NEART / N° 1 - 2017
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STAFF
MARCO LO CURZIO ART DIRECTOR
GIANLUCA PATTI ILLUSTRATORE glcpatti@gmail.com
ADELE CALCOPIETRO GRAPHIC DESIGNER
marco.locurzio@gmail.com adelecalcopietro@gmail.com
DIRETTORE RESPONSABILE MARCO LO CURZIO COMITATO DI REDAZIONE ADELE CALCOPIETRO GIANLUCA PATTI CORREZIONE BOZZE MARCO LO CURZIO CARATTERI TIPOGRAFICI GOTHAM BOOK/MEDIUM/BOLD MINION PRO REGULAR
STAMPA ARTI GRAFICHE LEONARDI CATANIA SI RINGRAZIANO GIANLUCA SANTORO ANDREA CAMA OLGA GURGONE ALEX LLOBET GOMEZ SAMANTHA AMODIO COPERTINA FABIO CONSOLI
GET CLOSE YOUR PASSION! Benvenuti al primo numero di NEART, una rivista tematica che nasce dalla volontà di dare un quadro chiaro al lettore su ciò che lo circonda attraverso un filtro prettamente artistico. L’obiettivo è quello di avvicinare chi sfoglia le pagine del magazine al mondo delle arti visive o all’applicazione di esse a settori differenti, attraverso notizie di attualità e ricerche. La rivista si sviluppa attraverso l’analisi di cinque argomenti principali: SOCIETÀ, MUSICA, ARTE, LETTERATURA e CINEMA. Viene suddivisa tramite le seguenti sezioni: MAIN l’articolo di punta dedicato unicamente al mondo delle arti visive, è l’argomento portante della rivista. NEWS tutte le novità che avvicinano il lettore all’arte, sono notizie che possono ricoprire tutte le tipologie di argomenti prefissate. ADDRESS BOOK rubrica variabile che racconta, attraverso una photogallery, il lavoro delle giovani promesse nel mondo dell’arte. INTERVIEW ad ogni numero verrà riportata la testimonianza di un portavoce della creatività e possibilmente selezionata come articolo di punta.
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INDICE 6
LE NEWS SULLE COPERTINE DEL NEW YORKER
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IL RITORNO DEL GRUPPO SENZA VOLTO
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FABIO CONSOLI, IL NOMADE-ILLUSTRATORE
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KEITH HARING: UN UMANISTA A PALAZZO REALE
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NEAREST #1
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DIECI PAROLE: LA NUOVA EDIZIONE DEL CONTEST DI ITALIANISM
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SAUL BASS E I POSTER CHE HANNO CAMBIATO IL CINEMA
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NEAREST #2
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L’INCOLORE TAZAKI TSUKURU E I SUOI ANNI DI PELLEGRINAGGIO
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NEAREST #3
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LE NEWS SULLE COPERTINE DEL NEW YORKER Una volta erano tutte autunni, gatti e scodelle della colazione: ma dall'11 settembre le più famose copertine disegnate del mondo seguono molto più spesso l'attualità.
Il New Yorker è una delle più prestigiose riviste del mondo: malgrado il nome e l’attenzione newyorkese di alcune sezioni, pubblica lunghi articoli di attualità, racconti inediti, commenti e storie di rilievo universale, ed è anche molto famosa per le sue vignette e le sue copertine, che a oggi sono un caso rimasto quasi unico di copertine di news-magazine disegnate. Le copertine sono realizzate ogni settimana da un artista diverso, scelto dal direttore artistico tra uno storico gruppo di collaboratori ma anche tra illustratori nuovi ed emergenti. Famose per la loro cura e bellezza, le copertine hanno raccontato nei quasi cento anni della rivista il passare delle stagioni, le feste e gli eventi più importanti dell’anno – Halloween, Natale, Capodanno, la settimana della moda, le vacanze estive – cambiamenti sociali newyorkesi, americani e mondiali, e rappresentato con umorismo o malinconia scene di vita quotidiana urbana.
