Marisa Vescovo Alessandro Carrer
C O L L I S I O N I
Un gruppo di artisti tra scultura e architettura
2000 & NOVECENTO Galleria d’Arte
B or r e l l i Centenari
Via Emilia San Pietro, 21 42121 Reggio Emilia - Italia tel. 0522 580143 - fax 0522 496582 duemilanovecento@tin.it www.duemilanovecento.it Orari: 10/12.30-16/19.30 Chiuso la mattina di Giovedì Aperto Domenica e Festivi
C O L L I S I O N I
De l l a P orta Gastini Gi obert o N or o Hamak L e C or b u s i e r
XXVII COLLISIONI
Un gruppo di artisti tra scultura e architettura a cura di Marisa vescovo GIANFRANCO ROSSI
15 ottobre - 30 novembre 2011
M a i n ol fi Melotti
Con il patrocinio di
Nunzio S pa g n u l o S pa l l e t t i
2000 & NOVECENTO
2000 & NOVECENTO Edizioni d’Arte
In collaborazione con
2000 & NOVECENTO Galleria d’Arte
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Collisioni
Un gruppo di artisti tra scultura e architettura
Marisa Vescovo - Alessandro Carrer
2000 & Novecento Galleria d’Arte Via Emilia San Pietro, 21 Reggio Emilia 15 ottobre - 30 novembre 2011 Mostra a cura di Marisa Vescovo Gianfranco Rossi Catalogo a cura di M. Paule Fournier e Erika Rossi
Collisioni Un gruppo di artisti tra scultura e architettura
Organizzazione e coordinamento di M. Paule Fournier e Erika Rossi Ufficio stampa e pubbliche relazioni CSArt Comunicazione per l’Arte, Reggio Emilia Erika Rossi
Domenico Borrelli Filippo Centenari
Testi di Marisa Vescovo Alessandro Carrer
Patrizia Della Porta
Foto di Claudio Abate, Roma Luca Bottello, Torino Pietro Diotti, Cremona Francesco Landolfi, Roma Daniele Prandi, Reggio Emilia Michele Alberto Sereni, Pesaro Carlo Vannini, Reggio Emilia
Gioberto Noro
Traduzioni di Michael Haggerty, Verona Si ringrazia Galleria dello Scudo Arte Moderna e Contemporanea, Verona Studio La Città, Verona Anselmo Basso, Torino Claudio Bottello, Torino
Marco Gastini
Herbert Hamak Le Corbusier Luigi Mainolfi Fausto Melotti Nunzio Giuseppe Spagnulo Ettore Spalletti
In copertina, Concrete 487, 2006 (particolare) foto di Gioberto Noro, Torino
Per l’opera di Le Corbusier © FLC, By SIAE 2011 © 2011, 2000 & Novecento - Edizioni d’Arte Stampato nell’ottobre 2011 da Grafiche Step, Parma 2
2000 & NOVECENTO Edizioni d’Arte
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Collisioni. Un gruppo di artisti tra scultura e architettura. Marisa Vescovo
Da parecchi decenni in Italia, come in altri paesi, si gira un film che sembra pura fantascienza, che con il tempo si è trasformato in thriller. Il titolo è “cementificazione” e la trama è fatta di speculazioni, interessi, paesaggi deturpati da ruspe e colate d’immondizia. Gli attori sono molti: banchieri, architetti, immobiliaristi, politici, cementieri, artisti (pensiamo a quelli che affollano, con poche eccezioni, le “rotonde” e molte piazze). Ma i costi di questa deprimente pellicola sono caricati sulle spalle dei cittadini, della cultura, di oggi e di domani. Come tutti i cortometraggi che si rispettano non mancano i colpi di scena: il protagonismo delle archistar, degli amministratori. Un’interfaccia obbligata di tutto questo sono oggi le strutture dell’Arsenale della Biennale di Venezia ridotte a riflettere visioni casalinghe dell’arte, da bar dello sport, festival della banalità, mercatino delle cianfrusaglie, un accumulo di cose sicuramente senza proposte sconfinanti nel perimetro delle idee, e spiazzanti emotivamente. Nonostante questi panorami depressivi, ci consola poter notare che oggi finalmente le varie forme di creazione ed espressione scultorea si sono fatte nel mondo oltremodo sfumate e oltrepassabili, come peraltro avveniva nel Rinascimento e in epoca Barocca, per poi fermarsi all’inizio dell’Ottocento. La scultura per molti architetti è diventata qualcosa da guardare come oggetto che porta in pectore l’architettura. Gli architetti vivendo in una società post-consumistica, che pensa all’icona come momento di sintesi tra mercato e ideazione, hanno trasformato il disegno in oggetto tridimensionale. La tecnologia e i programmi grafici, la