Design concettuale - Quando l'idea guida la forma

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SimoneTosto Tosto Simone

Design concettuale Design Quando l’idea guida la forma concettuale Quando l’idea guida la forma


Ministero dell'Università e della Ricerca Alta Formazione Artistica Musicale e Coreutica

Accademia di Belle Arti di Catania Dipartimento di progettazione e arti applicate DAPL06— Diploma Accademico di Primo Livello in Progettazione Artistica per l’impresa corso in Design della comunicazione visiva a.a. 2019/2020 Professore Gianni Latino Progetto grafico Simone Alfio Tosto Composto in Akzidenz Grotesk disegnato da Herman Berthold nel 1896 Nessuna parte di questo elaborato può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’Istituzione. © Copyright 2020 Accademia di Belle Arti di Catania Simone Alfio Tosto www.abacatania.it


Simone Tosto

Design concettuale Quando l’idea guida la forma



Indice

Parte I – La genesi del pensiero

1.1 Tra pensare e fare

10

1.2 L’automazione nei settori produttivi

16

1.3 L’intelligenza visiva, un funzionamento che regola un equilibrio

20

1.4 La conoscenza è un processo sempre in continua costruzione

28

1.5 Sociologia della conoscenza

36

1.6 Come la Filosofia diventa design concettuale

50

1.7 Il pensiero e le sue operazioni

72

1.8 Arte, emozione e cervello

80

1.9 Percezioni, nozioni e operazioni

86

Parte II – Narrare una progettazione, narrare un contenuto, narrare una storia

2.1 Anton Stankowski

96

2.2 Angiolo Giuseppe Fronzoni

108

2.3 Jan Tschichold

120

2.4 Armando Milani

130

2.5 Albe Steiner

142

Parte III – I dieci principi del buon design

153

Riflessioni

165

Bibliografia

170

Sitografia

172



Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine, ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marcia, chi non rischia e cambia colore dei vestiti, chi non parla a chi non conosce.

Lentamente muore Martha Medeiros



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Parte I

La genesi del pensiero


1.1

Tra pensare e fare


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Oggi nel sentire comune i termini individuo e persona sono utilizzati come equivalenti e intercambiabili, perdendo di vista l’aspetto della relazione. L’uomo, in quanto individuo, è un essere chiuso in se stesso, isolato e indipendente, dotato di libertà assoluta, che si associa agli altri solo per necessità e per cercare di perseguire più velocemente i propri interessi. L’identità è come se fosse congelata, come se non combaciasse con ciò che accade. Quando un individuo parla e agisce, potrebbe sentirsi come un burattino, un automa, qualcuno che recita una parte, che proferisce parole, senza di fatto, percepirne il senso, rendendole vuote e prive di significato. Si tratta di una vera e propria depersonalizzazione dell’io, in quanto ci si sente estranei rispetto al proprio corpo, fuori da se come un’armatura o come dentro ad un guscio. La persona invece non può trovare compimento solo in se stessa, a prescindere dal suo essere con e per gli altri, poiché è unica, singolare, irripetibile e non dovrebbe mai essere trattata come mezzo. Quale facoltà si può attribuire all’automa? la libertà forse? Eppure la libertà si fonda sulla coscienza. Per l’automa un surrogato della libertà è la casualità, non la decisione libera affermativa e volitiva. La persona dunque si contrappone all’automa: lungi dall’essere priva di volontà e dal compiere gesti e azioni in maniera meccanica, ma si caratterizza per la capacità di conoscersi in profondità e di sviluppare il meglio di sé tramite le due grandi risorse che le sono state date, l’intelligenza e la volontà. Al che non potremmo che rivelare la vera natura di Lucio Anneo Seneca condividendo un suo pensiero: «Non dobbiamo lasciarci corrompere o dominare dal mondo che ci circonda, dobbiamo fare affidamento solo su noi stessi e sulle nostre capacità personali1». Ma cosa succede realmente quando come nel caso specifico dell’intelligenza artificiale della realtà aumentata l’automa può divenire un’estensione della persona?

1

Lucio Anneo Seneca De vita beata, Mondadori, 2019


L’uomo ha sempre nutrito la smisurata ambizione di imitare l’atto divino della creazione e per secoli si è dedicato alla costruzione degli automi, strumenti che riproducessero almeno qualche caratteristica umana, qualcosa che semplifichi la vita. Anche la progettazione grafica vista nella prospettiva della storia dell’arte, all’inizio non era nemmeno considerata una pratica artistica, l’automa svolge infatti un ruolo molto significativo, tracciandone una linea di distinzione. Gli automi possono mutarsi in varie forme, per esempio i template, ovvero modelli già esistenti creati prima ancora dalla fase di ideazione di un progetto, in grado di semplificare sempre di più il lavoro, congelando qualsiasi processo cognitivo. Non si può che ribadire quanto sia imprescindibile innovarsi e non lasciare che il tempo s’impossessi di noi, per cui si è costantemente sottoposti ad un’automazione. L’artista, come l’artigiano era produttore e proprietario dei propri mezzi di produzione, come una bottega, e con la rivoluzione industriale vengono alienati, disponendosi in un nuovo processo produttivo, con la separazione della proprietà e della forza lavoro (fabbrica/industria) e mezzi di produzione standardizzati. Nella cosiddetta era dell’industria 4.0 l’automazione è entrata in tutti i settori produttivi (e vita privata) come i Template. Lo scopo della ricerca è valorizzare la cultura dei progetti concettuali tramite un processo cognitivo, l’automa. L’automa assume sfaccettature diverse in funzione al contesto in cui esso viene analizzato. In alcuni ambiti specialmente meccanici e per l’appunto in ambito di automazione, viene considerato solo come una macchina o strumento, invece in ambito pedagogico può considerarsi un processo cognitivo, secondo cui un ordine sistematico di pensiero/ azione si lega alla conoscenza, che si rivela tramite un’attività legata alla mente. Di conseguenza, ci si incentra esclusivamente sui processi, sulle procedure, sui protocolli ideativi e progettuali dell’opera,


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più che sull’opera stessa; al punto che quest’ultima potrebbe rimanere inattuata, perché la sola idea che la sostiene assume valenza e dignità artistica in sua vece. In tal modo, il concettuale tenta un ultimo gesto di critica e separazione dai sistemi sociali, economici e rappresentativi della società. Il design concettuale governa l’aspetto grafico, è quello in cui l’idea visiva influenza la forma fisica che assume. Esso ha lo scopo di trovare un equilibrio perfetto tra forma e contenuto, richiedendo disciplina e ordine durante l’inserimento dei vari elementi: immagini, elementi tipografici etc... L’intento viene caratterizzato dall’idea di concrettizare una relazione di equilibrio tra forma e concetto in grado di completarsi in sintonia con il pubblico, ove il pubblico possa ricevere un segnale cognitivo in grado di aiutarne la comprensione. Sicuramente una nozione pittorica assume una critica fondamentale nelle pratiche progettuali, ovvero il rifiuto, il rigetto delle discipline tecniche che vi sono preceduti. Le opere, i progetti non sono composti solo per la loro tecnica e per la loro qualità e per l’abilità nel saper disegnare/dipingere o nel suscitare scalpore alla visione di un artefatto, bensì sull’idea del progetto. Molti definiscono la tecnica progettuale come un mantello d’invisibilità per coloro che magari non possiedono abile destrezza nelle tecniche, che siano grafiche o pittoriche. L’idea del design concettuale vuole porsi come una nuova chiave di lettura, manifestandosi in ideologie, simbologie e concetti. Purtroppo, il nuovo sistema telematico ha creato nuovi squilibri e confusione, a tal punto da non riconoscere il mestiere del grafico. Gli artefatti bilanciano sempre il loro valore estetico, ma pesano anche il valore concettuale e ideativo. Si consideri il manifesto un artefatto a scopo comunicativo, che sia scopo politico, sociale e culturale, l’idea è quella di comunicare. Non tutti però nascono con lo stesso scopo, alcuni fuorviano per tematiche molto rivoluzionarie e protestanti, altri per evincere pensieri, riflessioni o beni e servizi.


L’uomo è sempre in cerca di strumenti che gli semplifichino la vita, ecco perché si è sempre dedicato alla creazione di nuovi automi. A volte essi creano un vuoto nella progettazione perché azzerano dei processi cognitivi, e progettare diventa un processo meccanico. Il lavoro culturale artigianale, non è solo tecnica, non è solo estetica e non è solo funzionalità, non ci si distingue per l’abilità nel saper realizzare un lavoro, piuttosto raccontare, rappresentare un’idea, comunicare; e tutto ciò non può mai essere rappresentato da un processo meccanico. In altre parole, l’automa si pone sia come problema che come soluzione, dipende dal punto di vista in cui esso viene analizzato, costituendone una funzionalità neutra.

Gresy Torrisi Roots 2019


RE:

THINK DESIGN CYCLE

ROOTS IT COMES FROM THE SAME

RETHINK ABOUT IT GRESYTORRISI


1.2 t

L’automazione nei settori produttivi


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Nella cosiddetta era dell’industria 4.0 cambia il modo di vivere, l’automazione diventa quindi possente e invisibile, comincia a introdursi nella vita quotidiana, e senza troppi accorgimenti riesce a mimetizzarsi. Tutti i settori produttivi vengono contagiati e dominati dall’automazione. La produzione di massa, ovvero la realizzazione seriale di elevate quantità di prodotti comincia a mutarsi, nasce una personalizzazione di massa o mass customization, in cui la strategia si orienta a esaudire bisogni più specifici e individuali, sempre tenendo presente l’accurata efficenza della produzione, in termini di bassi costi di produzione. Si integrano nuove tecnologie produttive affinché si possano semplificare e migliorare le condizioni di lavoro. Uno dei primissimi casi fu il fordismo, in cui s’indica una peculiare forma di produzione basata sulla tecnologia della catena di montaggio, che sostituisce il lavoro manuale aumentando la produzione e diminuendo i costi. Si crea una serie di pratiche industriali associate alle innovazioni introdotte nella fabbricazione di automobili americane, dall’ultimo decennio dell’ottocento, in grado di ridurre operazioni estremamente complesse in compiti più piccoli e semplici da svolgere, eseguibili anche da lavoratori inesperti. Così facendo diminuisce il tempo di realizzazione, aumentando la produzione di prodotti omogenei, rendendo il prodotto più accessibile al pubblico. Questo particolare periodo storico offrirà molteplici confronti e dibattiti su cui verrà messa in discussione la mansione dell’operaio. Lo stringere i bulloni, il gesto ripetitivo e i ritmi disumani e spersonalizzati creeranno molti per l’appunto riflessioni interne che ispireranno molteplici trasposizioni cinematografiche, una delle quali, ‘tempi moderni’ (Charlie Chaplin, 1936) che descrive questo malessere creato. Nello stesso periodo storico, si sviluppa la Psicanalisi di Froid, in cui noteremo quale misticità troveremo nel termine ‘pazzia’, intesa proprio nel senso anatomico di patologia, o ‘follia’, che non sarà considerata come patologia,

N.W Ayer and Son Cut your costs 1927


ma un indecifrabile modo diverso di affrontare le situazioni. Oggi una notevole prevalenza numerica di persone associa un’idea delle cose attraverso immagini prodotte o riprodotte che siano fotografiche, pittoriche e grafiche. La sussistenza d’immagini ottiche è diventata tanto pervasiva quanto invisibile; si ignori quanto diventi trasparente il linguaggio di queste immagini in grado di condizionare tutta la nostra esperienza visiva. Ciò che colpisce l’occhio e ciò che colpisce il cervello, motivo per il quale bisogna sempre tracciare una linea d’equilibrio tra forma e funzione. Molti studiosi hanno affrontato l’argomento in questione per domandarsi cosa realmente accade quando guardiamo, cosa cambia se si guarda una cosa attraente o una cosa ributtante. Indagheremo su quanto non solo le cose ma anche le azioni possono assumere un’immenso significato, perché un sistema peculiare garantisce il riconoscimento dei comportamenti altrui come un qualcosa che ci riguarda.


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RenĂŠ Magritte La Trahison des images 1928


1.3

L’intelligenza visiva, un funzionamento che regola un equilibrio


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Si consideri Jean Piaget, psicologo, biologo, pedagogista e filosofo, come figura emblematica e mistica all’interno del percorso dell’intelligenza visiva. Nascosta nella parte più profonda del proprio io, come se identificasse la nostra identità, essa regola la capacità di pensare per le immagini tramite un’esperienza non del tutto definita, ma profonda e immediata. Vicino alla conoscenza della realtà, precocemente formatasi dai bambini quando ancora non sono abituati a determinate situazioni. Le multi carriere di Piaget permettono una guida alla conoscenza più solida. Conosciuto prevalentemente per l’epistemologia genetica, volge dalla disciplina psicologica allo studio sulle origini della conoscenza. Affronta l’argomento dello sviluppo cognitivo del bambino e sul come si forma ciò che noi definiamo il ragionamento. Iniziò ad annotare su un diario i ragionamenti dei suoi figli, ma non si limitò semplicemente a osservarli, ma a lasciar che il bambini si esprimessero in totale libertà, come una conversazione. Qui la sua epistemologia assume una sorta di mutazione intesa come lo studio delle corrispondenze tra gli stadi dello sviluppo del pensiero del bambino e quello dell’affermarsi nel corso della storia di forme di pensiero più evolute. Associa il pensiero primitivo al pensiero moderno generando due ramificazioni. La prima forma di intelligenza, che il bambino attua per conoscere, si definisce accomodamento. Con tale termine si indica quel processo attraverso il quale acquisiamo esperienza del mondo esterno per mezzo di nostri schemi. Qui l’essere umano adatta ciò che possiede contro il mondo esterno. La seconda ramificazione si identifica come assimilazione. In questo processo i nostri schemi subiscono modifiche in funzione di agenti esterni, che siano informazioni o esperienze. L’intelligenza è la capacità di adattamento all’ambiente. A volte l’uomo riadatta lo spazio in funzione delle proprie necessità, altre volte l’uomo si adatta


al posto in cui è circoscritto, esattamente come fanno gli animali. Lo studio di Piaget avanza, individuando altre due macro fasi dello sviluppo cognitivo: Fase senso-motoria e fase concettuale (dove in quest’ultima troviamo anche lo stadio, Stadio pre-operatorio, Stadio operatorio-concreto, Stadio operatorio-formale). La prima fase fa riferimento allo sviluppo dei sensi e i movimenti per conoscere la realtà esterna, dove si comincia a tracciare una guida con tutte le caratteristiche, che siamo un corpo a sé rispetto agli oggetti che ci circondano. Nella seconda fase il pensiero comincia a prendere forma, e si ipotizza mentalmente un’azione prima di compierla. Qui è dove cominciamo a trovare le prime difficoltà perché costatiamo i primi limiti nel non poter essere i grado a volte, di fare ragionamenti veri e propri, dove si avverte una mancanza di ragionamento di conservazione e di reversibilità. Per mancanza di concetto di conservazione s’intende quel ragionamento con cui un oggetto cambia ordine nello spazio, non muta né di forma né di qualità. Invece per mancanza del concetto di reversibilità, s’intende quel sistema che copia un ragionamento unidirezionale, ovvero all’incontrario. Inoltre egli ipotizza una tipica abitudine che l’essere umano compie sempre autonomamente, la separazione. Catalogare e ordinare visivamente è sempre stata un’abitudine inconscia dell’uomo, a partire da oggetti in base al colore, dimensione e forma. In conclusione di questa seconda fase, si evolvono gli ideali, i valori che costituiranno la nostra personalità, ed è proprio qui che assume un’importanza significativa la concezione di gioco. Non bisogna cadere nel sarcasmo e considerarlo come solo un’attività ricreativa, ma quell’attività ludica che consiste al raggiungimento del piacere, non per conseguire un fine o uno scopo. Esattamente ciò che accade nel mondo del lavoro, dove troveremo sempre delle regole. Per lo studioso il gioco riveste una


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Simone Tosto Rappresentazione visiva del sistema cognitivo dell’equilibrio dell’intelligenza visiva (2020)


grande valenza nello fase dello sviluppo cognitivo, semplicemente perché stimola le capacità motorie, intellettive e morali. Si tastano esperienze di fruizione catartica, dove vengono identificate come purificazione o liberazione, ovvero quell’esperienze che vengono immaginate mentalmente mediante la finzione di situazioni assenti. Si verificano anche situazioni in cui pian piano la fantasia viene a mancare per lasciare spazio a qualcosa di più concreto. In un contesto storico contrassegnato da profondi cambiamenti sociali, economici e tecnologici, Piaget reca in tal modo il suo contributo ad un adeguamento della scuola e dell’educazione nel delicato momento del passaggio da una scuola d’élite a una scuola di massa e a una formazione permanente. Questa centralità del fare, costituisce il punto di vicinanza di Piaget con l’attivismo, ovvero quella convenzione di etica che da valore all’attività vitale, declinabile su qualsiasi aspetto (politico, religioso etc…). Poiché il motore dell’intelligenza è la sua azione. Il linguaggio porta alla socializzazione delle azioni, dando origine ad atti di pensiero che non appartengono esclusivamente all’io che le genera, e immediatamente poste su un piano di comunicazione che ne moltiplica la portata. All’interno dei processi cognitivi, troviamo le operazioni logico-matematiche che derivano dalle azioni stesse, in quanto sono il prodotto di un’astrazione che procede a partire dal coordinamento delle azioni e non a partire dagli oggetti. Il linguaggio è necessariamente interindividuale ed è costituito da un sistema di segni che tuttavia il nostro sistema assimila. Inoltre vi è un’altro sistema di significati, più individuali e motivati, che prende il nome di simboli, le cui forme già comuni si trovano in giochi simbolici o d’immaginazione. Sempre il contesto del gioco riesce ad aprire strutture di rappresentazioni individuali di schematizzazione rappresentativa. Importante per la spiegazione psicologica, non è quindi l’equilibrio come stato, ma lo stesso processo di ricerca dell’equilibrio. Esso non è che un


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risultato, mentre il processo come tale manifesta un maggior potere esplicativo. L’equilibrio non è un carattere estrinseco, bensì una proprietà intrinseca e costituita della vita organica e mentale. Un sasso, in rapporto a ciò che lo circonda, può trovarsi in stati di equilibri stabili, instabili o indifferenti, e ciò non implicherebbe alcunché della sua natura. L’epistemologia genetica ha avuto lunga influenza sul costruttivismo, mette in discussione la possibilità di una conoscenza oggettiva di un sapere che rappresenti fedelmente la realtà esterna. Il sapere non esiste indipendentemente dal soggetto che conosce, non può essere ricevuto in modo passivo, ma si genera dalla relazione fra un soggetto attivo e la realtà. La conoscenza è una soggettiva costruzione di significato a partire da una complessa rielaborazione interna di sensazioni, conoscenze, credenze, emozioni. La costruzione poggia su mappe cognitive che servono agli individui per orientarsi e costruire le proprie interpretazioni. A tal proposito scrive Ernst von Glasersfeld «Nella tradizione occidentale, ciò che si chiama conoscenza è sempre considerata come una rappresentazione più o meno vera di un mondo ontologico; cioè un’approssimazione, e comunque l’immagine di un mondo indipendente dal soggetto conoscente.»2 Piaget rompe questa tradizione perché propone un cambiamento radicale del concetto di conoscenza. Per lui, invece di essere l’organo della rappresentazione, la conoscenza diviene uno strumento dell’adattamento, Il costruttivismo. Qualunque società che si sforzi di oltrepassare i limiti posti dalla natura facendo ricorso a nuove tecniche si trova ad un certo punto di fronte a una scelta fondamentale: è preferibile adattarsi a vivere all’interno di tali limiti, accettando una regolazione autoimposta del processo di sviluppo e di crescita, oppure continuare sulla via dello sviluppo, fino a manifestarsi di qualche ostacolo naturale, sperando che nel frattempo i progressi della tecnica consetiranno di rimuoverlo?