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Tranne rari casi, gli episodi di stretta attualità – le “news”, cosiddette – sono stati invece a lungo tenuti lontano dall’atmosfera rarefatta e stilizzata delle copertine. L’attuale direttore della rivista David Remnickv ha spiegato che per gran parte della storia del giornale le illustrazioni mostravano «molte case sulla spiaggia abbandonate, ciotole di frutta e il cambio delle stagioni». Remnick ha raccontato che le cose sono cambiate dopo gli attentati dell’11 settembre: la rivista uscì allora con una copertina completamente nera, dove si poteva scorgere in controluce il profilo delle Torri Gemelle. Era stata disegnata dal fumettista e Premio Pulitzer Art Spiegelman, con la collaborazione della moglie Françoise Mouly, tuttora art director del New Yorker. Da allora le copertine del New Yorker che rimandano all’attualità e che la commentano in toni provocatori o umoristici sono sempre di più. Una copertina, prima che iniziassero le
Olimpiadi invernali di Sochi, in Russia, una copertina raffigurava il presidente russo Vladimir Putin vestito da pattinatore e circondato da cinque giudici, tutti con la faccia di Putin stesso. Durante le elezioni presidenziali americane del 2008 e del 2012, moltissime copertine commentarono e presero in giro alcuni episodi delle campagne elettorali. Nel 2008 Barry Blitt dipinse Michelle e Barack Obama come due terroristi islamici mentre si davano il pugno in segno di vittoria: l’intento era soprattutto deridere i repubblicani che accusavano Obama di essere un nemico dell’America, ma lo staff della campagna democratica definì la copertina “di cattivo gusto e offensiva”. Nel 2012 la rivista scherzò sulla storia del cane di Romney, sul suo cambiare continuamente idea, sul suo rapporto con il candidato alla vicepresidenza Paul Ryan; ma criticò anche Obama, quando disegnò Romney al primo dibattito che discuteva con una sedia vuota (con un’altra citazione, qui: il discorso di Clint Eastwood alla convention repubblicana). Barry Blitt è tra i principali autori delle copertine caustiche e legate all’attualità del New Yorker. È particolarmente prolifico – ne ha disegnate più di 80 dal 1994 – e particolarmente veloce, tanto che spesso Remnick e Mouly gli propongono un’idea anche il giorno prima che venga stampato il giornale. Blitt – che oltre alla copertina controversa sugli Obama nel 2008 ha realizzato anche quelle di Putin per le Olimpiadi, quella sullo scandalo del governatore Chris Christie in New Jersey e quella recente sui problemi del football americano – racconta di
sperimentare spesso temi difficili e rischiosi e di proporli liberamente a Remnick e Mouly, che a volte glieli rifiutano ritenendoli troppo provocatori. Parte di questo cambiamento è dovuto proprio a Mouly, che venne assunta come art director del New Yorker nel 1992 dall’allora nuovo direttore Tina Brown. Brown voleva rinnovare profondamente la rivista dopo la decennale direzione di William Shawn, e Mouly portò con sé nuovi illustratori e fumettisti per le pagine interne – tra cui Lloyd Coe, Robert Crumb, Lorenzo Mattotti e Chris Ware – e fece pubblicare una delle prime copertine controverse, quella in cui una donna afroamericana bacia un ebreo ortodosso, nel 1993. Mouly ha spiegato che le copertine legate all’attualità riescono ad «avere senso per due settimane, due mesi o anche 200 anni». Ha anche spiegato che «quello a cui io e David puntiamo è che il lettore non sappia mai di cosa parlerà la prossima copertina. È un privilegio, perché non facciamo una copertina politica ogni settimana, la facciamo solo quando abbiamo qualcosa di buono». Mouly dice di ispirarsi alle prime copertine della rivista, che rendevano perfettamente l’idea di quale fosse lo spirito dell’epoca: anche il suo obiettivo è «scattare una serie di istantanee che possono essere guardate dall’art director nel 2030 e dare un senso di com’è vivere oggi a New York». Nel 2012 Mouly ha pubblicato insieme alla figlia Nadja Spiegelman, Blown Covers, un libro che raccoglie schizzi e copertine rifiutate del New Yorker.
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Da sempre i Gorillaz sono stati pionieri della sperimentazione audiovisiva di ultima generazione ed anche stavolta sono stati in grado di sbalordire il pubblico attraverso un video animato a 360° da godere anche attraverso l’uso di un visore VR o un Google CardBoard. Usa questo codice QR per collegarti direttamente al video del nuovo singolo “Saturnz Barz”!
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IL RITORNO DEL
GRUPPO SENZA VOLTO “Humanz” dei Gorillaz è già il più “scaricato” in 49 Paesi. La band virtuale ed elettronica si rappresenta con personaggi disegnati