scambiabilità dei materiali, sono stati un buon pretesto per avvicinarsi alla scultura. Bisogna subito dire che il Minimalismo e la Pop Art (ma anche Constantin Brâncus¸i, Henry Moore, Eduardo Chillida, Richard Serra, Carl Andre, Tony Cragg, e alcuni giovani artisti delle ultime generazioni) hanno aiutato molto gli architetti ad avviarsi verso una progettazione spettacolare (che peraltro non ha dimenticato affatto la forma organica) come quella di Frank Gehry, Zaha Hadid, Arata Isozaki, Daniel Libeskind (quest’ultimo ha iniziato la sua carriera come scultore), Herzog & de Meuron (hanno costruito lo Stadio Olimpico di Pechino, il “nido”, con l’artista Ai Wei Wei) giocando tra minimalismo e destrutturazione. Le steli colorate di Luis Barragán in Messico sono architettura di paesaggio o scultura? È oltremodo interessante che, nel 1945, Arturo Martini abbia scritto un famoso saggio “Scultura lingua morta”, nel quale il grande scultore spiegava che poesia, musica, architettura, pittura, avevano avuto una grande evoluzione seguendo il tempo e gli eventi. Soltanto la scultura è restata immobile nei secoli “… lingua aulica e sacerdotale, simbolica scrittura incapace di svolgersi nei moti quotidiani. La scultura resta quella che è: lingua morta che non ha volgare, né potrà mai essere parola spontanea fra gli uomini”. Martini, ma anche altri, pensavano che il monumentalismo aulico delle opere plastiche avesse condannato la scultura a finire, in quanto incapace di affrontare le nuove sperimentazioni 6
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linguistiche di avanguardia, che hanno avuto il coraggio di non essere più manufatto, ma bricolage, ready made, e poi diventare “ambiente”, in un momento postmediale in cui l’idea di bellezza non era più cruciale nel giudizio di un’opera. Non c’è dubbio che la distinzione, ad esempio, fra scultura e architettura è arrivata molto tardi nella nostra storia dell’arte, ma la diversità dei generi e la loro specificità hanno impoverito l’universo della creazione. Ecco perché nessuno si meraviglia, credo, se la scultura si è incamminata di nuovo verso l’architettura e l’architettura invece in direzione di un’espressione dialetticamente scultorea. La nascita di opere ibride può essere vista come conseguenza del dibattito novecentesco sulla sintesi delle arti. Un’opera rappresentativa di questa linea di pensiero è la cappella Notre-Dame du Haut di Le Corbusier a Ronchamp (presente in mostra attraverso il magnifico acquarello Femme en buste del 1942) che inaugura, si può dire, la sintesi delle arti, suscitando meraviglia, perché chi l’ha immaginata e costruita è sempre stato conosciuto come l’apostolo dello standard, del “modulor”, di una ricerca che doveva approdare a un “modello” perfetto, come se fosse stato generato dalla natura. Il grande pubblico ha scoperto questo nuovo filone di ricerca grazie a opere architettoniche successive di archistar, come il Guggenheim Museum di Frank Gehry a Bilbao, che pretende di sostituirsi, come di fatto è accaduto, alle opere d’arte esposte. In fondo è l’edificio che si espone, che si va a visitare, è la grande scultura, un “landmark” (opera capace di dare, o vuole dare, identità a un luogo). Sono esposte in galleria un gruppo di fotografie-ritratto di Patrizia della Porta, costruite essenzialmente con luci e ombre, che riportano sulla carta le immagini essenziali e vibranti dei vari “monumenti” degli architetti oggi in scena. Esse creano un forte legame tra le sculture in visione e gli edifici che abbiamo preso a testimonianza della nostra riflessione. Patrizia della Porta, specializzata in fotografie di architettura contemporanea, coglie, con mano ferma, sia le evocazioni poetiche, che i silenzi siderali che provengono dai nuovi materiali, sia l’ineffabile movimento di una nota emanata da un particolare in ombra, o mangiato dalla luce. Delle costruzioni, dei suoi architetti più amati, cerca sia la sorpresa della perfezione formale, la luce penetrante come una lama, l’inquadratura più essenziale