2 Ernst von Glasersfeld L’interpretazione Costruttivista dell’Epistemologia Genetica. III Simposio Internazionale di Epistemologia Genetica, 2019.


L’origine del pensiero


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1. Forme d’intelligenza

2. Fasi sviluppo cognitivo

Accomodamento Indica quel processo attraverso il quale acquisiamo esperienza del mondo esterno per mezzo di nostri schemi. Qui l’essere umano adatta ciò che possiede contro il mondo esterno.

Senso-motoria Sviluppo dei sensi e i movimenti per conoscere la realtà esterna, dove si comincia a tracciare una guida con tutte le caratteristiche, che siamo un corpo a sé rispetto agli oggetti che ci circondano.

Assimilazione I nostri schemi subiscono modifiche in funzione di agenti esterni, che siano informazioni o esperienze. L’intelligenza è la capacità di adattamento all’ambiente.

Concettuale il pensiero comincia a prendere forma, e si ipotizza mentalmente un’azione prima di compierla.

3. Concezione del gioco

4. Conoscenza

Consiste al raggiungimento del piacere senza un secondo fine, stimolando tutte le capacità morali, motorie e intellettive. Si verificano anche situazioni in cui pian piano la fantasia viene a mancare per lasciare spazio a qualcosa di più concreto

Soggettiva costruzione di significato a partire da una complessa rielaborazione interna di sensazioni, conoscenze, credenze, emozioni. Essa poggia su mappe cognitive che servono agli individui per orientarsi e costruire le proprie interpretazioni.


1.4

La conoscenza è un processo sempre in continua costruzione


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In maniera graduale si manifesterà sempre più il concetto di automazione, ramificandosi dal settore industriale al settore sociale. L’automazione industriale non è altro che quel processo che include un’ideologia dell’impiego di sistemi di controllo per gestire le macchine in processi in cui l’intervento umano viene meno. In ambito industriale quindi, essa racchiude l’insieme di tecnologie che servono per far funzionare un processo in modo automatico, senza l’intervento umano. Ciò comporta all’assidua creazione di macchinari in grado di svolgere le mansioni dell’essere umano, evitando sprechi di denaro e tempo. Genericamente come si verifica nei primi anni 20 essa viene impiegata per l’esecuzione di operazioni ripetitive o complesse, per una maggiore comodità e fruibilità. Da qui in poi si evincerà una mutazione in quanto l’automazione pian piano si dileguerà in settori sempre più piccoli, legandosi alla nozione di consumo, ma infiltrandosi anche nel sistema delle relazioni sociali. Questa transizione fu inizialmente individuata da Butera, definendo l’automazione come quel fenomeno che ha insieme natura tecnologica economica, organizzativa e sociale e ha per oggetto la gestione e l’evoluzione di complessi sistemi tecnico-organizzativi che realizzano processi produttivi di prodotti e/o servizi. Una volta aver gettato le basi teoriche sarà in un futuro non molto lontano che l’automazione verrà intesa come sviluppo tecnologico da parte di Jaffe e Froomkin, i quali sosteranno che che la nozione di sviluppo sia in stretto legame con una serie di invenzioni, creando una suddivisione in Cambiamento Tecnologico, invenzioni e meccanizzazioni. Il cambiamento tecnologico influisce non solo sulla produzione del prodotto finale, ma anche sul processo che dà luogo alla produzione, mentre le invenzioni altro non sono che cambiamenti tecnologici considerati come nuove macchine. Infine la meccanizzazione racchiude ogni singola modifica che aumenta la quantità di produzione. Queste teorie che vennero stilate verso il 1968, creano duplici argomentazioni del tutto discutibili.


Come vediamo nella prima suddivisione, si analizza come appunto il cambiamento e non l’evoluzione tecnologica possa cambiare le sorti di un prodotto finale, che sia un bene o un servizio. Un solo e piccolo cambiamento determina la sorte di tutta l’intera produzione. Mentre invece l’evoluzione porta all’ideazione di nuove invenzioni, che si riveleranno solo come nuove macchine. Si discute su come le nuove invenzioni in realtà, abbiano subito una costante presenza meccanica, evincendo quel processo di meccanizzazione che si intende come quel cambiamento positivo di cui tutti siamo sempre alla ricerca. Dieci anni prima dall’ideazione di queste teorie, Bright e Crossman concepirono quella piccola valenza umana che si dilegua all’interno dei processi di produzione. Ciò dimostra come sin dal principio la presenza umana diventa sempre più debole, e su come lascia spazio ai settori industriali. L’ automazione non è un processo, ma una tecnologia che sostituisce mediante il controllo automatico di processi, funzioni che dovrebbero appartenere all’uomo. Una volta scomparsa la presenza dell’uomo, il vuoto viene colmato da nuove definizioni come quella di Drucker, secondo il quale l’automazione sarebbe l’uso di macchine per guidare macchine, dove oltre a occuparsi di produzione, possono anche occuparsi di procedimenti d’elaborazione di dati. Ci si è sempre indagati se le macchine potessero superare l’uomo, o se l’uomo è schiavo delle macchine, eppure nonostante gli anni la domanda rimane ancora in una mistica nube. Sicuramente lo sviluppo dei sistemi di automazione ha sempre posto dei punti interrogativi sulle conseguenze di tali processi, dal momento che l’automazione ha ridotto la manodopera. Molti teorici hanno cercato di metterci in guardia su eventuali ripercussioni, poiché il potere dell’automazione tramite l’uso di grafici, che si tratti di classificazioni di rischio o sull’uso, condividono una sola filosofia, la perdita di creatività. Impersonalizzazione e perdita del fattore umano è ciò che ha sempre preoccupato i più grandi teorici della fenomenologia dell’automazione.


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Fernandez Arman Chopin’s Waterloo 1962


Nella pubblicazione ‘Anatomy of automation’ (1962) George H. Amber e Paul S. Amber, definiscono l’automazione come la tecnologia necessaria per la realizzazione di macchine in grado di sostituire uno o più attributi dell’uomo nell’effettuare un lavoro, proponendo una classificazione basata sugli attributi sostituiti Da notare nella seguente classificazione la posizione delle due fasi che precedono la distruzione dell’umanità, quella in cui si verifica l’assenza di creatività, preceduta dall’assenza del ragionamento. Gli autori della classificazione ipotizzano che la relazione tra il processo di ragionamento e di creatività laddove si annulli, sia l’ultimo tassello in grado di determinare un dominio dei media basandosi sull’intera distruzione dell’umanità. Nonostante sia del tutto contestabile, non si vuol porre l’attenzione se i media riusciranno ad avere il dominio assoluto dell’uomo, bensì il ragionamento che ne vuol uscir fuori è evidenziare la pericolosità dei media in ambito progettuale, ipotizzata già dagli studiosi che vi sono preceduti.


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ordine

attributo sostituto

esempi

0

Nessuno

Utensili manuali

1

Energia

Utensili motorizzati a controllo manuale (trapano hobby)

2

Destrezza

Automazioni a ciclo singolo (tornio parallelo)

3

Diligenza

Automazione a ciclo ripetuto (macchine transfer)

4

Giudizio

Controllo a ciclo chiuso (controllo numerico)

5

Valutazione

Capacità di ottimizzazione del ciclo (macchine CNC con logiche adattive)

6

Apprendimento

Limitate capacità di auto-programmazione

7

Ragionamento

Capacità di ragionamento induttivo

8

Creatività

Capacità di creare manufatti originali

9

Dominio

(HAL9000, 2001 Odissea nello spazio)

10

Dominio II

Distruzione dell'umanità (Matrix)

George H. Amber e Paul S. Amber Classificazione basata sulla sostituzione tra tecnologia e uomo In Anatomy of Automation (1962)


Definizioni e teorie dell’automazione


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Jaffe e Froomkin

Butera

– Cambiamento Tecnologico Influisce non solo sulla produzione del prodotto finale, ma sul processo che dà luogo alla produzione, si analizza come il cambiamento e non l’evoluzione tecnologica possa cambiare le sorti di un ‘prodotto finale’, Un piccolo cambiamento determina l’intera produzione.

Complessivamente l’automazione viene intesa come quel fenomeno che ha insieme natura tecnologica economica, organizzativa e sociale e ha per oggetto la gestione e l’evoluzione di complessi sistemi tecnico-organizzativi che realizzano processi produttivi di prodotti e/o servizi.

– Invenzioni Altro non sono che cambiamenti tecnologici considerati come nuove macchine – Meccanizzazioni Racchiude ogni singola modifica che aumenta la quantità di produzione

Bright e Crossman

Drucker

Concepirono quella piccola valenza umana che si dilegua all’interno dei processi di produzione, secondo cui l’ automazione non è un processo, ma una tecnologia che sostituisce mediante il controllo automatico di processi, funzioni che dovrebbero appartenere all’uomo.

l’automazione sarebbe l’uso di macchine per guidare macchine, dove oltre a occuparsi di produzione, possono anche occuparsi di procedimenti d’elaborazione di dati.


1.5

Sociologia della conoscenza


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L’assidua e frenetica produzione, può determinare una produzione eccessiva rispetto a ciò che richiede il mercato, aumentando sprechi o eccedenze. Eppure in determinati casi specifici gli oggetti hanno una disposizione indipendente dalla funzionalità e dalla distribuzione, come avviene per esempio, nei supermercati, in cui ritroveremo la produzione costosa a tutto scaffale. La prima regola nei supermercati è che non ci devono essere vuoti, altrimenti il sistema di continuità e dell’oggetto cade. I prodotti, in misura sempre maggiore, devono essere corredati da un insieme di servizi associati, aumentando in questo modo la loro complessità Con l’avvento del primo supermercato (4 agosto 1930 a New York ) Michal J. Culen segna nuovi percorsi di studi come l’inizio formale dell’era del consumismo. Forse proprio per questo gli anni Venti possono essere ricordati, anche per alcune campagne che hanno avuto un carattere anticipatorio sia per quella che sarebbe stata la pubblicità a venire, sia per i comportamenti sociali che si sarebbero consolidati solo a distanza di molto tempo. Perché la nozione di consumo è importante? Basti pensare che molti ritengono che i luoghi più visitati della terra siano caratterizzati dal turismo culturale (musei, templi) o ai parchi divertimento, mentre invece, tutto prende la direzione del puro consumo, in quanto il primato dei posti più frequentati della terra spetta ai centri commerciali. Ciò su cui ci si deve soffermare è il fatto che il consumo non implica necessariamente il consumismo, perché si può consumare anche molto in modo responsabile senza necessariamente essere consumisti. Per cui sarà di notevole importanza il legame tra consumismo e automazione, perché il consumismo traccia dei confini di pericolo che possono anche essere superati. Capirne le origini non solo implica a una maggiore comprensione degli aspetti più significativi della vita contemporanea, ma anche una maggiore consapevolezza che esistono fattori sociali che esercitano una profonda influenza


sulla cultura e la mentalità contemporanea. L’uomo inconsciamente ha sempre dimostrato di essere trasparente e ricettivo al nuovo mondo del consumo. Ciò lo dimostra il tedesco Walter Benjamin, dove già sin dai tempi della nascita della fotografia e del cinema, lo statuto dell’arte subì varie mutazioni. In qualche maniera, il ridare un senso agli oggetti inutili, perché le immagini a valore tecnico (contenenti un significato simbolico intrinseco) possono assumere anche un valore espositivo (contenenti un significato simbolico estrinseco). Gli oggetti, le opere e qualsiasi artefatto possiede una dote definita dal filosofo come un aura simbolica. Essa è tutto ciò che custodisce l’essenza simbolica di un opera, anche se appare in lontananza, può essere vicino ciò che suscita, essa s’impadronisce di ognuno di noi. Si teorizza il valore e il potere di un oggetto, e in ciò che esso susciti in un noi distaccandosi da un valore simbolico a estetico, si pone per esempio l’acquisto di un ipotetico oggetto domestico come un vaso, che si acquista per il suo valore espositivo perché deve armonizzarsi con lo stile della stanza in cui esso vi è collocato, ma ciò non toglie che possa essere dotato di una sua aura simbolica. Il legame che si pone tra il filosofo Benjamin e la nostra ricerca, si focalizza su determinati concetti, tra cui il valore di autenticità. Anche se dagli albori le immagini cominciano a perdere il loro valore simbolico per avvicinarsi a un valore estetico, tale mutazione rende accessibile lo statuto dell’arte a una quantità maggiore di persone, e ciò ha in una minima parte permesso grandi incomprensioni da parte di chi non è un intenditore. Il concetto menzionato prima, ovvero l’autenticità, è una valutazione davvero importante del mondo della progettazione grafica, perché va in netto contrasto con la serialità. Eppure si fa sempre riferimento all’autenticità perché le opere riprodotte non perdono mai l’aura. Dove l’arte incontra la tecnologia? Il legame tra le due è indissolubile, l’aura si stempera e tende a mutarsi in una nozione di kick, dove il carattere di consumo va in netto contrasto con

Yves Klein Le vide 1958


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l’arte. Questa tendenza investe tutti i settori e non solo l’arte, ma anche cinema, teatro, musica e televisione. L’aura comincia a perdere il suo valore e le opere cominciano ad aver sempre più un’intenzione popolare. Si può constatare quanto un processo cognitivo del tutto invisibile abbia rivoluzionato in modo silenzioso un intero sistema di mezzi di comunicazione e delle informazioni da essi diffusi. L’arte, coperta da un valore mistico e aureo grazie o a causa della relazione con i nuovi media si diffonde su scala planetaria. Vi è chiara una netta separazione tra pratiche rituali e pratiche culturali Molti spunti ideologici furono lasciati anche dal filosofo Vilém Flusser, che distingue diverse fasi dello sviluppo umano, nelle quali sin dall’inizio si delinea fondamentale l’utilizzo della mano e la creazione di oggetti. Lo stendere le mani verso il mondo può essere definito ‘azione’ e lezioni guidate da una Weltanschauung, che conduce alla nascita della cultura. L’azione razionalizzata si separa e si rende autonoma dalla contemplazione, dall’identificazione con i diversi ordini di realtà espressi del simbolo. Gli oggetti vengono alienati e trasformati dalla fotografia incarnandosi in simbologie e rituali. Per Flusser l’invenzione e l’utilizzo della scrittura si pongono come un modo per regolare l’effervescenza magica dell’immagine in maniera simbolica. Egli parla di ‘diluvio’ delle immagini, che può essere arginato sia attraverso simboli e forme culturali tradizionali, sia tramite un utilizzo delle immagini tecniche che rallentano il flusso della produzione visiva. L’inizio dell’epoca moderna è caratterizzato da un’anomia rituale, l’operato dei rivoluzionari moderni si fonda sulla conoscenza della natura del tecno consumismo, che si manifesta attraverso una capacità di manipolazione simbolica. La funzione di rallentare il diluvio delle immagini permette a qualcuno di fermarsi a riflettere, staccandosi dal ritmo frenetico imposto dalla cultura capitalista. In una prospettiva che segua le visioni di Flusser sono i corpi inutilizzati

Michelangelo Pistoletto Venere degli stracci 1961


privi dello spazio rituale, e le menti proiettate che violano la dimensione digitale come la visione di William Gibson nella teologia di Matrix (Andy e Larry Wachowski). Un software che riproduce un mondo in cui ambienti, ruoli e destini sono programmati dalle macchine. L’essere umano pensa di non aver bisogno di un Dio perché possiede il suo stereo e la sua tv, come l’uomo che pensa di avere gli strumenti e non pensa di aver bisogno della propria conoscenza. Anche se teorizzato come una sorta di religione, il consumismo come l’automazione si lega al pensiero umano incarnandosi in rituali e non semplici abitudini, rituali guidati da simbologie. Sia l’automazione e sopratutto il consumismo, si sono radicati profondamente nella nostra società e vita proprio perché sfruttano queste forme di rituali e forme di socializzazione. In una piccola sfaccettatura si può assumere una valenza positiva e terapeutica, come una sorta di falso farmaco contro la frenesia della vita contemporanea. Siamo abituati ad un alto consumo d’immagini causati dai nuovi media, si investe su quelle piattaforme che non vendono beni o servizi ma offrono uno scambio di informazioni, come il caso dei social network. È considerevole quanto le relazioni sociali siano sempre state influenzate dalle tecnologie mediatiche, per cui si avvia un processo nel quale il cliente diventa parte integrante nella fase di progettazione. Il progressivo aumento dell’importanza della vita sociale online ha avuto delle conseguenze importanti anche per la ricerca sociale, che ha sviluppato un insieme di metodi di studio, come lo svolgere molte attività umane in rete come l’approccio: big data, ovvero l’analisi di grandi insieme di dati da cui si cercano di estrarre informazioni. L’utente si muove in uno spazio virtuale in antinomia alla realtà quotidiana. L’identità si congela e l’individuo può nascondersi dietro questo spazio fittissimo di nome cyberspazio. Si verifica inizialmente una relazione tra produttore e consumatore, che

Andy e Larry Wachowski Enter the Matrix 1999


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sfocia in una crisi d’identità. L’uso della tecnologia maschera sempre il nostro intelletto, tende a muoversi nell’ombra, anche dalle cose più semplici. Si pone per esempio, quanto sia possibile riconoscere dalla grafia, se l’utente è mancino o destrorso, ma già nel primo sussidio tecnologico è pressoché impossibile. I media digitali tracciano una nuova linea cronologica segnando l’avvento dalla trasposizione analogica a digitale, in cui ci s’immedesima in metafore attive, in quanto hanno il potere di tradurre l’esperienza in forme nuove. Queste metafore che hanno una funzione apparentemente di trasporto e di veicolazione di rituali, fanno si che traduce e trasforma il mittente, perché trasformano tutto ciò che trasportano. Sempre a partire dagli anni Sessanta del Novecento, gli studiosi che hanno esaminato le particolarità tipiche dei fenomeni innovativi (siano essi economici, storico-economici o storico-scientifici) hanno cercato di suddividere le cause scatenanti delle innovazioni in due classi fondamentali: Demand pull o Technology push. Le invenzioni avvengono quindi per necessità di un bene (processo produttivo) o per la semplice ragione che alcune scoperte scientifiche danno si che tecniche, materiali e risorse possano essere trovati e usati con più facilità, rendendoli molto più economici e accessibili. Quando un alto consumo di nuove innovazioni s’impossessa della nostra mente, le nostre capacità vengono ibernate, lasciando libero arbitrio meccanismi privi di logica. Il nostro automa interno, la nostra mente è l’unica cosa che ci fa cedere ai meccanismi ma anche ciò che ci permette di riconoscere il problema. La transizione da analogico al digitale, che adesso può apparire immediata, in realtà nasconde dei suoi precedenti, come nel caso del DK-type, il quale ha sempre cercato di imitare il più possibile le lettere dei manoscritti. Scelta peculiare, eppure ci fa capire come l’inventore fosse cosciente di stare producendo una novità, ma aveva anche ben presente il mercato dei possibili clienti, abituati appunto alle


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lettere manoscritte e che quindi non dovevano trovarsi di fronte a un ‘salto stilistico‘ troppo difficile da assimilare. L’invenzione ricombina in modo originale e geniale tecniche precedenti, senza dimenticare che esiste ancora una sorta di ‘resistenza’ negli utenti a passare da una tecnologia ad un’altra. Ragione per cui sarà più comprensibile il contributo di un grande sociologo come Marshall McLuhan, attraverso ‘La galassia di Gutenberg’: «La differenza tra l’uomo di cultura a stampa e quello di una cultura amanuense è quasi altrettanto grande di quella che vi è tra un non-letterato e un letterato. Le componenti della tecnologia di Gutenberg non erano nuove, ma quando furono messe una accanto all’altra vi fu un’accelerazione di azioni sociali e individuali corrispondenti a un ‘decollo’, come quel lasso di tempo determinante nella storia di una società quando la crescita diventa una condizione di normalità.» Si pone di decisiva importanza, la funzione attiva che il cervello deve assumere in una condizione meccanica. L’obiettivo è di ‘risvegliare’ l’umanità contemporanea, non dal sonno dogmatico di cui fa riferimento Kant, ma dal ‘torpore narcisistico’, definito come una sorta di sonno tecnologico che ci rende inconsapevoli di quanto siamo direttamente coinvolti nelle attività di comunicazione. L’automazione si pone tra le tante cause, e non soltanto scompaiono vari impieghi, ma aumentano anche dei ruoli complessi, per cui si consideri l’automazione come informazione. Eppure, essa pone termine anche alle materie differenziate nel mondo del sapere, non però, naturalmente al mondo del sapere. La maggior difficoltà in cui ci s’imbatterà, si richiude nel cercare di imparare a convivere nell’era dell’automazione, perché essa pone fine alle antiche dicotomie tra tecnologia e cultura, tra arte e commercio e tra lavoro e tempo libero. Mentre nell’era meccanica della frammentazione il tempo libero era assenza di lavoro, oggigiorno viviamo nel periodo in cui l’informazione richiede l’uso simultaneo di tutte le nostre facoltà.