C’è stato un momento in cui sembrava che i Gorillaz fossero finiti, spazzati via dalle incomprensioni tra Damon Albarn e Jamie Hewlett, i due fondatori della band virtuale nata nel 1998. Ecco invece che a sette anni dall’ultimo disco, Plastic Beach uscito nel 2010, i Gorillaz tornano sulle scene, più in forma che mai, con un’opera monumentale. Annunciato non più di un mese fa attraverso un video di sei minuti con il primo singolo Saturnz Barz, Humanz è uscito ieri ed è già al primo posto della classifica di iTunes di 49 Paesi del mondo. Una valanga di ospiti Contiene venti tracce (26 nella versione deluxe) e una valanga di ospiti e collaboratori tra i quali Grace Jones, Mavis Staples, Noel Gallagher, Carly Simon, i De La Soul, Pusha T, Kali Uchis, Kelela, Vince Staples, Jehnny Beth from Savages, D.R.A.M., Popcaan, Jamie Principle, Kilo Kish, Anthony Hamilton, Peven Everett e Zebra Katz (pare che fuori sia rimasta gente come e Morrissey e Dionne Warwick, non a suo agio con le liriche scritte da Albarn). Un ritorno in grande stile, preceduto da una comunicazione in puro stile Gorillaz che utilizza tutti i canali possibili, dalla app da scaricare al festival «Demon Dayz» organizzato dalla band per il 10 giugno in Inghilterra (e con replica a Chicago questa estate) fino all’idea di una serie televisiva in dieci episodi che Hewlett sta scrivendo e dove potrebbero confluire le 40 e oltre canzoni che Albarn dice di avere già pronte. La scorsa settimana a New York (con repliche a Berlino e Amsterdan) è andata in scena la «Gorilaz Experience», una cosa a metà tra installazione d’arte, ascolto in anteprima dell’album e immersione virtuale nel mondo di 2-D, Murdoc, Noodle e Russel, i quattro componenti virtuali della band. Presso gli studi Industria Superstudio, a Williamsburg, Brooklyn, è stata ricreata la Spirit House, la casa che appare nel video di Saturnz Barz. Introdotti a gruppi di sette, i visitatori
potevano aggirarsi nelle varie stanze, toccare gli oggetti, sedersi, fare selfie, postare sui social, giocare con la app, insomma vivere il disco a 360 gradi. Non è azzardato dire che i Gorillaz siano ancora oggi la band che meglio usa la tecnologia e i visual, in una perfetta simbiosi con la musica. Per ammissione di Albarn stesso, Humanz è stato composto in gran parte usando il software GarageBand su iPad durante i viaggi, in metropolitana, in albergo, sugli aerei. Pensato come un disco di fantapolitica del tipo «Come sarebbe il mondo se Trump vincesse», l’album si è dovuto adattare alla nuova realtà, restando un disco che parte dalla situazione presente, ma che guarda altrove (e infatti ogni riferimento a Trump è stato eliminato, sostituito con dei «bip» di censura). Viscerale e politico «È un disco viscerale e politico insieme», ha dichiarato Albarn a Rolling Stone. «Gli eventi politici hanno fatto da detonatore e questa è la risposta emotiva. Tutte le volte che ho dovuto spiegare Humanz ai collaboratori ho detto: voglio che questo disco rappresenti il dolore, la gioia e la necessità. Vorrei usare i lati più oscuri della nostra immaginazione per inventare l’evento apocalittico che farà ribaltare il mondo». Molto più famosi negli Stati Uniti di quanto siano mai stati i Blur, il gruppo con cui Albarn è diventato famoso, i Gorillaz hanno già annunciato per l’estate un tour di 17 date che li porterà in giro per il Nord America. Nel frattempo, insieme a l’ex bassista dei Clash Paul Simonon, a Simon Tong e Tony Allen, Albarn ha anche annunciato che a maggio inizierà a lavorare a un nuovo disco dei The Good the Bad & the Queen, il supergruppo con il quale aveva pubblicato un disco nel 2007. «Sono fortunato perché posso vivere nei due mondi, quello elettronico e quello rock. Sono ugualmente a mio agio in entrambi. Per i The Good the Bad & the Queen infatti non ci sarà GarageBand. Solo noi quattro in studio a suonare dal vivo».
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FABIO CONSOLI IL NOMADE-ILLUSTRATORE
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“ Qualunque strumento e stimolo che mi capiti tra le mani è un oggetto del mio lavoro, ogni cosa è il soggetto delle mie illustrazoni”
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Partito da Catania, ha fatto il giro del mondo per tornare alla propria terra d’origine, alle pendici dell’Etna. Ha frequentato la University of the Arts a Londra; poi ha deciso di girare il mondo in bicicletta, tenendo un diario illustrato sulla sua Moleskine: racconti, disegni e foto dei luoghi e delle emozioni vissute, convogliati poi sul blog idrawaround. Fabio Consoli si è trasferito a New York dove ha frequentato la School of Arts di Manhattan e incontrato Milton Glaser. È qui che gli art director gli consigliano: “Se vuoi fare l’illustratore devi trovare il tuo stile“. Lui nicchia, il suo spirito nomade non vuole essere ingabbiato, ma poi lo stile lo trova. Continua a viaggiare in bici in giro per il mondo e gli viene l’idea di unire tutte le sue passioni in una sorta di spettacolo multimediale: “il Music Visual Journal, una proiezione video dei miei disegni di viaggio accompagnata da una colonna sonora scritta e suonata live da me“. L’esperienza finisce ma continua a scrivere musica per spot commerciali e documentari. Durante le giornate del “The Creative Dot”, evento organizzato al Palazzo della Cultura di Catania dall’omonimo gruppo creativo e in collaborazione con l’Accademia di Belle Arti di Catania, abbiamo avuto l’occasione di incontrare l’illustratore che si trovava li in qualità di ospite speciale, questa è l’intervista che abbiamo avuto il piacere di fargli.
Cosa ti ha portato a decidere di frequentare la University of the Arts di Londra? Raccontaci della tua esperienza e della tua formazione Ho sempre inseguito ciò che ritenevo interessante, cercando di ritrovarmi nel posto giusto e al momento giusto. Ho frequentato l’Istituto d’arte dove ancora non si insegnava l’inglese, quindi una volta diplomato iniziai interminabili lezioni per apprendere la lingua. Dopo qualche anno mi iscrissi a Londra ma l’abbandonai in brevissimo tempo per dedicarmi allo studio pratico della grafica in Italia. Solo 10 anni fa andai a Manhattan per completare gli studi nonostante non avessi mai seguito un vero e proprio corso di illustrazione. Per me la vera formazione è stata viaggiare, incontrare persone, leggere libri, sognare.