e tagliente. La fotografia diventa il confine che si pone tra noi che guardiamo e un’utopia dell’immagine. Ma parlando di Gehry, dobbiamo constatare che il passo precedente al suo, è stato fatto da Richard Serra, il grande scultore nato vicino al Pacifico, il quale ha sentito l’oceano come un nuovo modo di pensare lo spazio, un punto di partenza, come sono state un punto di partenza le masse degli scafi arrugginiti delle navi nel porto, o nei cantieri navali, di San Francisco. La massa, la grande scala, le pareti inclinate, la libertà di passeggiare non attorno, ma dentro, le sculture, di prendere differenti direzioni, costituiscono il nocciolo duro che Serra si offre per pensare la creatività, per pensare lo spazio da e attraverso le proprie sculture. Ciò ci provoca un disagio, un’ansia che ha a che fare con l’esperienza del sublime. Serra è lo scultore che negli ultimi decenni esemplifica con forza il potenziale della scultura, di una scultura che prende posto e s’installa nell’architettura, afferma la propria zona progettuale, sfumando le distinzioni. Anche uno scultore come Anish Kapoor lancia oggi, al Grand Palais di Parigi, le sue opere sino a 35 metri di altezza, per cui lo spettatore è coinvolto in una serie di emozioni, di attese, alla scoperta di geometrie non consuete, portandolo a pensare che non esista più la differenza tra scultura e architettura, avviene una mutazione dall’uno all’altra senza bisogno di usare metafore. Dopo un secolo di divisioni disciplinari vale la pena di ricomporre nel sapere visivo dell’essere umano i suoi differenti modi di espressione: musica, architettura, teatro, poesia, scultura, fotografia (alla Bien8
nale di Venezia del 2009 il premio per la scultura è stato dato a due fotografi: Bernd e Hilla Becher). Le installazioni di Serra, di Kapoor, e di altri, definiscono il nostro oggi artistico, al quale il nomadismo e la sperimentazione, promettono un grande futuro. Ma accennando alla musica non possiamo non pensare a una bellissima opera in mostra di Fausto Melotti Scultura G (Nove cerchi), (1967, inox) una struttura tripartita che s’inanella in verticale, giocando anche sulla disposizione di tre terne di sfere scure, che creano intervalli fonici. Si sente che la cultura musicale e poetica di Melotti crea così un’architettura di suoni melodici, in cui le sfere sembrano alludere al suono cosmico. Dice lo stesso Melotti che assistiamo “… all’orfico imeneo della geometria con la poesia”. Possiamo godere del movimento lento di un’architettura frontale, che si offre come un “sistema vivente”, un organismo capace di adattarsi, trasformarsi formalmente, respirare, comunicare in tempo reale, fuor di metafora, e senza ricorso alcuno ad improbabili innesti tecnologici, nel presente molto ricercati. In questo caso possiamo dimenticare i confini tra il mondo che cerchiamo nel pensiero e la realtà. La scultura quadrata di piombo, a muro, di Nunzio Senza titolo (2011) e il pastello su carta Senza titolo (2008), ci ricordano che se partiamo dall’assunto che la storia, in quest’ultima parte del secolo, non è mai stata un evento lineare, ma un cumulo di interruzioni e dislocazioni, allora possiamo capire come l’artista romano segua l’orientamento di un gesto espressivo, in cerca di un rapporto non illusorio tra la superficie e il centro del volume, con i ritmi danzanti, o taglienti, di tanta architettura odierna. Il metallo e il pastello nero mirano ad enfatizzare la leggerezza del peso reale del materiale. Si tratta di opere che possiedono l’aspetto di un volume globale, architettonico, unitario, che le dispensa da qualsiasi armatura interna e dirige l’attenzione sull’elaborazione attenta, tattile, erogena, delle superfici, che ricordano edifici claustrofobici. Luigi Mainolfi, presente con un’opera nella vicinissima Chiesa dei SS. Carlo e Agata, (altre tre sono di Domenico Borrelli) potrebbe anche essere definito un architetto paesaggista, superando le contraddizioni disciplinari del suo lavoro, per farci intravvedere una nuova