Ci si accorge di riposare sopratutto quando siamo intensamente coinvolti, come del resto accade sempre agli artisti. I progettisti, sanno da tempo che gli oggetti non sono contenuti nello spazio, ma generano spazi propri, e uno dei fenomeni più significativi dell’era dell’automazione consiste nel creare un sistema globale simile al nostro sistema nervoso centrale, il quale non funge solo da rete elettrica, ma da un campo unificato d’esperienza. Come asseriscono anche molti biologi, il cervello è il luogo dove si possono scambiare e trasformare esperienze e impressioni d’ogni genere, il che ci permette di reagire al mondo. L’automazione infatti non è un’estensione dei principi meccanici di frammentazione e separazione delle operazioni, ma l’invasione del mondo meccanico da parte dell’istantaneità dei media, per questo coloro i quali se ne occupano direttamente, affrontano la causa con un pensiero laterale, sintetizzando che il tutto non diventi solo un modo di fare, ma un modo di pensare. Oggi il processo di automazione, trasformatosi in informazione assume un’etimologia molto delicata, ovvero l’informatizzazione. Essa investe tutte le unità del processo industriale e commerciale, nello stesso modo in cui la radio e la tv stabiliscono nuovi rapporti d’interdipendenza tra i singoli membri del pubblico tramite solamente lo scambio di informazioni La tecnologia estende il processo istantaneo della conoscenza mediate un rapporto tra le sue componenti analogo a quello in corso, da sempre all’interno del nostro sistema nervoso centrale, costituendo una velocità istantanea. Questa stessa, costituisce un’unità organica che si era decisamente messa in moto tramite Gutenberg, in cui si approccia ad una produzione di massa, ma non solo in termini di dimensioni, ma anche ad una nuova metodologia istantanea e onnicomprensiva. Analogamente anche i mass media condividono questa metodologia, perché non ci si riferisce alla dimensione del suo pubblico, ma al fatto che ognuno vi si trova


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contemporaneamente coinvolto. Sia che si parli di veicolazioni di informazioni o di emozioni, tramite i nuovi sistemi di tecnologia il mezzo comunicativo diventa il messaggio stesso. La valenza significativa infatti viene determinata dalla tecnologia utilizzata, perché assume un potenziale che potrebbe sradicare l’intera sfera sociale, perché nel caso in cui tutto è rivolto a informazione, tutto è manipolabile. I media diventano anche strumento di mutazione sociale. L’automazione influenza non soltanto la produzione, ma anche la fase del consumo, pertanto vi è una considerazione da fare: in ogni macchina automatica come in ogni galassia di macchine e di funzioni, la generazione e la trasmissione dell’energia sono separate dall’operazione che di questa energia s’avvale. Di conseguenza, la fonte dell’energia è distinta dal processo di trasformazione dell’informazione o di applicazione della conoscenza, difatti l’energia diventa contenitore, diventa magazzino e acceleratore d’informazione, vitale ed essenziale per qualsiasi medium di comunicazione. In particolare si fa riferimento a una considerazione di Platone, il quale non a caso fu uno dei primi ad avvicinarsi nell’ambito pedagogista, asserisce che la nascita della scrittura avesse un minuscolo difetto che avrebbe colpito l’intera società. Contestualizza su come la storia dell’uomo si potesse tramandare con l’uso di fonti scritte, eppure per il filosofo la trasmissione di queste informazioni doveva essere veicolata secondo un percorso prettamente orale, e tramite una relazione educativa con il maestro, poiché il vero apprendimento avveniva a voce, come se la scrittura potesse bloccare non solo determinati processi cognitivi, ma anche la nostra memoria e la nostra predisposizione all’ascolto. Per cui un uso eccessivo della scrittura avrebbe potuto azzerare o nascondere processi intellettivi che ci permettono di avere padronanza sulla nostra memoria. Sconcertante a primo impatto, ma sicuramente molto discutibile e contestabile.



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Nonostante potrebbero esistere migliaia di punti da cui analizzare tale pensiero, ci si limita solamente a cogliere il dogmatico eccesso di ciò che nasce con un principio culturale evolutivo. Ciò che si vuole tenere in considerazione è il giusto rapporto con i nuovi sistemi di automazione. Perché le macchine dovrebbero prendere il controllo su noi stessi? Semplicemente perché azzerano determinati processi cognitivi che ignoriamo durante l’uso di essi.

Barnett Newman onement 1948


1.6

Come la Filosofia diventa design concettuale


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Analogamente all’arte, la filosofia può essere una disciplina banale, sciocca, ripetitiva e stucchevole, ma allo stesso tempo può essere straordinaria, profonda e capace di dare significato e senso a quanto ci circonda e alle nostre stesse vite ed esperienze. Ma perché proprio questa disciplina? Esattamente perché la filosofia è passione per il sapere e il capire dove l’autoriflessività diventa inevitabile. Anche se essa ha origini classici, come Platone e Aristotele o scientifica come Cartesio e Frege essa non è però, riconducibile a una scienza o a determinati prassi logiche ed empiriche. Come già ripetuto, nel corso degli anni la rivoluzione digitale sta trasformando profondamente ogni aspetto della nostra vita, con passo rapido e incessante, dall’istruzione culturale all’intrattenimento, o dalla comunicazione al commercio. Ciascuno di noi è libero di aggiungere alla lista i suoi preferiti, ma tutti hanno pur sempre subito una trasformazione tecnologica. Ciò comporta ad una conseguenza, si considerino le tecnologie digitali non soltanto come strumenti che si limitano a modificare il modo in cui interagiamo con il mondo, ma come sistemi che danno una nuova formattazione che influenza sempre di più il modo in cui comprendiamo il mondo e come ci approcciamo ad esso, al modo in cui ci rapportiamo con noi stessi fino al modo in cui interagiamo fra noi. Insomma modificano la natura intrinseca di ciò che toccano. Considerando che ben tre rivoluzioni scientifiche hanno avuto nel corso della storia un grande impatto sul modo in cui concepiamo noi stessi, modificando la nostra comprensione del mondo esterno sono stati anche in grado di modificare qualcosa di profondo nascosto in noi stessi. Infatti a partire dagli anni Cinquanta l’informatica e le tecnologie digitali hanno iniziato a mutare la concezione di chi siamo, scoprendo identità congelate e isolate. Queste identità di molteplici profili, sono agenti informazionali interconnessi che condividono con altri agenti artefatti in un ambiente globale, definito da Luciano Floridi come Infosfera.


Invece la quarta rivoluzione industriale, offre l’opportunità storica di ripensare che cosa vi sia in noi di eccezionale in due modi. Nel primo, il nostro comportamento intelligente viene chiamato a confrontarsi con quello di artefatti che si adattano alla nostra infosfera. Invece, il nostro comportamento libero si pone a confronto con la prevedibilità e la manipolabilità delle nostre scelte, nonché con lo sviluppo dell’autonomia artificiale. Perché abbiamo definito il nostro spazio virtuale come infosfera? La connessione logica interseca due etimologie, destinate a collegare tutto ciò che è informatore, informazione e informatizzazione. Tra le 3 componenti che definiremo informe, vi è ovviamente un’assenza di segno grafico in grado di destabilizzare il linguaggio dell’intelligenza visiva. Mettendo in connessione la trasmissione, l’acquisizione dati tramite l’uso di sistemi informatici, si rientra in uno spazio virtuale non definito. Da qui si accosta il duplice significato di sfera. Dare alla mente, un luogo fisico alle informazioni. Nonostante la sua forma sia armoniosa, essa è dotata di una solidità geometrica, dentro cui i punti hanno, da un punto fisso detto centro, distanza non superiore a un numero dato, detto raggio. Questa linea simboleggia la rete e il percorso che compie l’informazione dall’informatore tramite l’informatizzazione. Inoltre nel corso della storia ha sempre avuto un fascino del tutto mistico e anche magico, non a caso la sfera di cristallo veniva usata per prevedere il futuro. Le tecnologie digitali sembrano conoscere i nostri desideri meglio di noi stessi. La filosofia ci aiuta a dare senso a questi cambiamenti radicali prodotti dalla rivoluzione digitale. In questo campo del tutto vasto, ci si pone un’immediata distinzione tra espressioni epistemologiche (definite da Bertrand Russell) e metafisiche. La prima si lega alla natura della conoscenza. La seconda alla natura della dimensione tra realtà e sogno. Nel nostro caso la teoria della conoscenza tocca una sezione maggiore di campiture informazionali.


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informatizzazione

informazione

informatore1

a

o

b

informatore2

cyberspazio

c

AO=BO=CO=r COB=2r=d BOA=2r=d AOC=2r=d COB=BOA=AOC

Simone Tosto Rappresentazione visiva del sistema dell’infosfera (2020)

informatore3


«Esiste nel mondo una conoscenza così certa che nessun uomo ragionevole possa dubitarne?» Con queste parole, il filosofo e matematico Russell lascia nel desiderio umano un apparente vuoto. È davvero così semplice rispondere alla domanda? Assolutamente no, infatti è una delle più difficili mai poste sin da allora. La filosofia non nasce dal bisogno di dare risposte, e in ciò entra in gioco la scienza, essa ci incentra sul porsi delle domande, ma che siano quelle giuste. Magari, dopo aver capito i vari ostacoli che ci impediscono di dare una risposta immediata, la disciplina filosofica tenta di dare a volte delle risposte a domande fondamentali. Il tono però non è con noncuranza o dogmatico come facciamo nella vita di tutti i giorni, e nemmeno come la scienza, ma criticamente, dopo aver visto i problemi nella loro complessità, e dopo esserci resi conto di tutta la vaghezza e confusione che si nascondono dietro le idee più comuni. La logica che determina i rapporti tra domanda e risposta viene definita come l’erotetica, e tale metodo di conoscenza va a modellarsi in funzione del paradigma di ragionamento. Si reputa necessario il consolidamento di un sistema di applicazioni metafilosofiche, dove la conoscenza tocca la realtà, in grado di fornire una chiarificazione logica dei pensieri. Una domanda non è filosofica semplicemente a causa del suo argomento, anche rispondere ad una semplice domanda come ‘1+2=3‘ a volte complica la situazione, lasciandosi ingannare da una domanda erroneamente ritenuta matematica. Le domande non devono essere intellettuali, difficili o profonde per essere filosofiche, ciò si rivela essere solo un pregiudizio culturale, esse come quelle empiriche o logico-matematiche, sono caratterizzate da una grande varietà di livelli diversi di valori. Talvolta le domande più sciocche, sono quelle che ci possono condurre a un’ascesa verso grandi domande. Con una metafora visiva, possiamo immaginare queste domande filosofiche come i nodi principali del nostro insieme di domande, come grandi crocevia nelle strade della


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vita. La rappresentazione dei nodi è basata sul raggruppamento sistematico di domande, a volte legate l’un l’altra, che amplificano i loro significati, come del caso del Sudoku, una volta che le risposte più facili sono state determinate, le limitazioni che ne risultano contribuiscono a rispondere alle domande più complesse. Motivo per il quale ognuno di noi, identifica e personalizza le risposte in modo unico, in relazione alle nostre pratiche, stili di vita e scelte. La filosofia è come se gestisse questi parametri, mettendo alla prova le nostre risposte di default, dove vi sarà sempre un’effervescenza simbolica definita milieu o Weltanschauung. È estremamente rilevante se una cultura, civiltà o una società è sensibile nei confronti della filosofia in quanto tentativo di rispondere a queste domande fondamentali, vale a dire in quanto studio delle domande aperte, che disegna gli artefatti concettuali necessari a fornire loro risposta, ne troveremo a seguire alcuni esempi:


Francesco Caronte love 2019


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Francesco Caronte protect your planet 2019


Marco Natolli no more war 2018


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La chiave della cultura “Leggendo non cerchiamo idee nuove, ma pensieri già da noi pensati, che acquistano sulla pagina un suggello di conferma. Ci colpiscono degli altri le parole che risuonano in una zona già nostra - che già viviamo - e facendola vibrare ci permettono di cogliere nuovi spunti dentero di noi.” Cesare Pavese

Vito D’Urso la chiave della cultura 2018


Abdullkerim Turkaya enviromental pollution 2018


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Felipe Jacome ready-set... 2018


Ivan Palomino environment is not a game 2018


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Andrey Erdyakov rethink redesign recycle 2018



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Talvolta si ritiene inappropriato il termine presenza e si predilige ‘telepresenza’. Ci si addensa verso una dimensione psicologica o una percezione soggettiva, dentro cui parte o tutta l’esperienza attuale di un individuo è generata o filtrata da una tecnologia adattata all’umano, parte o tutta la percezione dell’individuo non è in grado di riconoscere accuratamente il ruolo giocato dalla tecnologia nell’esperienza. A eccezione dei casi più estremi, l’individuo può indicare correttamente che sta utilizzando la tecnologia, ma in qualche livello e in qualche misura le sue percezioni non rilevano che conoscenza, oggetti, eventi, ambienti sono percepiti come se la tecnologia non fosse coinvolta nell’esperienza. L’esperienza e la percezione entrano in simbiosi dove nella prima vengono considerate delle pratiche, l’osservazione e l’interazione con oggetti e persone, dentro un particolare ambiente. La seconda terminologia indica il risultato del percepire come una significativa interpretazione dell’esperienza. Nel corso del tempo, vennero a formasi le prime teorie fondamentali, individuate da Lombard e Ditton nel 1997. Il loro lavoro si volge verso un trittico autonomo di teorie. 1. Si riduce a una percezione specifica, quella visiva, ovvero l’assimilazione di particolari forme e colori. 2. Si specifica, cognitivamente come un determinato tipo di esperienza, un’interpretazione psicologica, soggettiva dotata di significato, di ciò che è sperimentato. 3. Si specifica il determinismo di una specifica esperienza, qualificata semanticamente, come una percezione di contenuti che non riesce, almeno in parte, a essere al contempo una percezione della propria natura tecnologicamente mediata. Nel design concettuale, i dibattiti appaiono causati dall’incapacità di comprendere quale sia il livello di astrazione a cui la questione dovrebbe essere correttamente affrontata, ma ciò non significa che il metodo rappresenti un rimedio universale.