Ti hanno definito il nomade dell’illustrazione, in quale dei due appellativi ti rispecchi di più? Nomade. Essere un nomade è uno stile di vita, l’illustratore è un mestiere, ci diventi. Ovviamente autodefinirmi così è un po’ contraddittorio, ho una famiglia che amo e che mi segue a distanza in tutti le lunghe spedizioni che affronto, ho un luogo che chiamo casa nonostante per me sia fondamentale viaggiare.
Hai realizzato il Music Visual Journal utilizzando una colonna sonora scritta e suonata da te, quali generi musicali hanno influenzato il tuo lavoro? Come in tutte le cose, nel tempo i gusti cambiano, è pure vero però che spesso ci ritroviamo ad ascoltare canzoni che pensa-
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vamo ormai dimenticate ed è molto interessante vedere come vengano sottoposte ad un’analisi diversa da quella data in passato. Quando avevo 12 anni mi piaceva ascoltare delle cassette di musica jazz che avevo in casa, durante la fase adolescenziale mi sono immerso nel mondo del rock ed è stato solo dopo molto tempo che ho capito quanto mi appassionasse il jazz contemporaneo e la musica strumentale, due generi fondamentali per il mio progetto.
Che consiglio senti di dare a chi come te punta di volere entrare nel mondo dell’illustrazione?
degli ottimi corsi formativi, quello che però consiglio di fare è di innamorarsi di uno stile e di farlo proprio. Individuare chi prima di te ha lavorato sullo stile che ti piace e provare ad entrarci in contatto, non sono le istituzioni a formarti bensì le persone giuste per te e le esperienze che farai con loro.
Visita il portfolio di Fabio Consoli per scoprire altri suoi lavori!
Non smettere mai di imparare, di crescere e di crederci. In Italia diversi istituti privati e le accademie di belle arti offrono
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KEITH HARING: UN UMANISTA A PALAZZO REALE L’immagine di un artista che va oltre se stessa: succede nella mostra “About Art” che Palazzo Reale a Milano dedica a Keith Haring.
Una retrospettiva ampia, con un allestimento convincente e la voglia di ricostruire un ritratto più completo dell’artista americano, a volte liquidato come un semplice, seppur geniale, rappresentante di un mondo underground fatto di graffiti e street art. L’esposizione Keith Haring. About Art, presenta 110 opere, molte di dimensioni monumentali, alcune delle quali inedite o mai esposte in Italia.La rassegna ruota attorno a un nuovo assunto critico: la lettura retrospettiva dell’opera di Haring non è corretta se non è vista anche alla luce della storia delle arti che egli ha compreso e collocato al centro del suo lavoro, assimilandola fino a integrarla esplicitamente nei suoi dipinti e costruendo in questo modo la parte più significativa della sua ricerca estetica. Le opere dell’artista americano si affiancano a quelle di autori di epoche diverse, a cui Haring si è ispirato e che ha reinterpretato con il suo stile unico e inconfondibile, in una sintesi narrativa di archetipi della tradizione classica, di arte tribale ed etnografica, di immaginario gotico o di cartoonism, di linguaggi del suo secolo e di escursioni nel futuro con l’impiego del computer in alcune sue ultime sperimentazioni. Tra queste, s’incontrano quelle realizzate da Jackson Pollock, Jean Dubuffet, Paul Klee per il Novecento, ma anche i calchi della Colonna Traiana, le maschere delle culture del Pacifico, i dipinti del Rinascimento italiano e altre.
