispondo onestamente che non possiedo nulla. Lui scuote la testa come se io fossi un malato grave e mi regala un altro anno, ma devi impiegarlo, mi dice, per costruire la casa e piantare il pruneto. Lo guardo e penso tra me e me, si sarà dimenticato di quello che mi aveva detto l’anno scorso, oppure fa finta d’averlo scordato. Sarei più contento se lui facesse soltanto finta, perché se non è così, allora è chiaro che l’ho ingannato e in Volga, Volga


questi anni ho commesso peccato. Non saprò mai qual è la verità. È mattina presto, ore sei, ancora non albeggia e io devo avviarmi in strada. Scendo nel garage, il portone sa di baccalà e piscio umano, dietro qualche porta si sente della musica, dietro un’altra c’è un uomo che russa. Qualcuno ha vomitato proprio accanto al portone. È la gioventù, i genitori li lasciano uscire e festeggiare con gli amici per la prima volta, e loro che fanno?, si ubriacano come se non ci fosse un domani. Così penso a quella gioventù per non pensare ad altro. La serratura è arrugginita, vedrai che la chiave si spezzerà e ci resterà dentro, mi dico. Sarebbe bene cambiarla una buona volta. Così penso ogni venerdì, e già il sabato non me ne ricordo più. Fino a che la chiave non si sarà spezzata. Nella penombra la Volga luccica come un pianoforte. La guardo e penso a quanto è bella, mentre mi viene in mente il pianoforte del Comando dell’esercito di Sebenico, era l’anno 1969, il Centro di comunicazione doveva traslocare e così mi avevano chiamato a dare una mano, aspettavamo un capitano, uno sloveno, si chiamava Mitja Kalc, e mentre noi stavamo lì ad aspettarlo, un militare si mise seduto dietro quel pianoforte e senza nemmeno chiedere il permesso cominciò a suonare. Il militare era di Belgrado, biondo come una palačinka, esile, non mi ricorderei di lui se quella volta non avesse suonato. Ehheei! Ci voleva un bel coraggio davanti ai superiori! Non so cosa si fosse messo a suonare, non m’intendo di musica, ma smise molto presto. Nessuno aveva aperto bocca, ma un minuto dopo, forse anche meno, si alzò, chiuse quel coperchio, e la cosa finì lì. Sono grato a quel militare, solo il buon Dio sa cosa ne è di lui oggi, avrà trovato la sua strada nella vita oppure suonerà da qualche parte nei caffè. Mi ha 8

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lasciato il ricordo di quella giornata. Se non ci fosse stato lui, avrei anche dimenticato che stavamo aspettando il capitano Kalc, che eravamo nella Casa dell’Armata, che eravamo a Sebenico, e forse non ricorderei neppure che il Centro di comunicazione doveva traslocare. Se non ci fosse stato quel militare, quel giorno sarebbe trascorso come se non l’avessi mai vissuto. È una gran cosa quando, senza volere, una persona qualsiasi ti salva un giorno di vita. Ecco, per esempio, ora non saprei dire di che tonalità è il nero della mia Volga. L’avrei osservata stamattina, ma di certo mi sarebbe mancato qualcosa se non ci fosse stato quel pianoforte. La sera prima avevo svuotato il portabagagli, tirato fuori tutto quello che non serviva, quello che si era raccolto nei due anni passati. E di cose inutili ce n’erano molte, come ce ne sono in soffitta o in cantina, per quanto uno stia attento. È vero che non la lavavo spesso la Volga, neppure la mettevo spesso in ordine, l’avrò fatto forse una diecina di volte, non di più, ma in ogni caso ora sarebbe lo stesso. Sono nel garage, ho lasciato sullo sgabello anche il diario di bordo del povero generale Karamujić: un quaderno di scuola con la copertina rigida di colore rosso sul quale lui annotava ogni tragitto, tutte le volte che faceva benzina, il comportamento del mezzo su strada, i guasti e il suono del motore. Penso che sia meglio lasciare qua dentro il diario, non si sa mai cosa potrebbe succedere e come potrebbe essere capito quello che scriveva il mio generale. In nessun caso vorrei che qualcosa fosse frainteso. Controllo ancora una volta ogni pertugio, ogni anfratto e ogni cassetto, affinché per sbaglio non ci rimanga qualcosa. Non ho fretta, è Capodanno, un giorno tranquillo, la strada non sarà trafficata. Il mare in direzione di Brazza è grigio come l’acciaio, ma non c’è bora, sicché il Volga, Volga


freddo non lo senti nemmeno. Chiudo dietro di me la porta del garage, sto attento a non fare baccano – si potrebbero svegliare i vicini – e poi aspetto che il motore si scaldi. Al secondo piano del palazzo di fronte c’è una finestra che osservo da anni. La tenda si sposta, dietro la tenda una testa canuta di donna sta lì e aspetta che io parta. Vorrebbe tanto sapere dove sono diretto e spera che un giorno ciò le sarà detto. Ogni venerdì, esattamente alle sei e quindici del mattino, mentre il mondo intorno a lei dorme, si affaccia alla finestra, certa di vedermi. Scosta soltanto un po’ la tenda, quanto basta per infilare la testa, io deduco che nella stanza dev’esserci qualcuno che dorme e lei teme di svegliarlo. Guarda e aspetta tutto il tempo che occorre, qualche volta anche dieci minuti, talvolta addirittura mezz’ora. Le altre mattine non si affaccia. Lo so perché certe volte, quando vado al lavoro subito dopo le sei, guardo e non c’è. Ritengo che ogni venerdì si svegli soltanto per me, oppure per la sua curiosità. Poi invece penso che lei in questo modo, forse, prega il buon Dio. Guardandomi ogni venerdì alle sei e quindici dalla sua finestra. Parto per non farla aspettare troppo. Questa è una Volga M24, anno di produzione 1971. Un’automobile russa potente, che però consuma molto. L’ho comprata dal generale Musadik Karamujić, e lui l’aveva a sua volta comprata dal generale Nikola Ljubičić. Quest’ultimo gli aveva venduto quella Volga per pochi soldi, perché voleva liberarsene; poi il generale Karamujić me l’ha venduta perché andava in pensione. Nel momento in cui il generale Ljubičić la stava vendendo, era corsa voce che dal Comando militare fosse giunto un telegramma nel quale si evidenziava che non sono proprio ben visti gli ufficiali superiori che guidano automobili russe, come Moskvič e Zaporožac. Ljubičić aveva venduto la sua Volga per essere d’esempio agli 10 11


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