Spesso il disaccordo non è basato sulla confusione, invero, un disaccordo informato e ragionevole è precisamente ciò che caratterizza la nostra opinione purché si precisino quali siano gli osservabili in gioco e quali finalità orientino la scelta. La finalità di un artefatto concettuale, mette in discussione le tre arti identificate da Platone nel chi ne farà uso, chi lo realizzerà e chi lo imiterà. Il filosofo sostiene che l’utente conosce meglio l’artefatto del suo costruttore. Chiaramente è tutto un controverso, ma rimane molto discutibile. Sicuramente è l’utente che sa meglio se all’artefatto sia stata conferita la forma corretta, determinando le proprietà funzionali e verificare in seguito se soddisfi le reali esigenze richieste. Altrettanto mistico rimarrebbe la considerazione di come il costruttore possa effettivamente realizzare un buon artefatto senza avere fin dal principio una corretta rappresentazione del suo prototipo. In soccorso ci affianca la prima metà del decimo libro della Repubblica riportando il celebre argomento dei 3 letti (597b): Il letto ideale è prodotto da Dio, il letto fisico dal falegname, il letto finto risulta dall’interpretazione, imitazione del pittore. Nonostante ci siano parecchi pareri contrastanti sulla propria imitazione, il culmine di questa narrazione volge al termine quando si mette a risalto che Dio ha un’intrinseca conoscenza del letto, poiché è lui la fonte del prototipo. Per tale ragione Platone colloca l’utente come quella figura che deve avere quella maggiore esperienza in grado di fornire al fabbricante pregi e difetti che si rivelano nell’uso. Ovviamente la teoria di Platone non è assoluta, riscontriamo parecchie difficoltà nell’asserire che un utente di iPhone possa avere maggiori competenze della apple, infatti non troveremo un giusto o sbagliato, troveremo una via che può essere colta, una via gettata da un’idea molto semplice e apparentemente ambigua. La conoscenza del costruttore è quella dell’utente, specialmente quando si tratta di contenuti teorici, informazioni e valori da trasmettere. Talora l’idea


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fosse semplice, le domande filosofiche spesso sollevano problemi multiformi, e a volte questi stessi problemi costruiscono il nostro spazio di fuoriuscita da loro stessi. Talvolta il costruzionismo, ovvero una teoria dell’apprendimento secondo la quale l’individuo che apprende, costruisce modelli mentali per comprendere il mondo intorno a lui, ci offre delle linee guida per scegliere come osservare un problema. In primo luogo si può conoscere solo ciò che si costruisce, e pertanto non si può conoscere l’autentica natura della realtà in sé. Ritorna il concetto della conoscenza, che ha subito un nesso con questa teoria dell’apprendimento, affermando che soltanto ciò che può essere costruito può essere conosciuto, e tutto ciò che non può essere costruito non può diventare nemmeno soggetto a ipotesi di lavoro. L’etimologia della parola Design, oggigiorno è assai diffusa, ma inizialmente si riferiva solamente alla linea e la forma di un oggetto industriale. Non esiste una reale traduzione in italiano, ma il termine che vi si avvicina di più è progettare, legato all’ideazione, meditazione su una costruzione che si ottiene mediante l’uso di calcoli o disegni. Nonostante ciò oggi attraverso il consumismo e l’evoluzione tecnologica questa terminologia ha abbracciato molteplici professioni, da graphic design, fashion design etc… l’idea rimane comune, all’ordine delle cose fisiche, materiali e immateriali che ogni giorno entrano nelle nostre vite, esiste un processo globale di progettazione, nel quale convergono ideazione, produzione, comunicazione, utilizzo, consumo e riuso, il design. Da considerare che inoltre è presente pure Human design, che concentra l’attenzione sulle persone, e sulle loro aspirazioni, necessità e felicità, sulla possibilità di miglior utilizzo delle cose e vita in un idoneo contesto generale ambientale, culturale e psicologico. Questo aiuta a ragionare attorno al ruolo etico. Tutto ciò è stato possibile dal momento che questa terminologia esprime una connessione interna tra arte e tecnica. Purtroppo la nuova forma di


cultura a cui il design dovrebbe ispirarsi dovrebbe spianare la strada, è una cultura consapevole del fatto di essere fallace. Qui il filosofo Vilém Flusser s’interroga nuovamente su chi e che cosa inganniamo quando ci si occupa della cultura. Una volta abbattuta la barriera tra arte e tecnologia, si otterrebbe una nuova prospettiva, dentro cui sarebbe possibile creare design sempre più perfetti, liberarci sempre più dalla nostra condizione e vivere in modo più artistico. Ma il prezzo che si paga, è la perdita della verità e dell’autenticità. Non poco scontato, è il fatto che vi possa coesistere un’etica nella progettualità, con lo scopo di creare artefatti utili, con una progettazione designata a soddisfare i criteri dell’utilità e accurata, attenendosi alle conoscenze scientifiche. L’argomento della moralità sugli artefatti, e della responsabilità morale e politica del designer, ha tuttavia assunto nella situazione attuale un nuovo significato. Per esempio durante gli anni 20 mentre il tipografo William Addison Dwiggins conia il termine graphic design, L’illustratore Montgomery Flagg progetta il primo importante e famoso poster di propaganda, ‘I want you for U.S.’ commissionato dall’esercito americano per la chiamate delle armi, in cui posiziona lo Zio Sam con il dito puntato verso il lettore, coinvolgendo l’osservatore ad arruolarsi nell’esercito. Nonostante sia stata una progettazione geniale, egli si pentì di averlo divulgato, giacché si rese conto di vendere la guerra ai giovani, percepì un etica e una moralità non del tutto genuina. Tale ragionamento pone il filosofo Flusser a considerare che il concetto di design ha sostituito il concetto di idea, nonostante il design sia un tentativo di coniugare la società con i processi industriali. Nozione di notevole importanza, è l’innovazione, ma non intesa come novità, in quanto la prima allude a un mutamento sostanziale e tendenzialmente duraturo, mentre la seconda ha in sé una componente di velocità e volubilità, ed è collegata a continue proposte che si legano sempre a moda e consumo, per cui ovviamente le novità sono più frequenti

James Montgomery Flagg I want you 1917


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delle innovazioni. È importante contrassegnare che l’innovazione di design viene innescata da un modello di collaborative innovation, in sostanza collegata all’interazione fra gli interpreti del processo progettuale collettivo e all’investimento in cultura, cioè nel sistema conoscenza complessivo che viene promosso. In questo senso i designer, portatori di una cultura e di un approccio generalista e allo stesso tempo puntualmente competenti sullo specifico del progetto, sono attori ideali del processo dell’innovazione anche perché le grosse competenze su un singolo argomento ostacolano l’esattezza delle previsioni. Come vedremo in seguito si può guardare al lavoro del designer da diversi punti di vista: il rapporto che instaura con la committenza, il tipo di organizzazione dello studio professionale,

Oliviero Toscani la parata di preservativi colorati 1991

le sue dimensioni e competenze, gli ambiti d’intervento e specializzazione. Tra i molteplici rapporti che si istaura con la committenza, si cita in causa il fotografo Oliviero Toscani, che mette in cima i dibattiti l’azienda per cui lavorava, la Benetton. Attraverso una nuova ideologia progettuale che prese il nome di shock advertising, egli ribadisce più volte di non essere un pubblicitario, ma un fotografo, per cui si dedica più alla diffusione di concetti, perché non era suo interesse vendere maglioni. Nonostante le critiche e una collaborazione di 18 anni la Benetton rimpianse il giorno in cui egli non lavorò più per loro, perdendo la sua essenza di cinismo. Egli capì che se fosse stato creato per rendere tutti contenti, non sarebbe stato notato, sarebbe semplicemente annegato nel mare di banalità che lo circondava. Il designer deve quindi possedere una serie di competenze generali inter e multidisciplinari e allo stesso tempo altre specifiche. Seguendo questo percorso vedremo vari metodi concettuali tra il concetto tra forma funzione ideato da Louis Sullivan, il concetto Less is more di Van Der Rohe, e infine Less but better di Dieter Rams.

Oliviero Toscani Amore verginale 1991


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Il pensiero e le sue operazioni


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Quando si parla di comunicazione visiva, si rientra sempre in un contesto in cui abbiamo l’emittente (colui che inizia un processo comunicativo), il messaggio, il canale (digitale o cartaceo), il destinatario, un codice (lingua), un eventuale rumore (tutto ciò che ostacola la comunicazione) e il feedback (reazione del destinatario). Una volta aver compreso questo schema elementare, possiamo scoprire tutte le fasi che compie la nostra idea nell’intento di comunicare, e sicuramente capire a chi e come rivolgere il messaggio, soprattutto immaginando un eventuale posizionamento mentale, su dove esse si possano collocare nella mente dell’osservatore. All’interno della vasta disciplina della metodologia progettuale della comunicazione visiva, il sistema di analisi e il linguaggio visivo compie sicuramente un ruolo fondamentale, anche per capire nel campo della progettazione editoriale, scoprire come comunicano anche i testi visivi. Ci si avvale della semiotica per capire la filosofia del linguaggio, tramite 3 sezioni che prendono il nome di: Pragmatica (che studia le relazioni tra segni e il contesto sociale e comunicativo) Semantica (in filosofia, parte della logica che determina i limiti di un linguaggio corretto mediante l’analisi di simboli d’uso comune, ovvero lo studio delle relazioni tra espressioni linguistiche e il modo in cui si riferiscono) Sintattica (nella filosofia del linguaggio, la parte che studia i rapporti formali dei segni fra loro a prescindere dal loro significato). Dal punto di vista strutturale, si pone invece l’accento sui linguaggi suggeriti dalla semiotica, psicologia della forma, dal mito, dalla retorica, dall’interazione tra i linguaggi e le attitudini creative, quali elementi costitutivi le modalità empiriche che danno forma concreata a ogni sviluppo progettuale. La denominazione stessa, suggerisce la chiave di lettura più consona alla disciplina in questione, dal discorso (logos) del metodo adottata al progetto da realizzare sulla base di un processo comunicativo che, fondandosi sull’immediatezza della


visione, dovrà essere efficace e sentito sia sul piano grafico (immagine e scrittura) che su quello concettuale. Qualsiasi artefatto di cui si parli, vi sono diversi livelli d’analisi, poiché risponde sia di attributi formali che concettuali. Dal punto di vista dell’espressione, dell’apparenza e immediatezza abbiamo il significante, mentre dal punto di vista del contenuto, concettuali e rimando simbolico ed allusione estetica abbiamo il significato. Tra le analisi di C. Peirce il segno può recare in sé tre livelli di significazione: Indexicale (es. nuvola/pioggia significante e significato sono diversi) iconico (es. icona russa significante e significato sono uguali) simbolico ( es. rosa, rosa/passione - croce/cristianesimo, dove la relazione tra significato e significante determina un codice culturale). In alternativa possiamo definire che ogni immagine abbia un segno iconografico, rafforzato dal significato iconologico. La metodologia della comunicazione visiva individua infatti come obiettivo principale la realizzazione di un prodotto, la ricercatezza referenziale cui si aspira, sia a livello denotativo (istanza apparente) che a livello connotativo (istanza secondaria), mutua i suoi percorsi dal mondo dell’arte, del cinema, della televisione, del teatro, e dalle loro combinazioni, inferenze e contaminazioni. La polisemanticità degli argomenti contemplati impone una decodifica delle inferenze interdisciplinari e un approccio analitico approfondito delle discipline che si relazionano in modalità trasversale con la comunicazione visiva. È indispensabile precisare che, fino alla fine dell’Ottocento, la pittura era concepita come un’arte di tipo narrativo che si basava su criteri d’imitazione della realtà. L’artista compiva attraverso la sua opera un gesto di rappresentazione del reale, sia per il paesaggio, che per il ritratto che per altri soggetti. La pittura, agli inizi del Novecento, mette in crisi i suoi linguaggi e il suo carattere imitativo e si ‘disgrega‘ nelle varie correnti delle avanguardie storiche.


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Simone Tosto Rappresentazione visiva della costituzione del segno (2020)


L’approccio generale a tutte le arti cambia da un lato proprio per l’influenza delle avanguardie, dall’altro per l’invenzione delle nuove tecnologie che, in un contesto di cambiamenti caratterizzato in primo luogo dalla rivoluzione industriale, danno vita a nuove forme d’arte e di comunicazione. L’evoluzione del cinema e i suoi complessi linguaggi costitutivi vanno ad alimentare radicalmente una nuova estetica della modernità, influenzando tutte le forme espressive dell’arte. È auspicabile che chiunque si occupi di comunicazione visiva allarghi i propri orizzonti a tutte le forme di visualità, senza tralasciarne le implicazioni sinestetiche (cioè di simultaneità di sensi diversi). Educare la propria sensibilità concettuale a una modalità visiva conferisce un maggiore dinamismo e completezza culturale a ogni forma di atto creativo. Per i primi, importante è l’approfondimento e la padronanza dei linguaggi che caratterizzano la società contemporanea, per favorire, nell’ambito dei propri progetti, una attualizzazione grafico-concettuale delle esperienze e una decodifica acuta dei messaggi cui si è continuamente sottoposti. La Semiotica visiva è suddivisa in figurativa e plastica. Figurativa: immagini in quanto rappresentano il mondo, composizione degli elementi in uno spazio, equilibrio visivo. Plastico: valore legato ad un significato come in passato la pittura adoperava. Tale disciplina esiste perché quando ci troviamo di fronte ad un immagine, il nostro processo interpretativo non si ferma solamente al riconoscimento di ciò che vediamo o alla corretta comprensione dei movimenti dei personaggi, per cui la connotazione è un meccanismo semplice, basato su una successione di associazioni all’interno di una enciclopedia virtuale. Nel linguaggio comune la retorica viene considerata ‘arte del bello scrivere‘. Nonostante sia una definizione parziale perché fa riferimento solo ad una delle 5 parti che compongono la disciplina, essa è anche composta da:


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– Inventio: Argomenti su cui basare un discorso – Dispositio: La disposizione delle argomentazioni – Elocutio: Espressioni che esprimono le argomentazioni – Actio: Voce e gestualità – Memoria: Arte di memorizzazione i corretti passaggi Proprio nella disciplina della semiotica, l’isotopia contiene un’iterazione in una catena enunciativa, di più elementi significativi che costituiscono un’unità di senso, garantendo l’omogeneità del discorso. Tutto ciò che i nostri occhi vedono è comunicazione visiva, con prevalenza di immagini che assumono valori diversi in funzione del contesto nel quale sono inserite, e possono essere: Casuali (liberamente interpretata da chi la riceve), intenzionali(deve indurre al significato voluto dall’emittente) e informazione estetica (ci informa di rapporti volumetrici di una costruzione tridimensionale che sia intesa come un disegno o una foto, poiché non è uguale per tutti.). Il messaggio è fondamentale che si progetti in modo da non essere deformato durante l’emissione dai vari canali, perché passerà prima da vari filtri, per poi essere ricevuto, tra cui sensoriale, operativo (caratteristiche psicofisiologiche) e culturale. Nulla è nell’intelletto, che prima non sia stato nei sensi, dove avviene questa raccolta di dati percettivi in cui la percezione è oggetto di disdegno perché non si ritiene coinvolta nel pensiero. Purtroppo non bisogna mai fidarsi dei propri occhi, poiché non sono strumenti perfetti cosicché la percezione può indurci a inganni, per esempio un bastone nell’acqua appare spezzato. Platone mette in paragone l’ingenua identificazione tra il mondo che percepiamo e il mondo che realmente è; Aristotele introduce la nozione di induzione, e la conoscenza definita statica ottenuta attraverso la raccolta di esempi individuali. Solo ciò che conta viene osservato ed esaminato attentamente, oggigiorno con la facilità d’elaborazione di materiale si limitano anche le operazioni.


I movimenti oculari contribuiscono alla selezione di obbiettivi della vista che appartengono ad una zona tra l’automatismo e la risposta volontaria, delimitando l’occhio e l’area del suo campo visivo, dato che la sensibilità retinica è tanto ristretta, l’occhio può isolare una forma particolare , e porta un obiettivo primario aldilà di un ambiente. La selettività si fa valere anche nella dimensione stereometrica. In ciascun momento, soltanto un ambito ristretto è a fuoco. Se la visione da vicino è netta, lo sfondo è confuso, e viceversa. Tale selettività è ottenuta mediante le lenti del cristallino degli occhi, e la cognizione visiva approfitta di essa allo stesso modo in cui una foto o dipinto possono guidare l’attenzione dell’osservatore, limitandone la profondità. La dimensione stereometrica contribuisce anche a rendere variabile la dimensione degli oggetti, adattabile all’esigenza dell’osservatore. L’immagine ottica proiettata sulla retina è una registrazione meccanicamente completa del suo corrispondente fisico e la percezione della forma consiste nel cogliere elementi strutturali entro il materiale di stimolo, dove vengono imposti, quindi adattare il materiale di stimolo a stampi di forma semplice. Il tutto si regola su una manipolazione psicologica e un gioco di memoria, con forme che stimolano anche la percezione visiva tramite l’occhio. Il vedere viene prima delle parole, è ciò che determina il nostro posto all’interno del mondo che ci circonda, infatti le immagini furono prodotte per evocare e rendere presente ciò che era assente. Associandosi a molteplici punti di vista, l’unità compositiva di un dipinto contribuisce in modo essenziale alla potenza della sua immagine. Non c’è lettera senza visione, il contesto della tipografia e del testo e la sua valenza in ambito di educazione visiva, si rivolge alla lettura dello spazio grafico. Si legge anche con gli occhi in maniera silenziosa e dato che distinguiamo i suoni rappresentati dalle lettere ascoltiamo quando leggiamo. Con l’avanzare del tempo la comunicazione visiva si configura

Julie Rutigliano, Brian Lightbody Rock the vote 2008


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con paesaggi estremamente empirici e specialistici, per cui ci si trova di fronte a un intreccio di teorizzazioni di tipo analitico o interpretativo. La percezione costituisce, infatti un caso particolare delle attività senso motorie, ma il suo carattere peculiare consiste nel fatto che essa rientra nell’aspetto figurativo della conoscenza del reale, mentre l’azione nel suo complesso è fondamentalmente operativa e trasforma il reale. Si tratta di un problema capitale, determinare la funzione delle percezioni nell’evoluzione intellettuale in rapporto a quella dell’azione e operazioni che ne derivano durante le interiorizzazioni e strutturazioni. I meccanismi senso-motori ignorano la rappresentazione e non si osserva la condotta che implichi l’evocazione d’un oggetto assente. Ogni assimilazione senso-motoria consiste nel conferire significati, tra cui la comparsa della funzione semiotica, in cui appare un complesso di condotte che implica l’evocazione rappresentativa di un oggetto assente, presupponendo di conseguenza la costruzione, poichè essi devono potersi riportare tanto a degli elementi non attualmente percepiti quanto a quelli che sono presenti.

Dave Towewrs Tony Kaye 2013


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Arte, emozione e cervello


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Genericamente nelle metodologie progettuali ritroveremo sempre un punto d’origine che prende il nome di genesi, in cui si consolida una risposta in grado di risolvere i nostri problemi mediante la giusta metodologia basata su un’ampia ricerca. Filtrare le nostre idee dal mondo e assimilare l’esperienza durante la fase di ricerca conferma una comunicazione che si volge sul nostro interesse personale, per cui per creare qualcosa di interessante è opportuno essere interessati. Come suddividere e filtrare le prime idee sicuramente sarà un primo limite di difficoltà, per cui si differenziano due tipologie di ragionamenti, lineare e laterale. Nel primo si ha un assestamento di un pensiero perlopiù strategico, logico e razionale, infatti implica un qualcosa di più specifico legato ad una dimensione statica. Invece nel pensiero laterale ritroviamo un’esplorazione indiretta che suscita idee non accessibili col ragionamento lineare (principalmente con l’uso di mappe mentali e non concettuali), per cui la coesione di tali pensieri può fornirci spunti del tutto interessanti. Tutto non è riconducibile a solo discipline progettuali o artistiche, ma anche a discipline metodologiche, poiché qualsiasi cosa noi intenderemo realizzare sarà sempre il risultato di un processo che avrà sempre origine da una metodologia progettuale. In alcuni contesti editoriali bisogna redimere un coordinamento psicofisico degli elementi grafici e simbolici che reggono equilibri di armonia percettiva, per dare una struttura adeguata ai concetti tramite diverse tipologie di segni. L’arte o la progettazione grafica vengono inserite in un contesto ancora più ampio, tutte fanno parte della psicologia del pensiero. Scientificamente è provato che gli occhi non vedono nulla, ma filtrano la luce in impulsi elettromagnetici (che possiamo identificare come informazioni) che arrivano al cervello, permettendoci di ricreare a modo nostro la realtà, quindi la visione è un processo che non avviene solo tramite gli occhi, ma tutto avviene nella nostra mente, perché il cervello non elabora semplicemente le informazioni che provengono da


gli occhi, ma sviluppa anche immagini mentali. In ogni elaborato bisogna sempre gestire bene i rapporti tra le gerarchie visive, perché ciò che si mostra è importante tanto quanto a ciò che si nasconde, poiché si parla di architetti dell’informazione che si occupano della progettazione strutturale di ambienti di informazioni condivise e di sistemi di organizzazione e navigazione, come se fosse una grafica di pubblica utilità che definisce anche l’arte di plasmare l’esperienza dell’informazione in modo da favorire l’usabilità. Bisogna sempre definire una gerarchia insieme ad un ordine logico, in grado di definire meglio la struttura della progettazione. La vera saggezza si acquisisce quando arriviamo a una comprensione della conoscenza, quando le nostre capacità si fondono con l’esperienza. Il ruolo di un architetto dell’informazione è di generare ordine prima che il cervello lo faccia da solo. In alcuni contesti infatti la visione viene considerata come una tecnologia, perché non solo ci si incentra sullo studio della tecnica e delle sue applicazioni, ma anche perché questa terminologia indica sempre una trasformazione di diversi procedimenti, e nel nostro caso la trasformazione avviene tra luce, impulsi elettromagnetici e informazioni. Sicuramente l’idea di tecnicismo ci fornisce maggiori dettagli, dal momento che si ha un’aderenza rigida sulle norme che regolano la realizzazione di qualsiasi attività intellettuale e intellettiva, rischiando una predominanza del fattore tecnico a discapito dell’inventiva personale. La tecnologia è parte integrante dei nostri sistemi di visualizzazione, considerato che sono l’estensione di noi stessi e mezzi per raggiungere i nostri scopi. In ambito di design si ritrova sempre la frase che la forma segue sempre la funzione, eppure molti studiosi del settore hanno anche asserito che la forma a volte vincola la funzione. Tale frase nacque nel 1896 da Louis Sullivan nell’articolo ‘the tale office bulini Artistically Considered’ e ancora oggi ci s’interroga su quanto possa essere veritiera. Un’idea visiva, con una


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correlazione dei vari elementi non deve ostacolare la fruizione, perché non esiste un modo unico per codificare un grafico. L’architetto Sullivan afferma che dietro la forma ci sia la vera natura. La forma di un oggetto tecnologico deve dipendere dalle mansioni per cui deve essere d’aiuto, poiché deve essere vincolata dalle proprie funzioni e ovviamente, meglio sono definiti gli scopi e più si seguirà una forma adeguata. Una buona progettazione visiva garantisce l’esplorazione delle informazioni, e gli effetti decorativi potrebbero occupare spazio destinato ad elementi informativi, quindi a prescindere dello stile bisogna sfruttare lo spazio pensando prima alla struttura, e poi se rimane spazio alle decorazioni, purché non rimuovono spazio che si possa utilizzare. Non bisogna assumere per forza uno stile perché si deve rispondere a determinati contesti comunicativi, in cui bisogna pensare prima alla fruizione del nostro elaborato, e poi inventarsi nuovi stili in funzione di quello che si deve comunicare, in grado di esaltare i punti di forza della comunicazione. Esiste una differenza tra mondo esterno e ciò che accade nella nostra mente, ovvero tra realtà e percezione. La percezione è tutto ciò che sta dopo il vedere, non prima, perché vi è il processo dell’occhio, noi vediamo ciò che crea il nostro cervello, trasformando la realtà in immagini, perché la realtà cambia le immagini e il cervello cambia la realtà, verificando per l’appunto una relazione di reciprocità. Il nostro cervello anatomicamente è scomposto in vari settori, ognuno dei quali svolge funzioni ben precise: – Lobo frontale che è implicato nel controllo del movimento e nella pianificazione di azioni future. – Lobo temporale che è implicato nell’udito e in alcuni aspetti dell’apprendimento, della memoria e delle emozioni. – Lobo parietale che è implicato nelle sensazioni somatiche come il tatto e nell’immagine del proprio corpo. – Lobo occipitale che è implicato della visione.