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Keith Haring è stato uno dei più importanti autori della seconda metà del Novecento; la sua arte è percepita come espressione di una controcultura socialmente e politicamente impegnata su temi propri del suo e del nostro tempo: droga, razzismo, Aids, minaccia nucleare, alienazione giovanile, discriminazione delle minoranze, arroganza del potere. Haring ha partecipato di un sentire collettivo diventando l’icona di artista-attivista globale. Tuttavia, il suo progetto, reso evidente in questa mostra, fu di ricomporre i linguaggi dell’arte in un unico personale, immaginario simbolico, che fosse al tempo stesso universale, per riscoprire l’arte come testimonianza di una verità interiore che pone al suo centro l’uomo e la sua condizione sociale e individuale. È in questo disegno che risiede la vera grandezza di Haring; da qui parte e si sviluppa il suo celebrato impegno di artista-attivista e si afferma la sua forte singolarità rispetto ai suoi contemporanei. La mostra sarà ordinata in un allestimento emozionante e al contempo denso di rimandi al contesto in cui la breve ed esplosiva vita di Haring gli consentì di esprimersi come una delle personalità più riconosciute dell’arte americana del dopoguerra. L’idea chiave di questa esposizione è proprio di proporre un confronto e rintracciare i legami con l’arte del passato e dei grandi autori, perché oltre a far entrare nel suo linguaggio icone popolari come Mickey Mouse, Haring cercava un dialogo con forme più erudite, pescando nella storia dell’arte. Infatti, la prima sezione della mostra si chiama “Umanesimo” e presenta come prima immagine uno dei suoi omini (Untitled, 1981) con il ventre forato, dettaglio ispirato dall’assassinio di John
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Lennon, ma con anche le braccia alzate e le gambe divaricate a formare la grande “X” dell’Uomo Vitruviano di Leonardo. Dal “radiant baby” al suo attivismo politico, l’uomo è sempre stato al centro della poetica e degli interessi di Haring. Molti i messaggi grafici contro il razzismo, la minaccia nucleare, la discriminazione delle minoranze, l’Aids che seppe amplificare in perfetto stile pop, attraverso la commercializzazione da lui stesso promossa di maglietta e altri oggetti con il “Pop Shop” di New York e Tokyo, che ora continua con l’opera della Keith Haring Foundation, associazione no profit che promuove il sostegno a iniziative contro la diffusione dell’Hiv. Ma come inizia, chi incontra e in che modo si fa strada nel mondo dell’arte Keith Haring? Nasce in Pennsylvania nel 1958, fin da bambino è un divoratore di cartoni animati e si avvicina all’arte grazie al padre ingegnere con la passione del fumetto. Dopo un periodo a Pittsburgh, approda a New York negli anni ‘80, dove frequenta la prestigiosa School of Visual Arts seguendo i corsi di Joseph Kosuth, grande pioniere dell’arte concettuale. Ha poco più di venti anni e i suoi graffiti in metropolitana si fanno notare, il pubblico li apprezza. Così, si fa largo nella scena artistica della Grande Mela, conosce Basquiat, Warhol e Madonna. Tony Shafrazi, gallerista e mercante d’arte, deciderà di rappresentarlo e nel 1982 gli organizza una personale che riscuote grande successo. In poco tempo arriva la fama internazionale, partecipa a grandi mostre e fiere mercato, e crea molte opere d’arte pubblica in tutto il mondo. L’ultima l’ha realizzata proprio in Italia, a Pisa nel 1989: Tuttomondo, dipinto sulla parete esterna della canonica della chiesa di Sant’Antonio abate e considerato il suo più grande murale in Europa.
Il percorso della mostra vede poi altre sezioni tra cui il regno dell’Immaginario fantastico, che si rifà al gotico, dal medioevo a Bosh, Etnografismo, Moderno e postmodermo, per concludersi con Performance, una sala video con filmati delle sue incursione nella metro, mentre inventava immagini davanti a un pubblico chiamato ad assistere alla creazione. “Per Haring dipingere era un atto performativo e il dipinto una volta finito non apparteneva più
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all’artista ma al pubblico - spiega Mercurio - infatti, la maggior parte delle sue opere non furono titolate, tranne che per qualcuna come Unfinisched Painting del 1989, tela creata a pochi mesi dalla morte, per gridare con forza che non voleva un’interruzione”. L’Aids gli venne diagnostica nel 1987 e riconoscere un “senza fine” nell’arte lo portò ad affrontare la malattia lavorando senza sosta. Un’ultima citazione alta del “Non finito” di michelangiolesca memoria, per lasciare aperti discorsi che altri potranno portare avanti.
HAI GIÀ VISITATO IL PALAZZO REALE? LA REDAZIONE CONSIGLIA ALTRE
MOSTRE DA NON PERDERE MILANO - Al MUDEC-Museo delle Culture dal 15 marzo un’esposizione particolare dedicata al padre dell’astrattismo: “Kandinskij, il cavaliere errante”. La mostra accosterà opere provenienti dai più importanti musei russi a esempi della cultura popolare alla quale si ispirò per creare il suo codice simbolico. Hangar Pirelli Bicocca dedica il suo autunno 2017 ad uno degli artisti italiani più influenti della seconda metà del Novecento: Fontana. Dal 21 settembre “Lucio Fontana. Ambienti”. A seguire, in autunno: “Dentro Caravaggio”, “Toulouse-Lautrec, Un nuovo realismo, tra giapponismo e fotografia” e “Dürer e il Rinascimento fra la Germania e l’Italia”. TORINO
– Nella capitale piemontese si terrà una delle tre mostre-evento del 2017: “Caravaggio Experience”, visitabile dal 25 marzo al 1 ottobre 2017. La mostra si basa su un sofisticato sistema di multi proiezioni che, assieme ad una combinazione tracce musicali, utilizza 57 capolavori di Caravaggio per creare un universo sensoriale in cui immergere lo spettatore.
VERONA –
Continua nella città dell’Arena, prezzo Palazzo Forti, il tour italiano di Toulouse-Lautrec dal 25 marzo al 3 settembre 2017.
VENEZIA – La laguna questa estate ospiterà la 57 Biennale d’Arte, dal 13 maggio al 26 novembre 2017. Fra le molte offerte culturali della stagione, alla Peggy Guggenheim Collection ci attendono La mia arma contro l’atomica è un filo d’erba. Tancredi. Una retrospettiva fino al 13 marzo e dal 26 agosto al gennaio 2018 Picasso sulla spiaggia
NAPOLI
- Dal 10 aprile andrà in mostra “Picasso\Parade. Napoli 1917”.