sensibilità, un pensiero fortemente legato alle tradizioni culturali native, sviluppate in parallelo ai movimenti artistici che hanno rappresentato una continua fonte di ispirazione e di modelli, i quali tradotti nel paesaggio del suo pensiero sono diventati oggetti di grande fascino. Le visioni di Mainolfi, riguardo l’idea di città e di paesaggionatura, si sono trasformate in un lavoro specifico, in cui colori, materiali, forme, si dispongono rivelando e trasfigurando la natura e la topografia dei luoghi. I luoghi e le forme dell’artista ci appaiono sopratutto quali “spazi mentali”, interpretati a volte, come le forti visioni di un’immaginazione arcaica, anche fabulistica. Il potere evocativo delle sue sculture compone e alimenta comunque un dialogo sottile sulla realtà delle cose e la natura. Se guardiamo La sposa e la capretta (2002, ferro e tessuto) ci rendiamo conto che si tratta di una colonna rivestita di nastri bianchi, che giocano con due rossi, quindi un elemento essenziale dell’architettura. Essa rappresenta l’asse della costruzione, ne collega i diversi livelli, e ne garantisce la solidità. In realtà questa scultura allungatissima, che sembra voler sfiorare con il suo capitello-busto il cielo, è la metafora dell’essere, “l’albero della vita”, un’apparizione mitica, irreale e spirituale. Sembra disegnata dal vento che la muove. Piana degli occhi (maschio), (1984, terracotta policroma e ferro) esposta in galleria, sembra rimandarci invece all’immagine di un muro di pietra a tranci irregolari, dal quale noi siamo guardati attraverso innumerevoli occhi. Un altro lavoro di grande pregnanza è Case (1991/1992, terracotta e legno) - un capitolo del suo lun9
go racconto della città dell’anima che fa da sfondo a gran parte della sua ricerca - posta su un tavolino minimale di sapore antico. Le abitazioni arcaiche hanno l’essenzialità plastica delle forme assolute, che non ammettono nessun rapporto con l’odierno spazio esterno, ma non escludono mediazioni naturalistiche tra significato e significante. Mainolfi mira a cogliere il seme originario della forma plastica. Legate alla radice della forma simbolica troviamo immagini che si propongono di sfiorare la parte più intima della nostra coscienza, che alludono al corpo, alla sessualità e al legame segreto, e necessario, che ci unisce alla terra. Marco Gastini, con lo straordinario lavoro I segni mormoran nella conchiglia (1987, tecnica mista su gesso e plexiglas) ci propone una forma tridimensionale a ventaglio, come troviamo sovente oggi in architettura. L’autore ama sottolineare che il focus rappresentativo del suo sguardo perde l’idea di centro, cosicché la pittura e il segno levitante, vengono condotti verso un nuovo limite, che non ha un suo referente esterno nella natura. La pittura trova lo spazio soprattutto nella stratificazione progressiva delle tracce, che si ordinano seguendo la legge di un equilibrio cromatico-formale, che non abita troppo lontano dall’autoreferenzialità. Un’opera come questa rivela che esiste nell’artista la consapevolezza di essersi spinto in una zona incandescente ed ambigua, dove ogni rappresentazione è costretta a misurarsi con un reale, anche urbano, che ha nuove radici, e produce una discontinuità, una frattura nello scorrere ordinario delle cose nel corso della ricerca, ma trova anche nuove domande da farsi. Di altro “peso” sono le sculture in acciaio forgiato di Giuseppe Spagnulo, e citiamo per tutte Libro (2010), un oggetto ascendente che ci ricorda un gruppo di grattacieli visti di sera. Nelle opere di Spagnulo c’è un grande “rispetto” per gli eventi semplici, quale il “respiro” che si sente provenire dalla materia, o la dissolvenza che si forma tra luce e materia opaca. Questo lavoro dimostra che la superficie delle cose - altro tema tipico dell’arte odierna - è inquieta, dalle sue fessure fuoriescono e si scambiano nello spazio flussi energetici, è una pelle su cui scorrono segni che la penetrano e la incidono nella carne. L’acciaio che si spezza lascia vedere le sue viscere, la