Il nostro cervello invece metaforicamente è suddiviso in 2 emisferi, il destro, che viene nominato poeta, si occupa della percezione dei volti, delle immagini, dello spazio, e delle interpretazioni emotive, quindi qualificato all’elaborazione visiva e specializzato nella percezione immaginifica. Mentre il sinistro detto ingegnere, si occupa anche dei processi linguistici, quindi più analitico e razionale. Secondo MacLean, l’uomo possiede tre cervelli: 1. Rettiliano, che comprende principalmente le strutture del midollo spinale, si occupa del comportamento istintivo di sopravvivenza. 2. Paleocervello, che si dedica al raggiungimento dei propri bisogni. 3. Neocorteccia, che si occupa dei sentimenti, del pensiero del futuro, dei pensieri astratti, pensieri più ‘nobili’. Ognuno di noi sviluppa in modo differente queste strutture, ma tutti sono sempre gestiti da una componente che risiede all’interno del cervello che prende il nome di Amigdala, luogo in cui passano tutti gli stimoli sensoriali ed emotivi. Inoltre è implicata anche alla conservazione della qualità di un esperienza, come un’archivio emozionale per proteggerci da esperienze future. L’occhio è il nostro cervello visivo, e il riconoscimento delle forme si basa sulle caratteristiche, altrimenti come sappiamo che una faccia è realmente una faccia? Ogni singolo e piccolo elemento può diventare molto identificativo all’interno della progettazione, ricordando che la visione è sempre un processo attivo, e per far sì che la mente percepisca bene è necessario servirsi di regole ed esperimenti. La vera fruizione degli artefatti concettuali non viene né sulla carta né sullo schermo, ma nella mente, altrimenti come una statua, un disegno, un manifesto, un dipinto e un affresco possono persuaderci o emozionarci? Quale legame coesiste tra occhio e cervello? Quali meccanismi si celano dietro la percezione di tali emozioni? Una vera e propria opera concettuale può definirsi anche come un’intesa fra un ubicazione fisica e culturale, in cui s’intersecano


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due pratiche socio-culturali, quella della produzione e quella della ricezione d’immagini, bisogna però intuire quali forme, quali gesti o schemi possano catturare meglio l’attenzione del pubblico. L’esperienza visiva è lettura cosciente e inconscia dei ricordi delle immagini che l’occhio percepisce e che il cervello ricrea, l’informazione che proviene dall’esterno, è anche culturale ed è in stretta dipendenza dalla storia di ognuno di noi.Abbiamo già ribadito quanto nelle rappresentazioni visive sia imponente l’uso del segno, ma la sua imponenza deriva da un contesto comunicativo e narrativo e sia per un’astrazione concettuale (che sia un pensiero o uno storia). Eppure bisogna dare un’accurata indicazione sull’uso dell’estetica, vero sì che è una scienza perlopiù filosofica che ha per oggetto il culto del bello, ma non può ritenersi affatto inutile. Essa si fonda su parametri di percezioni sensoriali e riesce a stimolare zone del cervello che l’occhio non può percepire, un piccolo esempio banale sulla visione si verifica quando la pupilla dell’uomo si dilata in funzione del colore che ha davanti, in base le caratteristiche cromatiche del colore, essa si comporta in modo diverso, motivo per cui diventa molto importante capire come l’esperienza estetica (nella sua relativa misura) possa coinvolgere molte strutture celebrali. Percepire nel mondo visivo significa vedere, costituendo un processo creativo in cui l’atto di vedere è l’atto di creare immagini poiché essi devono potersi riportare tanto a degli elementi non attualmente percepiti quanto a quelli che sono presenti.


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Percezioni, nozioni e operazioni


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La percezione visiva ha assunto l’intento programmatico di rivolgersi verso un’attività conoscitiva, dentro la quale emerge la connessione tra psicologia della conoscenza ed euristica, ma oggi si parla anche di fenomeno comunicativo visivo, costituito dagli oggetti materiali prodotti che lo compongono. Non esistono elementi casuali, ma tutto segue un ordine, ragion per cui siamo portati a pensare che tutto abbia un significato, nonostante la produzione di una forma ordinata è più facile di una disordinata. Il riconoscimento delle facce del dado per noi è immediato perché è una forma già consolidata, ma un semplice spostamento dei punti causa involontariamente frustrazione nel chi le guarda. La visione filosofica più vicina alle scienze moderne sembra essere quella di Kant, secondo cui i sensi ci forniscono i dati, ma la mente li mette in ordine con una serie si parametri tutti propri, ovvero il tempo e lo spazio. Ripercorrendo la storia delle teorie della visione, i grandi filosofi si chiesero se la visione fosse un fenomeno dal basso verso l’alto, cioè dalle cose al cervello; oppure se fosse il cervello a influenzare ciò che vede. Tale dubbio è verificabile in una delle illusioni più note di Franz Carl Müller-Flyer con le frecce, in cui due linee pur essendo d’identica lunghezza appaiono più o meno lunghe a seconda della posizione di apertura o chiusura delle due estremità. Come abbiamo notato più volte, il cervello si è sviluppato secondo quanto gli era più utile, e noteremo come ciò si tramuti in regole di raggruppamento percettivo. Troveremo diverse regole, tra cui: Buona forma, secondo cui la struttura percepita è sempre più semplice .Prossimità, secondo cui elementi vicini vengono interpretati in relazione tra loro. Destino comune, secondo cui gli elementi in movimento, vengono raggruppati percettivamente in uno spostamento coerente. Buona continuità. Secondo cui gli elementi sono percepiti come appartenenti ad un insieme coerente e continuo. Figura sfondo. Secondo cui tutte le parti di una sezione si possono catalogare sia come figura che come sfondo.


Tali regole vennero riprese e consolidate nelle teoria nelle principali Leggi della Gestalt 1. Legge della Vicinanza (Gli oggetti che sono vicini l’uno all’altro ed appartenenti allo stesso contesto, tendono ad essere visti come un gruppo.) 2. Legge della Somiglianza (Se gli elementi sono simili tra loro per colore, forma e dimensione verranno percepiti come un gruppo di elementi coesi.) 3. Legge della Figura-Sfondo (Il campo visivo viene così suddiviso in due parti principali ma non è possibile osservare sia la figura e lo sfondo nello stesso tempo.) 4. Legge della Chiusura (Parti di un oggetto mancanti sono completati dalla percezione visiva in modo che appaia come un oggetto intero.) 5. Legge del Destino Comune (Gli elementi appaiono come appartenenti in un insieme se, ad esempio, si muovono in sincronia differentemente da altri elementi.) 6. Legge della Continuità di Direzione (Le linee tendono ad essere viste come continue secondo la direzione, anche se sono interrotte in più segmenti.) 7. Legge della Pregnanza (Più un elemento è semplice e stabile, più appare d’impatto.) 8. Legge dell’Esperienza Passata (Si tende a creare forme già viste dove ci sono solo semplici linee separate o interrotte) Tali parametri sono gestiti dalla percezione e dall’esperienza, dove la prima è il processo psichico che opera la sintesi dei dati sensoriali in forme dotate di significato, la seconda, nella conoscenza nel momento in cui interviene la sensazione riguardo alla sensibilità interiore è la percezione intuitiva, immediata, di un sentimento o un’emozione. Nella filosofia della scienza è il fondamento delle osservazioni scientifiche basate sulle «sensate esperienze» e sulle «dimostrazioni


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necessarie». Il cervello lega solo elementi in stretta relazione tra loro e l’approccio della Gestalt si può considerare una teoria bottomup ossia, si parte dal basso (gli stimoli del cervello che influenzano la percezione) fino ad arrivare a processi cognitivi di ordine superiore. Il designer combina segni visuali, simboli ed immagini in una gestalt visuale-verbale riconoscibile dal pubblico. Egli crea insieme messaggio e forma. La gestalt regola forze, apparentemente invisibili che regolano l’armonia della nostra mente, come il potere del centro visivo (foto accanto) perché nel caso in cui posizioniamo un cerchio al centro di un quadrato avremmo una sensazione di equilibrio, qualora fosse decentrato avremmo uno squilibrio percettivo e sensoriale. Si parla di geografia della percezione, in cui avremmo anche il concetto di simmetria e asimmetria, perché l’uomo quando guarda un oggetto, la prima cosa che fa è cercare di prendere una posizione precisa rispetto ai propri schemi di riferimento, formatosi dalla nostra esperienza. Ogni forma, ogni singolo frammento di un segno comunica. Per comunicare non s’intende solo il valore simbolico, ma anche un valore percettivo e di equilibrio e armonia che trasmette, ecco perché si è sentita la necessità di classificarle, un cerchio un quadrato e un triangolo trasmettono una percezione indipendente dal loro valore storico culturale. Il loro legame genera oscillazioni nel modo in cui le percepiamo, infatti il loro intreccio talvolta rivela la terza dimensione, ovvero la profondità. Inizialmente i primi segni comparsi sulla terra erano i pittogrammi, con i quali si raffigurava l’intera scena, affinché la comunicazione avvenisse, in seguito vennero ideati gli ideogrammi, dove comincia la nozione di simbolo, qualcosa che cela un significato dietro in modo meno figurativo. L’evoluzione del segno arriva fino all’alfabeto, da cui nacquero le lettere. Il segno grafico diventa meno forma, e più lettera, il che darà poi ordine a tutte le scritture.


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Sumeri Evoluzione della parola donna, montagna e terreno 3.000 a.C.

Fenici Alfabeto da 22 glifi 3.000 a.C.


 Senza cultura non esiste contenuto, senza progetto non esiste contenitore. Il progettista è un narratore di storie di contenuto e di contenitore. Gianni Latino


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Parte II

Narrare una progettazione, narrare un contenuto, narrare una storia.



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La raccolta di questi contenuti, rappresenta un esito storico-generazionale, sintesi di percorsi culturali ed artistici passati, in cui ci si incentra esclusivamente sullo sviluppo, sulle procedure e metodi ideativi e progettuali degli artefatti, più che sugli artefatti stessi. La sola idea che la sostiene, assume valenza e dignità. Tale considerazione permette la nascita di un nuovo orizzonte di destetizzazione e semplificazione dei processi di produzione, da cui si evolveranno serrati dibatti, anche tra poesia, arte, musica, sociologia e politica. Si affina la continua svalutazione degli aspetti materici e tecnico-formali dell’artefatto, delle sue componenti visive, in favore delle azioni, documentazioni visive e testuali delle idee, delle loro manifestazioni verbali, delle sequenzialità e serialità di tutti questi fattori. Per una comprensione maggiore, è necessario intuire una sorta di eterizzazione totale esente da ogni giudizio estetico, di una indifferenza visiva agli elementi scelti, l’attenzione dunque si rivolge solo alla pura idea, senza un secondo fine, per cui l’idea racchiuderà l’essenzialità della progettazione. Varie correnti di pensiero, s’impauriscono d’innanzi l’arrivo della morte del processo creativo, lasciando di esso un’idea permanente. Il tentativo che si propone è di creare una serie di interventi eversivi, voti all’azzeramento dell’artefatto lasciandone in permanenza la sola idea. Ogni rapporto illusorio con la vita viene azzerato, addentrandosi in una condizione simbolica e spirituale, dentro le quali si declina una traccia psichica.


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Anton Stankowski

ÂŤTrovare, semplificare, razionalizzare, umanizzare.Âť


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Questi semplici verbi: trovare, semplificare, razionalizzare e umanizzare sono necessari per definire il modus operandi di un pioniere della grafica costruttivista. Tale metodo conferisce alla scopo della ricerca un’unità essenziale, per cui la composizione di tali parole funge da metodo progettuale concerne al design concettuale. Già dal primo termine si pone l’inizio del metodo progettuale, trovare, trovare quella soluzione comunicativa, quella soluzione al problema come direbbe Bruno Munari, in modo che garantisca l’efficenza del messaggio. Una volta ideata, essa si confronta con la sua semplificazione, dove cerca di perdere il superfluo per far sì che abbia una portata di tiro maggiore, in grado di arrivare a più persone in modo efficace. Lo scopo quindi è definire il valore economico della semplicità nelle comunicazioni, nella sanità e nel gioco, in cui la vera semplificazione si ottiene quando è possibile ridurre le ‘funzionalità’ di un sistema senza pagarne costi significativi perché ridurre le cose non significa necessariamente migliorarle. Già qui si verificano le prime difficoltà, quanto semplificare? Quando qualcosa diventa superflua o importante?. Non esiste una risposta, ma possiamo avere una valutazione a fine percorso che sia sempre aderente alla sua razionalità, ovvero quella prassi in cui il soggetto diventa più adeguato per rispondere allo scopo. In conclusione, non bisogna mai dimenticarsi del fattore umano, umanizzare diventa una chiave di svolta, diventa l’anima e l’essenza del metodo. Oltre a ciò, le molteplici professionalità del tedesco, tra cui grafico, fotografo e pittore ci aiutano ad avere una visione più amplia della sua metodologia progettuale perché sono un buon inizio per tracciare una linea su quei lavori che valorizzano un processo ideativo Si concentra anche sulla relazione tra le due discipline: arte e design. Invece di separare i due, li ha compresi come due facce della stessa medaglia che possono ispirarsi e amplificarsi a vicenda. È noto per l’introduzione di Gebrauchsgrafik nel mondo del design, una forma di traduzione visiva di concetti astratti, complessi e tecnici. Si consideri

Anton Stankowski Gebrauchsgrafik 1928


nozione fondamentale l’introduzione di Gebrauchsgrafik perché si ha che fare con una sorta di visione pedagogica, legata all’automa ed espressioni finalizzate in parte a esigenze consumistiche. Tra il 1929 e il 1934 ha completato la sua famosa ‘teoria del design‘ in cui ha elaborato forme fondamentali di espressione progettuale, aprendo anche la strada costruttiva Arte Grafica, in cui l’oggetto in sé avesse un’importanza minore rispetto il suo processo ideativo. Si ricorda l’idea del concettuale, l’idea visiva che influenza la forma fisica che assume, il concetto che guida l’aspetto grafico creando un legame di equilibrio tra forma e contenuto, da cui si richiede molta disciplina nel distribuire in ordine i vari elementi tipografici, e iconografici. Nel 1972 ha realizzato un design concettuale di successo con un’illustrazione semplicissima che rappresenta una freccia rivolta in avanti composta da altre frecce nel verso opposto. Al primo sguardo la forma sembra costruita come un branco che seguono un capo (in questo caso i glifi a forma di freccia) In realtà i glifi stanno caricando all’indietro, mentre una sorta di ‘eroina‘ raffigurata come freccia rossa circondate da frecce nere conformiste, muove coraggiosamente in avanti guidando la carica contro la conformità. Il progettista spesso usava le frecce per rappresentare concetti umani già ampi, invece di ricorrere a forme di realismo sentimentale o emotivo. Ciò funziona, la freccia assume una forte carica simbolica che detta il comportamento, usarla in questo modo la rende subito riconoscibile, anche se si presta a più di un’interpretazione. Fissarla a lungo la rende un motivo, leggerla come illustrazione la farà traboccare di significati, che sia una fuga poiché il rosso è un colore carico o che punti verso qualcosa di incitante o minaccioso. Può essere difficile mettere a segno una grafica determinata dal messaggio, ma quando forma e concetto sono in completa sintonia, il pubblico riceve un dono cognitivo in grado di aiutare la comprensione. Nato il 18 giugno nel 1906 a Gelsenkirchen, Stankowski si rivela sensibile sin da piccolo verso le arti