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DIECI PAROLE: LA NUOVA EDIZIONE DEL CONTEST DI ITALIANISM La parola, che il dizionario ci spiega essere ciascuna delle unità che costituiscono il discorso, siamo soliti leggerla (e quando non sappiamo bene che significa usiamo per l’appunto il dizionario, che a parole ci dà le definizioni delle parole), siamo soliti scriverla, pronunciarla, ascoltarla. Talvolta la esprimiamo con un gesto — e noi italiani, in questo, siamo dei veri maestri — mentre negli ultimi anni, grazie agli smartphone e alle app di messaggistica, stiamo tornando ai pittogrammi, utilizzando un linguaggio, quello degli emoji, che oltre ad essere capace di sorprassare ogni barriera linguistica, sta diventando sempre più sofisticato. Ideato da Italianism, che dal 2015 promuove la scena creativa italiana attraverso una serie di conferenze, Dieci Parole è un progetto giunto alla seconda edizione, nato l’anno scorso in collaborazione con la Direzione Generale per la Promozione Sistema Paese del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e quest’anno in partnership anche con
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l’ADI Associazione per il Disegno Industriale. Con in palio la pubblicazione sul catalogo online, una mostra in Farnesina e una mostra itinerante negli Istituti Italiani di Cultura nel mondo, il concorso consiste nella rappresentazione visiva di una delle 10 parole selezionate dall’ADI tra le keywords che identificano (o dovrebbero identificare) la creatività italiana — etica, innovazione, interazione, forma, ricerca, intuizione, progetto, idea, visione, futuro. Chi ha partecipato ha ricevuto in maniera casuale una delle parole e ha potuto lavorare alla sua rappresentazione utilizzando praticamente con qualsiasi tecnica: fotografia, illustrazione, digital painting, gif, video, paper art, collage, textile art, 3d, tattoo, fumetto, typo, tecnica mista… Tra le oltre 600 proposte inviate, sono stati selezionati 30 elaborati e noi di NEART siamo lieti di mostrarvi quali sono le opere dei vincitori di quest’anno!
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VALENTINA CES TA
FRANCESCA ALBERGO
RICCARDO TOLDO
MILENA TI PALDO
CHARLOTTE SURA CE
La Giuria: Gianna Angelini, Semiologa – Coordinatrice Quasar Design University Roma Patrizia Boglione, Creative Strategist & Mentor – Art Directors Club of Europe Emanuele Cappelli, Designer – Direttore creativo RUFA Francesco Giuliani, Communication designer – Coordinatore IED Roma Cristiano Musillo, Direzione Generale per la Promozione del Sistema Paese – MAECI Lucia Pasqualini, Capo promozione lingua italiana all’estero – MAECI Raffaele Passerini, Direttore Didattico Roma Film Academy Rossana Quarta, Direttore didattico AANT Accademia delle Arti e Nuove Tecnologie Roma Leonardo Romei, Direttore – ISIA Urbino Giovanna Talocci, Designer – Vicepresidente ADI.
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SAUL BASS E I POSTER CHE HANNO CAMBIATO IL CINEMA L’8 maggio 1920 nasceva il designer e pubblicitario statunitense Saul Bass(19201996), che nel mondo del cinema viene ricordato come colui che ha reso i titoli di testa dei film una vera e propria forma d’arte, dando anche un’innovativa impronta visiva alle locandine cinematografiche.
Bass iniziò la sua collaborazione con il grande schermo nel 1954 con una locandina commissionatagli dal regista Otto Preminger per il film Carmen Jones. Da quel momento in poi il mondo del cinema attinse a più riprese dalla creatività di Bass e al lungo sodalizio creativo con Preminger si aggiunsero collaborazioni con Alfred Hitchcock, Billy Wilder, Stanley Kubrick e Martin Scorsese.Preminger volle che fosse Bass a disegnare la locandina e i titoli di testa de L’uomo dal braccio d’oro (1955). Il soggetto del film raccontava la lotta di uomo contro la sua dipendenza da eroina, un argomento chiaramente tabù nella metà degli anni ‘50. Bass decise di creare una sequenza di titoli innovativa da abbinare al controverso tema del film. Per questo scelse il braccio come immagine centrale, in quanto riferimento alla dipendenza da eroina. Per Alfred Hitchcock Bass realizzò titoli di testa memorabili per La donna che visse due volte (1958), Intrigo internazionale (1959) e Psycho (1960), prima dell’apporto dinamico dato da Bass i titoli di testa dei film erano, salvo qualche eccezione, oltremodo statici e non, come nel caso di quelli del celebre grafico, incorporati all’interno del film stesso come vera e propria introduzione alla trama. L’obiettivo di Bass era mostrare e rendere familiari allo spettatore in una manciata di secondi parti di un mondo a loro sconosciuto, Bass descriveva questo processo come “rendere straordinario l’ordinario”. Questa sua filosofia si può ben percepire in titoli come Anime sporche (1962) in cui un normale gatto si trasforma in un misterioso predatore e in 9 ore per Rama (1963), dove i meccanismi interni di un orologio si trasformano in un vero e proprio scenario. Bass ha creato titoli per più di quarant’anni impiegando diverse tecniche, dall’animazione cut-out per Anatomia di un