sua cavernosa fisicità. L’arte per il nostro autore serve per cercare gli estremi: il vicino e il lontano, nel tempo e nello spazio, serve a indicarci e a tenere aperto lo scambio, così che esse possano continuare ad esprimere lo stupore e l’inafferrabile. Diverso è il linguaggio di Herbert Hamak, che con H440N, H442N e H646N (2002 e 2003, pigmenti e resina su tela) ci propone parallelepipedi colorati, posizionati in vario modo sulla parete, o nello spazio. Si potrebbe parlare di una ricerca minimalista - qualche punto di contatto esiste negli schemi compositivi, che sono quelli della ripetizione o della progressione seriale - ma la differenza sostanziale, in questo caso, è quella che gli elementi dell’opera allora non erano realizzati dagli artisti, ma erano stati fabbricati per tutt’altro uso. In sostanza erano dei ready made che formavano una composizione scultorea di sapore architettonico. Nel presente possiamo dire che queste forme pure hanno molto influenzato l’architettura contemporanea delle archistar e dei loro muscolari giochi estetici e formali. Infatti i parallelepipedi di Hamak ricordano una struttura a cassetto, che si colloca nel vuoto tra due edifici in una strada dell’Est Village, del BMV Guggenheim Lab. Nella stessa direzione va il lavoro di Ettore Spalletti con I colori si toccano (2005, impasto di colore su tavola). Si tratta di un lavoro che, come è consuetudine nella raffinata ricerca dell’artista, crea uno spazio trasognato, il quale sembra quasi “rappreso” sulla superficie della tavola, come un ambiente, o un muro, si siano cristallizzati nel colore. Tutto è condotto con grande perizia e pazienza, e ci invita a percepirlo e a viverlo come un frammento di architettura, che si afferra meglio se ci muoviamo lentamente da prospettive diverse. È un’opera in cui la consistenza cosmica del pigmento si annida negli spazi dell’ambiente, diventa architettura, la sua superficie perfetta e tranquilla, cromaticamen10
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te teneramente grigia e violetta, rende gli oggetti senza un loro peso, e invita alla contemplazione. Nessuna materia tuttavia è data una volta per tutte: sottoposto a manipolazioni sempre più sofisticate, qualunque materiale oggi si mostra aperto a una vasta gamma di trasformazioni possibili. Gli artisti più giovani realizzano oggi ambienti dematerializzati, spazi silenziosi e vuoti, votati alla leggerezza, rivolti all’interiorità, segnati da cambiamenti minimali nei volumi o da una disposizione particolare della luce, ormai addomesticata e artificiale. Gli artisti di oggi tendono ad avviluppare-sviluppare, contrarre-dilatare i propri oggetti, le superfici crescono, si gonfiano, si ripiegano cosicché la distinzione tra interno-esterno, tra profondità e superficie è svuotata di senso. Domenico Borrelli espone nella Chiesa dei SS. Carlo e Agata dei volumi-palazzo, costruiti con blocchi di paraffina, che creano un senso di espansione dello spazio attraverso l’uso di mattoni vuoti e pieni, che generano aperture e tunnel ricchi di chiaroscuri. Le immagini di leggerezza, di trasparenza, che l’autore cerca, non si lasciano però percepire come sogni, ma come una realtà lattiginosa, distante, senza confini certi. La Colonna (2011, gesso e ferro) è un doveroso omaggio al celeberrimo, e milionario, “tavolo delle vertebre” del grande architetto-designer-fotografo Carlo Mollino. Gioberto Noro fanno ricorso a “modelli” che costruiscono loro stessi con grande perizia, architetture che guardano alla struttura del pensiero, che poi traducono in fotografia. Ma a fare il miracolo è la luce, capace di entrare con decisione in uno spazio denso e spoglio, un’architettura che simula il cemento, una luce che in parte viene assorbita e in parte viene accettata quale evento, come nelle magie teatrali senza tempo. Lavori da meditazione. Il giovane Filippo Centenari propone un lavoro tutto centrato sull’equilibrio instabile dei pesi e su una luce che diventa sia il materiale sia il soggetto dell’opera, crea