Anton Stankowski Gebrauchsgrafik 1930


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Anton Stankowski La freccia 1972


grafiche. Ispirato dai grandi dipinti astratti di Piet Mondrian , Theo van Doesburg , Malevich e Kandinsky inizia la sua carriera e passione come decoratore e pittore. Nel 1927, mentre Paul Renner disegnava e progettava il futura, Stankowski frequenta il Folkwang Schule con il collega fotografo, Max Burchartz. Dopo una ricca conoscenza dell’arte della fotografia, della tipografia e delle arti grafiche, egli e il suo amico, cominciarono a sviluppare le loro prime identità visive e i cosiddetti ‘progetti grafici funzionali‘. Trasferito a Zurigo 2 anni dopo inizia a lavorare nello studio pubblicitario di Max Dalang, dove sviluppa la ‘grafica costruttiva‘ correlata con la sua nuova visione fotografica e tipografica. Tra i suoi colleghi e amici si cita Max Bill e Heiri Steineri, con i quali comincia a formare un circolo culturale. Periodo in cui elabora la teoria sul design, ovvero le forme fondamentali di espressione. Dopo diversi anni di prigionia, nel 1948 lavora per la ‘Struttgarter Illustierte’, dopodiché fonda il suo studio sul Killesberg di Stoccarda occupatosi di progettazione per IBM e SEL. Si ricordi l’ormai leggendario ‘layout di Berlino‘, l’identità visiva della città, nonché i marchi Iduna e Viessmann o il marchio per la Deutsch Bank, classificatosi al secondo posto tra la top 20 di marchi di tutti i tempi. Come Patrick Burgoyne, l’editor della rivista Creative Review ha dichiarato: La piazza di Deutsche Bank è ordinata stenografia visiva per il tipo di valori che si potrebbe desiderare in una cauzione bancaria (la piazza) e la crescita (la linea obliqua). Confermando il radicale design vincitore di Stankowski, Deutsche Bank nel suo rapporto annuale ha dichiarato: «In virtù della sua relativa semplicità, il nuovo segno è sia estremamente accattivante che facile da ricordare. La struttura quadrata può essere considerata come simbolo di sicurezza e il colpo verso l’alto come raffigurante uno sviluppo dinamico.»Lo studio di Stankowski ha inviato otto concetti che la giuria, presieduta dal designer Jupp Ernst, ha esaminato insieme a voci rivali di designer tra cui Armin Hofmann e Coordt von Mannstein, che hanno disegnato il marchio olimpico del

Anton Stankowski Layout di Berlino 1970


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Anton Stankowski Deutsche Bank 1957


1972 per Otl Aicher. Per il grafico, il 1964 diventa un anno importante e occupa il ruolo di docente presso la scuola di Ulm (‘Hochschule für Gestaltung‘) e ciò influenzerà tutte le sue progettazioni future. Questa scuola assume un ruolo molto importante nel secondo dopoguerra, perché archivia tutta l’eredità delle scuole tedesche (Bauhaus e Vchutemas) con l’esigenza di trasmettere un carattere scientifico e accademico alla professione del progettista in campo grafico e di disegno industriale. Si consolidano le pratiche progettuali relative alle identità visive nel periodo in cui gli sviluppi (tecnologici e non) si legano alla critica del consumismo emergente (da cui la Pop Art) e al ruolo che il design assume in esso. La scuola, assume sempre più un approccio sistematico, teso a fondare teoricamente la pratica progettuale, sia riferita agli oggetti e sia alla comunicazione visiva, con la condivisione di ideali democratici e di eguaglianza politica. Durante la fase iniziale fu diretta dall’amico Max Bill, nel quale troveremo sempre quell’essenza del funzionalismo del Bauhaus, al punto che nel 1949 organizza a Basile la mostra buona forma, e tale pensiero lo porterà a contrastarsi con altri docenti e metodologie. Si noterà la decisione volitiva e affermativa di appartare a quello che Giovanni Anceschi (designer e teorico italiano a cui si deve la coniazione del termine artefatto comunicativo, di cui il termine indica un qualcosa fatto con arte, dove un’attività regolata da accorgimenti tecnici, basati sullo studio dell’esperienza) definisce come impostazione hard (metodologica e sistematica), che si contrappone a quella soft (libera e non eccessivamente vincolante). Ciò motiverà a Bill di dimettersi in seguito a contrasti con altri docenti, tra cui il teorico Tomás Maldonado, e il grafico Otl Aicher. L’impostazione di esse è più radicale, vi sarà un influenza del neopositivismo che mira a sviluppare una metodologia di progettazione esente dalle ambiguità degli approcci intuitivi, una metodologia volta alla progettazione di artefatti fisici e comunicativi tecnicamente innovativi e socialmente utili. In pieno sviluppo del consumismo, Bill


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contrasta lo Styling americano,(pratica rivolta all’accrescere la vendibilità degli oggetti migliorandone la piacevolezza esteriore, più che i contenuti tecnici e prestazioni) con l’unita d’arte e tecnica di Gropius; Maldonado invece, vede la metodologia tecnico-scientifica come l’unica possibilità per evitare che il design si trasformi in cosmesi dei prodotti per incentivare gli acquisti, ovvero che confluisca nella mera seduzione pubblicitaria. In seguito prese l’erediti della scuola insegnando nuove materie come teoria dell’informazione, semiotica ed ergonomia. In meritò ciò si conferma un atteggiamento critico rispetto alle trasformazioni che i paesi industriali vanno conoscendo. Simultaneamente Stankowski divenne presidente del comitato per la progettazione visiva per i giochi olimpici di Monaco, dove insieme al grande Otl Aicher applicano il linguaggio universale ideato dal filosofo Otto Neurath, che prese il nome di Metodo Viennese o Isotype (International system of typographic picture education) dove si cerca di aiutare il fruitore a comprendere meglio determinate informazioni attraverso il linguaggio dei pittogrammi indipendentemente dalla lingua o origine, poiché il linguaggio verbale è ambiguo e le parole non hanno somiglianza con gli oggetti rappresentati. Nasce l’esigenza di un linguaggio per la comunicazione con informazioni chiare prive di incomprensioni che possa essere facilmente compreso da persone di lingua diversa. Dopo aver assimilato queste conoscenze sia Aicher che Stankowski creano una metodologia sistematica volta alla necessità di unificare l’identità visiva con l’esigenza di informare e indirizzare grandi masse eterogenee, con i connessi problemi linguistici. Ci si trova d’innanzi standard semplici e precisi: Il marchio (spirale radiante, entro due linee verticali, sotto i 5 cerchi olimpici) correlate al carattere universale tipografico di Adrian Frutiger, ‘l’univers’, scelto grazie le sue valenze geometriche modulari. Si accosta un sistema cromatico composto da due tonalità di blu, due verdi, arancione, giallo, bianco, nero e grigio-argento. Si ritenne funzionale la scelta

Anton Stankowski, Otl Aicher Olimpiadi di Monaco 1972


di queste varianti cromatiche perché ognuna di esse corrisponde ad una precisa menzione. Stabiliscono una griglia compositiva modulare molto versatile, suddivisa in linee orizzontali, verticali e oblique di 45° poiché permette un’ampia varietà di soluzioni formali (per esempio le copertine dei bollettini). Invece, i pittogrammi, le cui parti modulari sono ricavate dalla griglia (20x20 moduli) secondo cui un in tento di standardizzazione e stilizzazione formare, garantiscono il movimento dell’atleta e un’indicazione dell’equipaggiamento sportivo. Essi donano un magnifico contributo alla lingua internazionale dei segni non verbali, perché la monacense consiste nell’essenzialità geometrica che si trasforma in una elegante rarefazione formale strutturata dalla mediante griglia generatrice. Lo stile grafico che è stato rispettato anche nei 22 poster, contraddistinti dall’impostazione grafica della netta separazione dei toni cromatici, dal gesto all’azione. Simboli, icone, e, di recente le emoticon, sono esempi di stenografia grafica, ampiamente usata per trasmettere tutto, da concetti astratti a frasi brevi, attraverso la linguistica visiva. Sono allo stesso tempo segno scritto e linguaggio gestuale. L’influenza della metodologia e della manualistica di derivazione del progettare, non conteneva distinzioni tra arte libera e arte applicata. Molte delle sue opere fotografiche e pittoriche confluiscono nel suo design grafico funzionale che nel 1976 lo porteranno nella terra del Baden-Wurttemberg, dove non solo gli venne conferita una cattedra, ma innumerevoli premi e omaggi tra i quali Molfenter Award e Harry Graf Kessler Award ma gli fu riconosciuto il titolo di pioniere del design grafico internazionale. Nel 1983 consolida il suo pensiero progettuale nella Stankowski Foundation, che si adopera per sfruttare il valore informativo dell’arte e promuovere la collaborazione con le professioni vicine enfatizzando il design e l’arte come unità libera e applicata. Ci lascia nel 1998 a Esslingen.

Anton Stankowski, Otl Aicher Olimpiadi di Monaco pittogrammi e manifesti 1972


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Anton Stankowski Untitled 1969


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Anton Stankowski Ohne Titel 1973


2.2

Angiolo Giuseppe Fronzoni

ÂŤProgettare, voce del verbo amare.Âť


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Con queste meravigliose parole ci addentriamo in un contesto squisitamente Italiano, in cui l’espressione progettuale di Stankowski si lega a quella di AG fronzoni, cercando di distribuire la cultura e il sapere, laddove non ci sia già, tramite una filosofia meditata minimalista, concettuale e riduttiva. Mette in discussione molte espressioni pedagogiche con solo l’uso o l’assenza del colore, che siano riflessione della sua umanità, in un contrasto tra nero e bianco/pieno e vuoto, esprimendo un’essenza molto concettuale. Si nota come sia di estrema importanza mirare alle cose essenziali, rimuovere ogni effetto ridondante, ogni fioritura inutile, elaborare un concetto su basi matematiche, su idee fondamentali, su strutture elementari; evitando il più possibile sprechi ed eccessi. Non è un solo un less is more che guida queste metodologie, vi è dietro una libera interpretazione simbolica che dona un tocco magico e non solo minimalista. Fronzoni asserisce inoltre, che la sua aspirazione più grande non era quella di soddisfare i bisogni dei suoi clienti, ma di eliminarli. Il suo metodo progettuale ideologico non incoraggia a capire la percezione di eventuali valori presenti in un oggetto, ma la sua funzione e per il suo scopo strumentale. Egli fa tesoro delle lezioni dello storico dell’arte G.C. Argan, e riporta con se una sua idea, quella in cui chi rifiuta il design, accetta di essere progettato e come tale ha affermato di credere in un approccio collettivista alla pratica del design, dentro cui non dovrebbe essere solo una riserva di pochi professionisti, ma un’abilità tanto diffusa quanto la scrittura perché uno che progetta, progetta se stesso in primo luogo. È una frase che dovrebbe essere tenuta presente da tutti. Il progetto serve a ognuno di noi per auto-progettarsi, con tutte le implicazioni relative: gli obbiettivi, i significati, l’aspirazione a curare di più noi stessi, ad aiutare gli altri a realizzarsi. È solo a questo punto che si può pensare ad affrontare altri progetti: progetti di architettura, di prodotti, di grafica…Non lasciandosi ingannare influenzare dalle mode, Fronzoni non progetta per soddisfare una


clientela, progetta per la comunità sociale. In alcuni dei poster che ha disegnato, ha anche cercato di spingere il linguaggio al limite in un modo simile a Wittgenstein, testando la leggibilità all’estremo, mettendo continuamente a repentaglio la comunicazione stessa. Egli riteneva che il compito di ognuno di noi è di portare la cultura non dove c’è già ma dove manca, in provincia, in periferia, ai più poveri, dove ci sono meno informazioni. La cultura di un paese si misura dalla cultura dall’ultimo uomo di quel paese, è la media che conta. Compito e dovere di ogni persona è di fare pubblicità alla cultura. Egli si ferma e riflette sempre sul concetto di persona e che ruolo occupi nella società. Credeva fermamente che in una società ideale tutti sarebbero dovuti essere in grado di progettare. Al contrario di ciò che accade nella nostra società, in cui la creatività di dei più viene sacrificata a vantaggio della creatività di pochi. La progettazione introdotta come materia nella scuole di ogni ordine e grado consentirebbe a ogni persona di prendere consapevolezza di quella che è la sua potenzialità creativa. Di notevole importanza sono i consigli che impartiva ai ragazzi che si addentravano nella sua scuola-bottega, in cui insegnava loro che l’arte del progettare non deve essere intesa come semplice attività professionale, ma soprattutto, e principalmente un modo di mettersi in relazione con la vita, una scelta di comportamento. Il senso più profondo del progettare non è tanto di costruire una casa, quanto quello di costruire noi stessi. Progettare la propria esistenza è un impegno che deve costituire la loro principale preoccupazione: e questo impegno deve essere continuo e totale, non saltuario e relativo. Come lui stesso asserì, non si occupa solamente di progettare manifesti ma uomini. Il suo mezzo espressivo la tipografia, era considerata il campo in cui egli esercitava la sua professione, come un codice significativo in grado di dimostrare che i segni hanno il potere di trasmettere contenuti da soli, purché siano il più essenziali possibile, guidati da


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un’idea forte. Lavora secondo un metodo non di semplificazione, ma di sottrazione, il cui il segno tipografico più viene portato via, più il segno trasmette. Affidava la sua metodologia allo spazio vuoto, inteso non come una mancanza di informazioni ma come momento significativo. Si assume un linguaggio bicromatico, in bianco e nero, lungi dal privarci del colore: il bianco e il nero delimitano i poli estremi in uno spazio, dove è tenuto e riparato. Eppure, i colori non sono semplicemente lì. Solo quando impegniamo lo spazio e diventiamo attivi scopriamo il colore in esso: lo spazio è generoso. Ma il colore chiede di essere configurato. Il colore non è al di fuori di noi: è intrinseco. Questa scelta cromatica ha un approccio riduttivo, portato all’estinzione sempre di più. Ciò che conta spesso non è l’abbondanza, ma il vuoto e l’assenza, contributi dalla decostruzione e costruzione di uno spazio totale, essenzialmente spirituale in un ordine interiore. Oltre che di riduzione, sottrazione e semplificazione, si parla anche di dualismo, esterno-interno, al di là-al di qua, privato-pubblico, pieno-vuoto, rumore-silenzio. Bianco e nero come atteggiamento di riduzione, spinto fino all’azzeramento, dove il meno non è più, ma il meno e più. Le zone bianche, le zone di riposo che identificano lo spazio e il tempo, sono là dove noi riusciamo a costruire viaggi non fatti, anche se desiderati, cose non dette, amore dato e scordato, doni fatti per impoverirsi, per non avere più quello che si aveva prima. Le zone nere: in senso lato, quelle occupano il potere che ha oltrepassato ogni limite tollerabile e si avvia alla distruzione del mondo nel suo delirio di profitto. Nero è il non progetto. Ma il nero è anche una fonte di forza che si unisce al mistero di una grande potenza che può essere impiegata. Una progettazione che cerca di aprire un orizzonte articolato, coerente, razionale, socialmente responsabile dell’ambiente umano e del suo destino. Una progettazione che non serve a soddisfare i bisogni della committenza ma a sradicarli.


Progettare per sopravvivere e sopravvivere grazie al progetto. Egli è un importante figura che trasmette un’importante collegamento tra l’arte dell’architettura e la grafica, ovvero che entrambe si occupano della gestione di spazi per garantire armonia. Si ha un riscontro con il terzo verbo di Stankowski, ‘semplicità‘ dove senza orpelli grafici spuri, l’osservatore può concentrare l’attenzione sul messaggio essenziale di una comunicazione visiva. Si tratta di un’estetica che ha avuto influenza da parte del Bauhaus, seguita a un’epoca di uso eccessivo di ornamenti stilizzati nelle forme dell’art nouveau. La semplicità emerse nel mondo nel design grafico quando nel 1903 un giovane artista tedesco, Lucian Bernhardm inventò il sachplakat (manifesto oggetto), che ebbe come prototipo il manifesto per i fiammiferi Priester. Egli realizzò una composizione essenziale con l’uso di colori vivaci, per creare un messaggio di pubblicità visiva diretto. I manifesti di Michele Spera del 1979, opera del designer minimalista AG Fronzoni, presenta un diverso tipo di semplicità, una moderna evoluzione del concetto creato da Bernhardm: piuttosto che focalizzare un oggetto, combina testo e immagine in maniera minimale. Nel manifesto che annuncia una mostra dedicata a un altro designer italiano contemporaneo, la componente lineare suggerisce una S, l’iniziale del cognome di Spera. La griglia è elementare, e i quattro riquadri individuano il punto centrale del manifesto. Il testo allineato a sinistra lungo l’asse mediano, ancorato nello spazio bianco, offre un’elegante leggibilità. Semplicità è un termine che racchiude anche il concetto di utilità e raffinatezza, pur ispirandosi a canoni simili, il minimalismo tende a essere dogmatico e stereotipato. Per ottenere buona grafica, non si consideri il fastello dei contenuti come un impaccio, quanto la riduzione testo e immagini in modo che siano funzionali, mantenendo sempre quelle qualità minime necessarie perché il messaggio sia ricevuto correttamente. D’altronde Fronzoni

AG Fronzoni I manifesti di Michele Spera 1979


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è uno dei maestri del minimalismo internazionale, appartenente a quell’epoca d’oro del design, iniziata nel Dopoguerra e culminata negli anni Sessanta sull’onda del boom economico, che ha reso famoso in tutto il mondo lo stile italiano. Angiolo Giuseppe Fronzoni abbreviato in AG Fronzoni, come a voler scomparire dietro il marchio al pari di Enzo Mari e Ettore Sottsass ha contribuito a forgiare una filosofia del design in cui l’estetica è anche etica. Ma Fronzoni non si limita a questo, egli attribuisce al design una funzione educativa: ecco il motivo dell’uso delle parole nelle sue opere grafiche, un lettering messo a punto negli anni di direzione della rivista Casabella. Con tale scelta l’artista riprende la tensione del Bauhaus verso l’educazione democratica, e ci permette di veicolare il proprio ideale funzionale attraverso la cornice minimale. Per questo negli anni 60 Fronzoni diviene un grafico apprezzato, come abbiamo visto nel caso del poster per Fontana, o come nel caso dei molti altri poster progettati per la Biennale. Egli intendeva la professione artistica con rigore, il proprio lavoro al servizio di una comunità democratica. Non amava gli individualismi, il basso profilo era una scelta ponderata che rispecchiava il suo ideale. Nella sua visione, la salute di una società era misurata sui parametri della collettività, evitando i personalismi. Egli fu un ponte fra intellettuali e operai: attraverso i suoi poster si annunciavano le assemblee del Movimento. Basta guardare i lavori di quel periodo per notare i punti di forza dell’artista: appelli scritti in nero su sfondo bianco, la perentorietà del concetto di aggregazione esposto con semplicità e chiarezza, la scelta dello stampato minuscolo a dimostrare la naturalezza del gesto e anche una forma anti-retorica, non urlata, capace di comunicare la forza delle idee senza appoggiarsi su facili sentimentalismi. Una forma composta da bellezza, una forma utile, indispensabile e preziosa per inviare un messaggio di pensiero. I lavori di AG Fronzoni sono veicolo di un messaggio radicale, un’etica