omicidio (1958) ad un vero e proprio mini-film animato ricco d’’azione per Il giro del mondo in 80 giorni (1956), senza dimenticare le sue sequenza d’apertura in live-action spesso utilizzate come prologhi dei film, vedi l’incipit di Grand Prix (1966) che ritrae i momenti prima della gara d’apertura a Monte Carlo o il montaggio di apertura per I vincitori (1963), sequenza che racconta i 27 anni trascorsi tra la prima guerra mondiale e la metà della seconda guerra mondiale, dove ha inizio il film.Verso la fine della sua carriera Bass è stato riscoperto da Martin Scorsese che era cresciuto ammirando il suo lavoro cinematografico. Bass (in collaborazione con la moglie Elaine) per Scorsese ha creato sequenze di titoli per Quei bravi ragazzi (1990), Cape Fear - Il promontorio della paura (1991), L’età dell’innocenza (1993) e Casinò (1995) che ricordiamo fu l’ultima sequenza di titoli a cui Bass lavorò. Per Billy Wilder il grafico realizzò i titoli di testa della commedia Quando la moglie è in vacanza (1955), per Stanley Kubrick collaborò a Spartacus (1960) e disegnò la locandina di Shining (1980), inoltre sono sue le sequenze introduttive di Dentro la notizia (1987) e della commedia Big (1988), oltre alle locandine degli Oscar dal 1991 al 1996 e ad un poster per lo Schlinder’s List di Steven Spielberg non utilizzato. Ad oggi si può ancora ben percepire quanto il lavoro di Bass abbia creativamente inciso sull’impronta visiva dei film, su come i titoli di testa siano diventati parte integrante della narrazione e ancora oggi ci sono titoli di testa che omaggiano lo stile di Bass e ne traggono ispirazione, tra questi citiamo ad esempio quelli di Prova a prendermi di Steven Spielberg e del prequel X-Men - L’inizio di Matthew Vaughn, senza contare il piccolo schermo che ha in una serie tv come Mad Men l’esempio più eclatante di questa imponente influenza creativa.
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FILM E SERIE TV DA NON PERDERE LA MIGLIORE OFFERTA “In ogni falso si nasconde sempre qualcosa di autentico”, questa frase è la chiave di volta dell’ultima opera di Tornatore. Opera ambiziosa e di qualità, quasi una tesi sui rapporti tra verità e contraffazione, tra realtà e simulazione. Così come il falsario, nel ricreare un’opera d’arte, cede all’impulso di “personalizzare” il lavoro che dovrebbe copiare con un segno, un dettaglio che gli appartiene e che rappresenta il suo “marchio”, anche l’attore, specularmente, riesce ad interpretare la realtà del suo personaggio, della sua finzione solo introducendo elementi di autenticità e rappresentazioni che sgorgano dalla sua “verità” più profonda. L’amore, come i sentimenti umani, non si sottrae a questa dinamica: è una corda tesa tra una realtà animica percepita come vera e immediata e la rappresentazione di un gioco che travalica le intenzioni dei giocatori, tra verità delle pulsioni e simulazione dettata dai ruoli e dalle circostanze.
ABSTRACT: THE ART OF DESIGN Tre donne e cinque uomini sono i designer internazionali protagonisti della serie di documentari che indaga, a tutto campo, il design contemporaneo. Dall’architettura alla scenografia, dal graphic design all’illustrazione, dalle auto alle scarpe. Ideata dal produttore esecutivo Morgan Neville, Abstract, è una docu-serie originale di Netflix che ci porta al di là di schemi e computer nell’arte e nella scienza del design, mostrando grandi designer di diverse disciplina il cui lavoro dà forma al nostro mondo. E invita gli spettatori ad entrare nelle menti dei più grandi designer contemporanei. Gli otto episodi della prima serie si concentrano su un parterre eterogeneo di progettisti, tra cui Bjarke Ingels (architetto), Christoph Niemann (illustratore), Es Devlin (scenografo), Ilse Crawford (interior designer), Paula Scher (Graphic Designer), Platon (fotografo), Ralph Gilles (automotive designer) e Tinker Hatfield (designer Nike).
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L’INCOLORE TAZAKI TSUKURU E I SUOI ANNI DI PELLEGRINAGGIO di MURAKAMI HARUKI “Al mondo ci vuole anche qualcuno che costruisca il vuoto.”