AG Fronzoni Tool Ricerche avaguardistiche 1971


minimalista che sottende una concezione del mondo democratica e razionale, che fonda la sua ricerca estetica sull’elaborazione e sulla progettazione del contenuto. Nel corso degli anni, ironicamente ci si è indagati su quanto sia positivo vivere in un mondo in cui è meglio rovistare nell’esistente piuttosto che sforzarsi a creare qualcosa di nuovo. Fronzoni crede nella capacità di trasformare il mondo attraverso il progetto ed il progetto attraverso la cultura. Persona gentile e discreta, non esita a combattere con grande energia per il senso della forma, attribuendole responsabilità salvifiche, anche solo se si tratta di difendere un carattere tipografico minuscolo. La scarsa influenza storica in Italia della corrente della Bauhaus gli fa mantenere un atteggiamento di critica intransigente e permanente per ciò che è convenzionale, formale e conformista, che si riflette nel suo particolare modo di vivere la trasgressione, una trasgressione assolutamente disciplinata piuttosto che disobbediente. La filosofia illuminista ed antropocentrica di Fronzoni lo porta a considerare il bianco ed il nero come i colori rappresentativi del progetto dell’uomo, specchio della sua razionalità e cultura, mentre il colore appartiene al mondo naturale ed è quindi estraneo, ma non alternativo all’opera dell’uomo. Coerentemente, i suoi progetti grafici e di design rispecchiano questa filosofia: il rigore del contrasto del bianco e del nero, il rapporto di tensione dinamica tra pieno e vuoto ne esprimono l’aniconica purezza concettuale. Il manifesto è lo spazio della libertà di pensiero, senza limiti né regole, l’obiettivo è chiamare l’intelletto dell’osservatore allo sforzo costruttivo dell’interpretazione. I caratteri tipografici sono per Fronzoni la ‘grammatica‘ della progettazione grafica: piccolissimi se bisogna sottolineare lo spazio della lettura, se rappresentano il pensiero sono invece grandi, tagliati, segnati, manipolati. La gabbia grafica è apparentemente libera anche se nell’anarchia dell’impaginazione i blocchi di testo sono un ulteriore strumento per comunicare,

AG Fronzoni Modenantiquaria 1991


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percependo la ricerca intellettuale ed il rigore. Nei suoi progetti, ricerca ogni elemento che stimoli l’osservatore a non essere passivo: avvicinarsi, girare i fogli, unire le pagine, ad agire con il proprio senso critico e l’immaginazione. Angiolo Giuseppe Fronzoni nacque a San Mommè un piccolo paese nel comune di Pistoia il 5 marzo 1923. Ha realizzato tutta la sua opera e la sua stessa esistenza all’insegna della sobrietà formale e della geometria quale fonte primaria di ispirazione.Inizia nel dopoguerra la professione di progettista occupandosi di disegno industriale, di editoria e di grafica. Nel 1965 diventa redattore della rivista di architettura ‘Casabella‘. Realizza nel 1966 il celebre manifesto per la mostra di Lucio Fontana ed anche l’immagine coordinata della biennale di Venezia. Realizza una serie di valigie ‘Forma Zero‘ per Valextra e i mobili ‘Serie ‘64’. Ha insegnato per oltre vent’anni all’Istituto Statale d’Arte di Monza. Partecipa a numerose mostre in Italia e all’estero conquistando ambìti riconoscimenti come a Varsavia, Brno, Lipsia e nel 1992 il premio alla carriera a Zagabria. Molti suoi progetti sono presenti nelle collezioni di numerosi musei del mondo: Bibiliotthèque National (Parigi), Musée cantonal des beaux arts (Losanna), Deutsches Bucherei (Lipsia), Deutsches Plakat Museum (Essen), Museum Narodowe (Varsavia), Moravska galerie (Brno), Stedelijk Museum (Amsterdam), Museum of Modern Art (New York), Royal Ontario Museum (Toronto). Ha continuato la sua attività didattica nella ‘bottega‘ internazionale di perfezionamento a Milano. Con la ‘Bottega’ sviluppa un nuovo tipo di insegnamento, lontano da modelli di scuole professionali, ma immensamente ricco rispetto agli scambi e le relazioni che instaura con gli studenti. Per Fronzoni il progetto prende vita dalla realtà: ogni evento è soggetto ad analisi progettuale e la pratica della provocazione è sempre la spinta al confronto, alla riflessione ed alla formazione del senso critico. L’insegnamento, come tutte le altre forme di comunicazione sociale,



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è essenziale. La tecnica non è più in contraddizione con la poeticità, ma uno strumento per superare la semplice valenza grafica e restituire, attraverso l’inchiostro e l’impronta, un processo intellettuale complesso. Nell’estremismo razionalista di AG Fronzoni la direzione è quella che porta all’interiorità: i testi non sono più soltanto l’apparato canonico di un messaggio visuale, ma essi stessi diventano espressione. La creatività, sospinta attraverso un metodo, che è anche uno stile di vita, è un’espressione insostituibile del pensiero, la capacità di trasformare idee in segni di qualità godibili a tutti. L’attività di insegnante e grafico di AG Fronzoni, lo ha ricordato con rigore, discrezione e passione. Ritroveremo anche in lui, una minima essenza filosofica, riconducibile a Epicuro, : Mai si è troppo giovani o troppo vecchi per la conoscenza della felicità, a qualsiasi età è bello curarsi dell’animo nostro. Il suo lavoro è diventato lo schermo poetico per l’utopia del possibile, attraverso il quale osservare una parte del mondo e vivere per

AG Fronzoni Il segno urbano 1979

un istante con lui, l’emozione del tutto in profondità. Ci lascia a Milano nel febbraio 2002.

AG Fronzoni Manifesto di Fontana 1966


2.3

Jan Tschichold

ÂŤLa forma deve essere al servizio del contenuto.Âť


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In Germania il tipografo, scrittore, teorico e grafico Jan Tschichold dona un prezioso contributo dando una vera è propria forma all’idea nella progettazione, tramite un oggetto chiamato libro. Estremizza e concettualizza una forma concreta, molto sensibile al tatto tramite nuove regole di composizioni visive, dando origine al Neue Typografie, una nuova tipografia (dove il coordinamento tra carattere e layout possa generare principi di funzionalismo). Queste sue nuove invenzioni e innovazioni gli permisero di creare un varco nei nuovi sistemi di comunicazione. Ci troviamo nel periodo in cui la stampa diventa l’unico mezzo di comunicazione di massa, per cui rivoluzionare il modo di organizzare layout o di progettare caratteri equivale a rivoluzionare un intero sistema comunicativo. Nel manifesto Elementare Typographie esprime diversi principi di una nuova comunicazione, ma troveremo di estrema importanza una sua frase ‘La forma deve essere al servizio del contenuto‘. Nella sua produzione di manifesti tipografici, egli da sempre la sua essenza concettuale tramite l’uso dello spazio bianco. Nasce nell’aprile del 1902 con il nome di Johannes Tzschichhold da Franz Tzschichhold e Maria Zapff. Suo padre, di origini slovacche, fu un artista calligrafo e disegnatore di insegne a Lipsia. Per il progettista era necessario liberare la pagina stampata, per cui non è quello che ci si mette, ma quello che si lascia fuori in relazione all’uso della pagina bianca, come in pittura, grafica e disegno. Nel corso del XIX secolo, i compositori di riviste e giornali riempivano ogni centimetro di spazio disponibile con il testo, e qualche volta con immagini. L’idea di spazio vuoto o negativo era un anatema per gli editori che rifiutavano di perdere anche un rigo della loro proprietà sul nulla. Quando divenne difficile distinguere la parte pubblicitaria da quella editoriale fu aggiunto lo spazio bianco come cornice, ma solo verso la fine degli anni ‘20 del novecento si cominciò a vedere lo spazio bianco come una risorsa. Il manifesto di Tschichold per la mostra del costruttivismo del 1937, (6 anni dopo



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la nascita del Times) alla Kunsthalle di Basilea, è un esempio di eleganza e funzionalità nell’uso dello spazio bianco. Un soffio d’aria fresca nel mondo della grafica del tempo, tanto più che derivava dalla tradizione grafica tedesca, dove la scrittura gotica era compresa strettamente in blocchi di testo massicci privi d’aria. Il manifesto rappresenta la grande forza di quello che il tipografo chiama tipografia asimmetrica, oltre a dimostrare come il vuoto possa rendere più efficace anche una veste tipografica minimale. Egli organizza la grafica (titolo, partecipanti, data e luogo) in una griglia stretta, l’invisibile cornice che ne definisce il layout, attento a lasciare precise quantità di spazio tra gli elementi tipografici. Una linea sottile che funge da orizzonte taglia la macchia di colore che illumina la parola Konstruktivisten, che è esattamente dove si vuole attirare l’occhio, e divide la pagina stessa: l’occhio usa quella linea come un piano per separare le informazioni. Il manifesto è libero da materiale estraneo, il messaggio lasciato il più pulito possibile. Sebbene il layout appaia essenziale, la sua elegante semplicità lo rende memorabile. La sua tipografia si rivolge alla comunicazione, nel modo più sintetico ed efficace possibile per rispondere alle nuove funzioni sociali di allora, per cui bisognava riorganizzare le sue componenti, sia interne (contenuti) e sia esterne (materiali e metodi di stampa). Influenzato dal Bauhaus, entra in contatto con i più grandi astrattisti dell’epoca il che gli permetterà di diventare uno dei massimi progettisti visuali del 900. Egli visse in pieno il culmine della nascita della Uhertype, la prima fotocompositrice della storia, e in quegli anni Lipsia era uno dei centri più importanti della Germania per l’editoria, la stampa e il design di caratteri tipografici. Lipsia possiede anche un museo dedicato alla stampa, nel Buchgewerbehaus, luogo in cui scopre ed impara a conoscere e amare la tipografia classica. Nel 1914, a 12 anni, Jan Tschichold visita la mostra ‘Bugra’ che espone una panoramica del disegno editoriale tedesco.

Jan Tschichold Konstruktivisten 1937


L’esperienza influenza profondamente il ragazzo, che decide di diventare professore di illustrazione. Questa formazione di artigianato artistico e calligrafia differenzia Tschichold dalla maggior parte dei suoi colleghi contemporanei, che studiano architettura o belle arti. Inoltre ha buona padronanza del latino: questo gli permette di studiare con agio la tipografia classica. Prosegue gli studi a Dresda alla scuola di arti e mestieri. Nel 1925 viene invitato a scrivere una parte del numero di ottobre della rivista Typographische Mitteilungen e progetta per l’occasione l’inserto speciale della pubblicazione: ‘elementare typographie’. L’inserto è stampato in rosso e nero e spiega nel dettaglio i principi della nuova tipografia e del nuovo design grafico ad uso dei professionisti del settore: stampatori, tipografi e designer di font. L’ inserto presenta inoltre alcune opere di vari artisti dell’epoca tra cui i designer d’avanguardia Max Burchartz, Johannes Molzahn, Lázló Moholy-Nagy, Herbert Bayer, Otto Baumberger, El Lissitzky e diverse opere di artisti De Stijl. Venne distribuito in 20.000 copie, si pone in netto contrasto con lo status quo editoriale del tempo e rende il giovane Jan Tschichold conosciuto e famosso, creando un modo nuovo di comunicare. I suoi principi esposti sono: – La funzionalità come scopo essenziale della nuova tipografia. – La forma deve essere al servizio del contenuto. – La comunicazione deve avere la forma più breve e avvincente. – La tipografia deve avere uno scopo sociale. È necessario usare il minor numero di elementi possibili quali termini di caratteri, numeri, segni, linee, eccetera e la fotografia al posto dell’illustrazione. Progressivamente nel giugno del 1926 Paul Renner convince Jan Tschichold a cambiare nuovamente il suo nome: da Iwan alla russa che aveva adottato in onore ai principi della Rivoluzione Russa, a Jan, dal suo nome di battesimo, Johann. Nel 1928 Jan Tschichold pubblica il primo libro Die Neue

Jan Tschichold Typographische Mitteilungen 1925


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Typographie. Il libro viene distribuito in tutta Europa e diventa libro di testo al Bauhaus. Nel libro cita come esempio dei principi esposti le opere di Piet Zwart e di Filippo Tommaso Marinetti. In aggiunta a quanto esposto nell’inserto a Typographische Mitteilungen del 1925, nel libro Die Neue Typographie sono sottolineati questi punti: – L’impaginazione simmetrica è rigida e poco funzionale – Vanno evitati titoli a lunghezze varibili – L’impaginazione va strutturata sulle direttrici di una gabbia – Gli spazi vuoti sono un elemento preciso – Gli elementi geometrici rinforzano la struttura e dinamismo – Gli unici caratteri che devono venire usati sono i bastoni – Usare pesi diversi, regolari, grassetti, corsivi – La composizione a macchina rafforza la comunicazione Dal 1927 al 1933 viaggia in Germania, Austria, Cecoslovacchia,

Jan Tschichold Die Neue Typographie 1925

Svizzera e Francia promuovendo la Nuova Tipografia con mostre, conferenze e pubblicazioni. Ciononostante durante questo periodo la maggioranza delle pubblicazioni continuano a venire prodotte in modo tradizionale. Diversi incarichi commissionati allo stesso Jan Tschichold - soprattutto quelli per la Insel-Verlag vengono richiesti con caratteri gotici, ornamenti vari e impaginazione simmetrica. Egni non firma queste opere ed è evidente che le abbia considerate come meno rilevanti di quelle in cui poteva applicare i nuovi canoni. A partire dal 1930 comincia a staccarsi dalla pubblicità e a orientarsi al design editoriale. Inizia a collaborare con l’editrice socialista Der Bücherkreis che spesso gli offre la più ampia libertà di progettare integralmente il libro che gli commissiona. Qui ha l’autentica opportunità di lavorare come desidera, creando il libro come un’entità complessiva in cui ogni aspetto è progettato in relazione con gli altri: tipi di carattere, impaginazione, formato, immagini, copertina, rilegatura. Dal 1930 al 1932 fu un autore prolifico e molto orientato alla divulgazione editoriale.

Jan Tschichold Asymmetric tyupography 1925


Pubblica diversi libri in questi anni, intesi per essere libri di testo: nel 1930 una lezione sul design di stampa in Eine Stunde Druckgestaltung, nel 1931 Lettering e calligrafia per i compositori in ‘Schriftschreiben für Setzer’ e nel 1932 Typographische Entwurfstechnik (Metodo di design tipografico), nel 1932. Eine Stunde Druckgestaltung che è un proseguimento di Die Neue Typographie e ottiene risonanza internazionale. Dal 1947 al 1949 l’esperienza londinese presso la casa editrice Penguin Book, dove rinnovò la corporate image delle collane editoriali, copertine fasciate orizzontalmente, arancione per finzione, verde per criminalità, blu per biografia. Nel 1967 crea la serie completa del suo un nuovo font, il Sabon. In occasione del suo settantesimo compleanno nel 1972, scrisse il suo tributo in terza persona e tra il 1926 e il 1929, progettò un alfabeto universale per ripulire i pochi multigrafi e ortografia non fonetica in lingua tedesca, presentato in un carattere tipografico, che era sans serif e senza lettere maiuscole. Tra I caratteri progettati da Tschichold si ricordano: – Transito (1931) per Lettergieterij Amsterdam, voorheen Tetterode. – Askia (1931/1932) per Schelter & Giesecke , Lipsia. – Zeus (1931) – Uhertype-Grotesk (1931), per una macchina di fototipizzazione. – Sabon (1966/1967).

Jan Tschichold Penguin book 1933

Jan Tschichold Die Hose 1927


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Progettato per essere un carattere tipografico che darebbe la stessa riproduzione su entrambi i sistemi Monotype e Linotype e c’erano anche matrici realizzate per fonderie di tipi. Tutti i tipi prodotti potrebbero essere scambiati. Fu usato presto dopo la sua uscita da Bradbury Thompson per impostare la Bibbia del Washburn College . Un ‘Sabon Next’ fu successivamente pubblicato da Linotype come interpretazione dell’originale Sabon di Tschichold. E come ben capì il tipoprafico, ogni libro, ogni volume possiede un’anima, l’anima di chi lo ha scritto, l’anima di coloro che lo leggono e di chi lo ha vissuto, un libro cambia la vita.

Jan Tschichold Sabon 1966

Jan Tschichold buster keaton 1927


2.4

Armando Milani

«Dall’occhio al cuore»


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In Italia un esponente che da forma alle proprie idee, è Armando Milani. Come gli artisti precedenti, egli (seppur con chiave moderna considerando la differenza di anni) progetta sempre con la stessa metodologia progettuale. Cercare una sintesi con equilibrio tra forma, contenuto, idea e concetto. Perché se le forme prevalgono, il concetto può essere attraente solo esteticamente, ma se prevalesse solo l’idea, l’immagine potrebbe essere molto noiosa. Affronta un percorso iniziano da decenni or sono, equilibrio perfetto tra idea e forma. Egli però da un suo contributo personale seguendo un percorso morale ed etico, colpendo vari punti sensibili. Usa la sua conoscenza per denunciare problemi dell’umanità: guerre, carestie, droghe e inquinamento. Rappresenta quasi una fine del percorso iniziato perché si manifesta un interesse per un design meno sofisticato (processo di de-estetizzazione) che si rivolge direttamente alla maggioranza delle persone. Egli colse una lezione di Confucio, il quale asserì che non parole e non leggi governano il mondo, ma segni e simboli, per cui il designer necessità di essere interprete di questa realtà. Nasce nel 1940 a Milano, e l’inizio della sua formazione professionale ha inizio con il grande maestro Albe Steiner alla prestigiosa scuola Società umanitaria di Milano. Periodo in cui progettò il suo primo marchio, con il quale vinse il primo dei tanti premi che avrebbe ricevuto, consolidandone una vera e propria passione In seguito riesci anche a lavorare con altri pilastri della grafica italiana, tra cui Giulio Gonfalonieri e lo studio Boggeri. Carico della sua esperienza, nel 1970 fonda la sua società di design, con la quale esce dai confini italiani per collaborare con il celebre designer Massimo Vignelli. Durante la sua carriera, ha prestato servizio a clienti prestigiosi tra cui DePadova, Montecatini Edison, Roche, Touring Club d’Italia e le Nazioni Unite disegnando molti bellissimi annunci, libri, marchi e poster. Divenuto membro del prestigioso


Alliance Graphique Internationale (AGI), un gruppo eletto dei migliori designer del mondo. Ha insegnato e tenuto conferenze presso la Cooper Union e l’Art Directors Club di New York, la Scuola di design di Santo Domingo, l’Università di Pechino, lo IED (European Institute of Design) e il Politecnico di Milano. Negli ultimi anni ha anche tenuto una serie di seminari nel suo frantoio a Le Rouret, nel sud della Francia.I suoi lavori sono stati pubblicati su alcune delle più importanti riviste di design tra cui Abitare, Domus, Linea Grafica, Novum Gebrauchsgraphik, e stampa. Ha esposto in Brasile, Francia, Germania, Italia, Giappone, Messico, Spagna e Stati Uniti. Nel 2004 un poster da lui disegnato ha ricevuto una menzione d’onore Compasso d’Oro. Ha pubblicato diversi libri tra cui ‘Una doppia vita di 80 designer AGI’ (Burgo, 1996), ‘50 Poesie di Lawrence Ferlinghetti. 50 immagini di Armando Milani’ (GAM, 2010) e ‘No Words Posters’ (RIT Press, 2015) che raccoglie una serie di duecento poster di oltre cento designer di tutto il mondo. La sua filosofia mira a colpire dall’occhio al cuore. Si percepisce il valore umano nella progettazione, in grado di esprimere una cultura e un sapere attraverso i quali plasmare la forma e contribuire alla bellezza del mondo.

Armando Milani The danger of oppressed people 2003


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Armando Milani Peace/war 2003


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Armando Milani War/peace 2003


Armando Milani Smoking is poison 2004


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Armando Milani Hate/love 2000


Armando Milani Sex & love 2010


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Armando Milani Tought of Camus by Camus 2015


Armando Milani I am not a number 2005


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Armando Milani Lavoro e leggi 2002


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Albe Steiner

«Il grafico di fronte al pubblico ha una grande responsabilità [...] Non è un venditore di fumo, la sua è una vera specializzazione.»