Murakami è uno dei più accessibili autori giapponesi per un pubblico di lettori occidentali. È forse questo ad averlo trasformato in un romanziere di culto? Sicuramente la sua scrittura è comprensibile, forse anche nei suoi recessi più nascosti (o almeno ci illudiamo che così sia) persino per chi ha conosciuto il Giappone e la sua cultura solo marginalmente, quasi per sentito dire. La nazione che Murakami ci racconta in queste pagine è quella del dopo-tragedia dell’11 marzo 2011 (mai citata) più cupa, pessimista, ripiegata su se stessa. L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio si può definire un romanzo di formazione, soprattutto “di crescita”, quella interiore del protagonista, Tazaki Tsukuru - “uomo che sembrava privo di una personalità dalle caratteristiche spiccate” -, costellata di piccoli elementi, quasi insignificanti che comunque ne andranno a tracciare il futuro - “Lui stes-
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so, quando si guardava allo specchio, si trovava irrimediabilmente noioso”. Non avere un colore insito nel proprio nome quando questo è un elemento comune ai suoi quattro migliori amici - può pregiudicare l’esistenza? Tazaki Tsukuru ha “una sola passione, se così la si può definire: le stazioni ferroviarie”. Su questa passione imposta lo studio, la professione e il luogo in cui vivere. Nulla accade di drammatico, ma contemporaneamente al suo trasferimento da Nagoya, la sua città d’origine, a Tōkyō, Tsukuru viene improvvisamente rifiutato da quegli amici con cui aveva trascorso ogni giornata e diviso ogni momento. Una sola telefonata dagli altri: non deve più cercarli. Da quel giorno, senza nessuna spiegazione, non li vedrà mai più. Sarà una nuova amica, Sara, a guidare Tsukuru verso una risposta anche se come sempre Murakami non offre un finale definitivo alla sua storia, non regala una soluzione consolatoria. Tsukuru guarda
la sua sofferenza come fosse quella di un altro, cerca di staccarsi dalla sua fisicità, viene posseduto “dalla strana sensazione che il suo corpo stia subendo una totale metamorfosi”, sino al punto di sentirsi un’altra persona totalmente, di cambiare
fisionomia inasprendo il carattere. In un passaggio centrale del romanzo, Murakami riprende l’amato tema della crisalide da cui nasce un nuovo essere, diverso da quello precedente. Più che una farfalla un cervo volante, uno scarabeo rinoceronte, corazzato, indurito, reso più cinico e insensibile. “Il ragazzo che una volta si chiamava Tazaki Tsukuru era morto [...] Quello che adesso era lì e respirava, era un nuovo Tazaki Tsukuru, un Tazaki Tsukuru il cui nucleo era stato, in gran parte almeno, sostituito. Ma era una verità che conosceva soltanto lui. Né aveva intenzione di condividerla con nessuno”. L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio è il romanzo di una vita segnata da un’incomprensione; di un’infanzia, un’adolescenza e una maturità rigide, strutturate come solo la società giapponese riesce a fare; di un’incomunicabilità legata all’educazione che impedisce l’espressione libera e assoluta dei propri sentimenti e induce alla solitudine. È un libro di sensazioni che non si può descrivere se non attraverso sensazioni. Un romanzo del quotidiano che fa del quotidiano romanzo. Ed è opinione comune che unicamente i grandi scrittori abbiano la capacità di svelare lo straordinario nel banale.
Da diversi anni la Einaudi Editore promuove i testi dello scrittore giapponese più famoso di sempre attraverso copertine straordinarie, dopo la fortunata serie di illustrazioni di Noma Bar per questa edizione è stata utilizzata “Pillar of Fire” una delle opere di Morris Louis, pittore statunitense deceduto nel 1962.
Guarda subito il Booktrailer realizzato da una collaborazione tutta italiana!
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PIACEVOLI LETTURE ARTE COME MESTIERE BRUNO MUNARI La classica, originalissima opera in cui un grande artista italiano, noto intutto il mondo per l’ estrosità e la leggerezza delle sue creazioni, ha demolito una volta per sempre il mito dell’artista-divo per sostituirlo con la figura del ‘designer’. Attraverso una avvincente analisi di opere e ditemi, condotta con disegni e immagini chiare e godibili, Munari fornisce una presentazione estremamente esauriente del design e delle sue diverse specializzazioni: visual design - industrial design - graphic design - design di ricerca.
LO POTEVO FARE ANCH’IO FRANCESCO BONAMI Lo potevo fare anch’io è il libro perfetto per eliminare tutti i pregiudizio riguardanti l’arte contemporanea. Con un linguaggio semplice e diretto, che evita i paroloni forbiti e altezzosi dei libri di storia dell’arte, Francesco Bonami spiega come mai anche le cose più apparentemente strambe e meno classificabili come capolavori, possano nascondere un significato e un valore che le ha fatte entrare nella storia dell’arte.
LE PORTE DELLA PERCEZIONE ALDOUS HUXLEY
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Il tema fondamentale dell’indagine filosofica intorno alla natura dell’uomo e alla natura delle cose si arricchisce di nuovi ed importanti elementi conoscitivi attraverso un metodo d’indagine abbastanza insolito. E’ lo stesso autore, infatti, che riferisce di sé, del suo “sé” segreto ed altrimenti inconoscibile, avvalendosi delle amplificazioni percettive procurategli dalla mescalina, il principio attivo di una droga già notan questo stato di allucinazione, l’autore arriva a vedere una nuova essenza delle cose, in un mondo in cui le categorie di spazio e tempo non predominano più e nel quale tutto ciò che gli accade al di dentro e all’intorno è scisso da qualsiasi sensazione utilitaristica.
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