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Nei primi decenni in Italia della prima fase della sperimentazione della grafica italiana troviamo Albe Steiner, al quale dobbiamo la coniazione di 2 termini molto cruciali che racchiudono l’essenza concettuale di tutta la disciplina dell’ambito nella progettazione grafica. Da inizio a una nuova pratica concettuale, con il termine ‘Grafica Editoriale’. La grafica diventa indipendente, la grafica è scrittura, la grafica diventa potere. Individua la progettazione grafica come una disciplina, e ne valorizza il reale contenuto, dona un ‘aura’ simbolica intoccabile e impenetrabile, e una volta averla esulata, essa acquisisce la sua totale indipendenza, autonomia ed autosufficienza. Di proporzione inversa conia il termine ‘Grafica di pubblica utilità’. La grafica serve l’uomo, è come tale essa non è serva dell’uomo. Il partigiano comprende che servire è l’arte suprema. Questa sua comprensione può essere contestabile da una lezione italiana e cristiana, in cui Dio stesso è il primo servitore, perché serve gli uomini ma non è servo degli uomini. La grafica è al servizio del pubblico e per il sociale, diventa una guida e un orientamento, sempre governata da un principio etico, sociale (che più avanti vedremo come sarà ripreso da Armando Milani) e la tutela dei beni culturali, diventando un contenitore di cultura. Egli si ricollega sempre ai progettisti già citati perché continua la ricerca di una chiarezza essenziale, e una leggibilità sublime di un linguaggio visivo che azzeri i formalismi. Egli però da forma alla sua idea, la grafica diventa protesta. La grafica diventa strumento di rivoluzione di idee, solo che non si manifestano solo a livello visivo, ma nella quotidianità. Tutti insieme rappresentano un’evoluzione tipografica di pensiero nata in parte dalla grafica costruttivista, grazie al loro contributo vediamo come si evolve una sorta di dottrina, le loro progettazioni sono collegate al processo de-estetizzazione. Riducendo l’estetica, la progettazione assume una valenza non solo simbolica ma concettuale, tutto si


muove in simultanea nel tempo. Tutti loro cercano di avviare un linguaggio antiespressivo e impersonale, dall’enfasi della freddezza e solidità di concetto, consolidato da un linguaggio plastico. Le progettazioni celano un’involucro intoccabile, raggiungendo una purezza assoluta, dove ci s’interroga sulla possibilità di mostrare allo spettatore l’idea in se e per se, senza alcun riferimento umanistico. Nasce a Milano il 15 novembre 1913, e rappresenta ancora oggi un’icona molto forte. Fu proprio l’assassinio del martire socialista zio Giacomo Matteotti che fece maturare in Albe la coscienza antifascista che l’avrebbe sostenuto nella lotta per la libertà che è cultura. Lasciati gli studi di ragioneria si dedicò ad una professione a quei tempi praticamente sconosciuta in Italia: quella del grafico. Sposata Lica Covo, Albe condivise con lei, dopo l’8 settembre 1943, la scelta della lotta armata al nazifascismo. L’anno della sua morte, il Comune di Milano conferì ad Albe la medaglia d’oro di benemerenza civica. Nel 2004, Lica con le figlie

Albe Steiner Disegno 1924

Anna e Luisa hanno donato l’Archivio Albe e Lica Steiner al Politecnico di Milano presso il Campus Bovisa con copie delle carte sulla Resistenza e delle immagini relative alla deportazione, usate per il Museo del deportato a Carpi. Continua la sua attività di grafico lavorando per numerose riviste (Domus, Metron, Edilizia moderna), per alcune delle più importanti case editrici italiane (Feltrinelli, Einaudi, Zanichelli), per molti dei giornali italiani di sinistra (l’Unità, Il Contemporaneo, Vie Nuove, Rinascita, Movimento operaio, Rivista storica del socialismo, Studi storici, Tempi moderni, Problemi del socialismo, L’Erba voglio, Mondo Operaio, Italia contemporanea) e per alcune aziende (Pirelli, Olivetti). Egli rappresenta la figura di riferimento per i canoni di profonda linearità insieme ad Caleffi, il quale senatore del partito socialista Italiano diventa portatore della testimonianza di deportazione politica nei campi di lavoro. Con la titolazione campi di concentramento, racchiude la storia delle

Albe Steiner Pace 1956


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persecuzioni nazifasciste in un formato 11 X 18 L. 500, con una tiratura iniziale di 20.000 copie con un’introduzione di ben 46 pagine, 63 fotografie, molte illustrazioni e per la prima volta vennero inserite riproduzioni inedite da testi russi e polacche. Sulla copertina, composta in carta patinata opaca in stampa bicromia, con colori pantone Nero grigio arancio, con l’uso del carattere Garamond e l’immagine del bambino con le mani in alto, che diventerà di forte impatto e riconoscibilità. Nonostante il rigore scientifico che lo caratterizza per tutta la vita, non si distacca mai completamente dall’idea di collisione propagandistica. Dal 1950 al 1954 è art director a ‘La Rinascente’ ed è tra i promotori della mostra che darà origine al premio ‘Compasso d’oro’, e sempre negli anni Cinquanta diventa docente dell’Umanitaria. Successivamente tiene corsi all’Università di Venezia, all’ISIA di Urbino e negli istituti d’arte di Parma, Roma e Firenze. Nel 1963 apre a Reggio Emilia il primo ‘magazzino a libero servizio’ e Steiner dise-

Albe Steiner Copertina Pensaci, uomo 1955

gna quello che diventerà il marchio della Coop. Collabora con enti e istituzioni culturali come la Rai, il Piccolo Teatro, la Triennale di Milano, il Teatro popolare italiano, Italia ‘61, la Biennale di Venezia. È stato socio fondatore dell’Associazione per il Disegno Industriale e membro dell’AGI Alliance Graphique Internationale e dell’International Center of Typographic Arts. «Il mio primo compito è capire i pregi, le qualità del prodotto, conoscere l’impegno di chi lo produce, del tecnico che lo concepisce e lo elabora, dell’operaio che lo lavora. La mia opera va nel senso stesso della produzione, non verso la speculazione ma verso la fruizione, l’uso corrente di quello che è un nostro diritto nella civiltà industriale... Se il prodotto non corrisponde a certe regole o a certe intenzioni, il disegnatore deve rifiutarsi di collaborare, per non essere correo di una truffa nei confronti della società e dei consumatori... Il consumatore viene prima del prodotto, quindi la grafica deve essere

Albe Steiner Mostra della ricostruzione 1945


al servizio del pubblico e spingere solo quei prodotti che sono utili anche al consumatore.» Albe Steiner, Il mestiere di grafico. Non c’è niente di nuovo quando si decide a priori una forma. Le forme nascono da nuove situazioni, da nuove combinazioni di materiali e da funzioni dosate correttamente, così si attua la nuova produzione in collaborazione armonica tra autori, distributori e destinatari. Per Steiner anche la scelta delle immagini non è mai casuale né puramente estetica, ma, in alcuni casi, di completamento al testo stesso o addirittura parte integrante ma a sé stante come il testo: tutto nasce dalla convinzione che «quello che importa è la comunicazione e non un tentativo di decorazione giornalistica». Al Politecnico infatti Steiner non svolge certo il ruolo del creatore ‘di facciata‘, ma quello di inventore di contenuti e forme per quello che la prima locandina definisce «non un altro settimanale, ma ‘l’altro‘ settimanale». Al Politecnico le riunioni di redazione sono un momento di grande

Albe Steiner «Politecnico» 1945

fermento culturale e l’impegno intellettuale è totale, le discussioni vivacissime, ogni argomento sviscerato e riconsiderato. Il progetto del settimanale, nella sua impostazione generale, è assolutamente consono ai contenuti, come anche l’impaginazione: i filetti neri, rossi in alcuni casi, non sono semplicemente formali, ma corrispondono ad un’esigenza di migliore leggibilità per il lettore e ad un’appropriata divisione dei testi. Una delle prime innovazioni che Steiner vuole nell’impostazione grafica della pagina è proprio l’eliminazione del filo di divisione tra colonna e colonna, regola fissa nella tipografia del giornale. È una battaglia anche con gli operai tipografi, che sostengono che con questo cambiamento le colonne di testo appaiono confuse; Steiner dimostra invece che in questo modo la pagina risulta più chiara e pulita, e inserisce dei filetti più pesanti che hanno la reale funzione di stacco; oggi l’eliminazione del filo di divisione tra le co-

Albe Steiner NO al fascimo 1945


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lonne di testo è adottata da quasi tutti i giornali. Vi è presente con ricerche e proposte progettuali della comunicazione visiva in tutti i più vivaci settori industriali, pubblicistici e d’informazione dell’Italia del dopoguerra, e anche per questa via ha avuto parte decisiva nell’aprire il nostro paese a una moderna cultura visiva. In particolare, suo importante contributo a tali sviluppi sono le mostre a tema, formula inventata da Steiner per permettere la facile circolazione di idee politiche e culturali con una minima spesa muove da un’attenta analisi del rapporto fra contenuto, destinazione e forma legge tutti i libri che cura, fissa le norme da osservare nell’esecuzione pratica e usa le competenze tecniche e gli strumenti grafici di cui dispone, applicando i criteri a lui abituali della chiarezza e della semplicità, per raggiungere quell’equilibrio della composizione che facilita la lettura e quindi la comprensione del messaggio scritto. Le innovazioni introdotte da Steiner non comportavano mai un maggior lavoro per redattori o tipografi, ma sempre qualche semplificazione o l’eliminazione di operazioni superflue. Mirando a una maggiore chiarezza del messaggio visivo otteneva nello stesso tempo una riduzione di costi. Tutta l’attività di Albe Steiner è stata imperniata sopra un’attenta e costante pratica del suo lavoro professionale, ma d’un lavoro sempre volto a un fine artistico e insieme educativo, politico, morale. Parlare d’una moralità dell’arte dell’attività artistica, è cosa insolita e apparentemente desueta poiché ritenuta astratta e ludica, anche in un’epoca di tumulti sociali ed economici come la nostra. Ma, invece, per Albe Steiner il concetto d’un’arte per l’arte era stato sempre impensabile, aveva una concezione del suo futuro lavoro che era impostata sopra una consapevolezza dell’interdipendenza tra attività artistica e attività politico-sociale. Ci dimostra come fare onesta propaganda visiva. Come si prende una fotografia sciagurata e la si taglia nel modo giusto, come

Albe Steiner Studenti umanetaria 1968


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si incolla un pannello, come si ingrandiscono le foto, come inviare messaggi chiari, coordinati, significativi. Ci dimostra la semplicità come forma di culturale. Ma la sua personalità non era limitata alla professione. Aveva il gusto innato delle cose belle, dell’arte e il fanatismo della giustizia. Sulla sua tomba a Mergozzo, un blocco di granito reca la scritta: ‘Albe Steiner partigiano’.


«Il design è l’intelligenza resa visibile.» Alina Wheeler


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Parte III

I dieci principi del buon design di Dieter Rams


1) Good design is innovative

01.Innovazione Le novità tecnologiche offrono continuamente opportunità di innovazione, ma non dovrebbe mai essere fine a se stessa, non s’intende un’innovazione come novità fugace, in quanto deve essere durevole nel tempo affinché sia veramente efficace. Essa si collegata all’interazione fra gli interpreti del processo progettuale collettivo e all’investimento in cultura, cioè nel sistema conoscenza complessivo che viene promosso. Deve inoltre saper considerare realisticamente le opportunità e i limiti che offre la tecnologia


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2) Good design makes a product useful 02. Utilità Il design deve avere un’utilità, deve rendere utile non solo un prodotto, ma anche un’idea e un concetto, è fondamentale per quando essa deve essere trasmessa all’intera popolazione. Per cui avrà una valenza dipendente l’estetica e la struttura della comunicazione.


3) Good design is aesthetic

03. Estetica Non bisogna esagerare, una piccola essenza estetica può conferire alla comunicazione un vantaggio, se contiene anche una piccola valenza funzionale e non decorativo, perchÊ il nostro occhio percepisce le forme che influiscono sul nostro benessere, quindi oltre utile concettualmente non deve essere perfora bello, ma persuasivo, deve attirare.


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4) Good design help us to understand a product 04. Sintesi Non a caso è il punto più breve, il buon design non ha bisogno di didascalie di istruzioni, perché è autosplicativo.


5) Good design is unobtrusive

05. Trasparenza Si progetta l’essenzialità, e la neutralità visiva permette di lasciar spazio alla personificazione di un’idea da parte si ogni singolo individuo.


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6) Good design is honest

06. Onestà Purtroppo la grafica può attrarre con inganno, essa esprime una forza e un potere che non deve ingannare, ma deve essere onesta. In sé per sé, si necessita di una seduzione in grado di attirare l’interesse ma senza inganni.


7) Good design is durable beyond trends 07. Durata Per essere efficace bisogna essere innovativi, bisogna però anche superare le mode, deve essere strutturalmente forte da radicarsi nella società senza mai apparire antiquato o moderno, deve essere neutro.


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8) Good design is consequent to the last detail 08. Profondità Molte volte sono i dettagli a fare la differenza, ma anche l’idea che ci sta dietro, bisogna essere profondi fino in fondo perchÊ tutte le fasi del processo di ideazione sono importanti.


9) Good design is concerned with environment 09. Ecologia Bisogna avere rispetto, e avere cura dell’ambiente specialmente quando ne usufruiamo nei progetti editoriali, perchÊ il ciclo di vita di un artefatto deve ridurre al minimo il suo impatto sull’ambiente


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10) Good design is as little as possible

10. Essenziali Non bisogna essere troppo minimalisti altrimenti si ricade in una monotonia asettica, bisogna rimuovere il superfluo, meno design per una semplicitĂ e purezza che va a confrontarsi con gli elementi essenziali


«Tutto nel mondo creato dall’uomo deve la sua esistenza al concetto e al design da cui è iniziato. Questa è l’importanza del design concettuale» Michael Iva


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Riflessioni


L’intento di questo elaborato pone una riflessione sul design concettuale che non si volge solo all’esprimere un determinato pensiero che risiede all’interno delle nostri menti, ma una riflessione sul come è possibile criticare il design concettuale, seguendo un’analisi oggettiva culturale. L’idea di partenza tende a far si che l’elaborato possa essere inclassificabile, irriducibile ad una categoria di pensiero o di scienza (semiotica, sociologia) o ad una corrente, si cerca di offrire modelli più significativi di interpretazioni della comunicazione come aspetto specifico della vita umana. Questo percorso illustra come determinate facoltà umane, che sia la creatività e l’invenzione, entrino in relazione con l’intelligenza e la memoria. Purtroppo si nota come la separazione tra arte pura e produzione d’arte legata all’esigenza delle industrie, generi un contrasto tra consumi di massa e intelligenza. Le informazioni veicolano così velocemente che a volte sono in grado di disorientarci perché non sappiamo su dove focalizzare la nostra intenzione. Si è notato inoltre, come cambia il modo di fornire immagini, dove un progettista incontra un artista? Fra i tanti disaccordi e accordi, un eventuale punto di congiunzione potrebbe coincidere in una linea temporale. Gli artisti, i pittori sono stati i primi produttori di immagini al mondo, e in seguito la nascita della fotografia ha riorganizzato modi di fare e pensare. Non a caso nasce l’arte astratta, dove nasce il bisogno di dare risposte concrete al bisogno estetico, in cui si abbandona la concezione di reale e mimesi per addentrarsi in geometrie organiche, indissolubilmente legate alla natura. Si realizza una chiave per rendere visibile ciò che nascondiamo dentro, una necessità interiore che sia un’espressione di intuizioni dell’animo umano. Il dibattito, il confronto dispone un percorso formativo del tutto evolutivo, ed è ciò che da forma dal design concettuale. Questo percorso intellettuale viene affiancato a metodologie di progettazioni differenti, ma con un unico filo


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conduttore, tutti di per sé condividono una filosofia, il dare forma alle proprie idee nel corso nella storia tra analogico e digitale. Nelle discipline visive, nella grafica e nell’arte, troveremo sempre quell’essenza storica, di narrazione, di comunicazione emozionale in cui l’aspetto culturale idealistico è stato al centro della massima ispirazione. Un culto basato sul lavoro, dove la ricerca è cultura e la cultura è organizzazione, non solo tecnica. L’ arte è una disciplina umana regolata da accorgimenti tecnici, ma fondati sullo studio e sull’esperienza, dando origine a varie etimologie, ad esempio: arti meccaniche e arti liberali. L’obiettivo, che sia individuale o collettivo è fornire un manufatto culturale che sia soggetto a giudizi di valore. In alcuni contesti il termine ’manufatto’ viene sostituito da prodotto, meno indicato da certi punti di vista, perché il prodotto genericamente viene associato ad una fabbricazione, un qualcosa che richiama alla mente la confezione di meccanico e meno ’umano’, mentre invece il termine manufatto non implica solamente ad un qualcosa che è solo ed esclusivamente fatto a mano, ma può coesistere anche con l’aiuto di macchine. Tuttavia vi è sempre in primo luogo il lavoro dell’uomo, perché la percezione visiva è esperienza. La progettazione grafica è laddove la cultura si fa editoria, e lo scopo utopistico principale è risvegliare tutti quei meccanismi che ci fanno dimenticare di vivere. Perchè essere vivo richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare.



ÂŤLentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo, chi non fa domande sugli argomenti che non conosce, chi non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce [...] Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere vivo richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare.Âť

Lentamente muore Martha Medeiros


Bibliografia


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Sitografia


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Ringraziamenti


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Prima di chiunque altro, devo ringraziare la persona più importante della la mia vita, colui che mi da sempre forza per superare qualsiasi avversità, mio nipotino Samuele, e anche il fratellino Davide che sta per arrivare. Ringrazio in particolar modo mia sorella Lisa, sopratutto per il suo conforto emotivo! e i miei più cari amici e colleghi che mi hanno sostenuto, con i quali ho condiviso magnifici momenti, composti da lamenti e risate, tra cui Gresy Torrisi e Vito D’urso, vittime delle mie idee abbozzate, ma soprattutto ringrazio i miei genitori e i loro costanti sacrifici che mi hanno permesso di arrivare fin qui. Devo confessare che nonostante abbia frequentato molte lezioni, una delle lezioni più importanti, l’ho imparata dalla mia famiglia: Prima di essere grandi nella propria figura professionale, bisogna essere grandi come persone, umane. Questo elaborato pone al termine una riflessione iniziata molti anni fa durante una lezione di religione, e che oggi grazie al mio relatore sono riuscito a farne argomento della mia tesi. Un ringraziamento particolare va riconosciuto sopratutto a Gianni Latino, che spende giorno dopo giorno la sua conoscenza per la formazione dello studente laddove altri potrebbero non spingersi. Lo ringrazio per avermi dato la forza di credere ancora in questa professione, facendomi riscoprire che la grafica è bensì altro rispetto ciò a cui siamo abituati a credere. Lo ringrazio per aver riacceso in me un meccanismo che inconsciamente tentavo di ignorare e di riportare ancora oggi quei criteri di grafica instaurati da progettisti come Steiner.



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