una realtà in continua evoluzione, passaggio ininterrotto da uno stato all’altro, perciò anti-classica. Forse anche in questi lavori non possiamo evitare di sentire un lampo di memoria, che ci porta a Shanghai e alle sue luci notturne, capace di ricondurci ad un’idea allegorica, con richiami astratti, tra previsione e utopia. Il tema della scultura degli artisti più giovani è trattato in modo molto esauriente in altra parte del catalogo da Alessandro Carrer. Potrebbe darsi che gli architetti più intriganti siano diventati scultori e che gli scultori stiano diventando un po’ architetti. Perché, in entrambi, i linguaggi fanno parte di uno stesso mondo dove si sente un inderogabile desiderio di narrazione.
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Collision. A group of artists in the face of sculpture and architecture. Marisa Vescovo
For many years, in Italy as in other countries, a film has been underway that once seemed science fiction but, over time, has become a thriller. Its title is “Covering with cement” and its plot consists of speculation, interests, and landscapes ruined by excavators and heaps of rubbish. There are many actors: bankers, architects, real estate firms, politicians, cement companies, and artists (think of those works which, with few exceptions, crowd our roundabouts and squares). But the costs of this depressing film are born by the citizens, culture, by today and tomorrow. And like all short films of any interest there are lots of twists and turns: the heroism of the leading stars: the administrators. An obligatory reference point for all this today is the buildings of the Venice biennale’s arsenal which have been reduced to a housewifely view of art or that of the local pub: a festival of banality, a flea market of knickknacks, a pile of things obviously without any pretence to being within the area of ideas and which are emotionally desolating. Despite this depressing panorama we can comfort ourselves by noting that today at last the various forms of sculptural creation and expression have become exceedingly faded and impossible to surpass; this also happened in the Renaissance and Baroque and only stopped at the beginning of the nineteenth century. For many architects sculpture has become something to be considered as an object that architecture carries in pectore. Architects, living in a post-consumerist society that considers icons as a synthesis of their invention and marketing, have transformed design into a three-dimensional object. Technology, graphic programmes, and the exchangeability of materials have all been a good pretext for approaching sculpture. It is necessary to say straight away that Minimalism and Pop Art (but also Constantin Brâncus¸i, Henry Moore, Eduardo Chillida, Richard Serra, Carl Andre, Tony Cragg, and some young artists of the recent generations) have been of great help for creating spectacular designs (which, what is more, have not forgotten organic forms) by such architects as Frank Gehry, Zaha Hadid, Arata Isozaki, Daniel Libeskind (who began his career as a sculptor), and Herzog & de Meuron (who built the Beijing Olympic stadium, the “nest”, together with the artist Ai Wei Wei) who play with minimalism and deconstruction. Are Luis Barragán’s coloured stele in Mexico landscape architecture or sculpture? It is interesting that in 1945 Arturo Martini wrote a famous essay “Scultura lingua morta” in which this great sculptor explained that poetry, music, architecture, and painting have had a great evolution by following the times and events. Only sculpture has remained immobile over the centuries: “... a stately and sacerdotal language, a symbolic writing that is incapable of taking part of the movement of everyday life. Sculpture remains what it is: a dead language that has no common speech, nor can it ever be a spontaneous word spoken between men”. Martini and others thought that the stately monumentality of sculptural works had condemned sculpture to end, because it was incapable of dealing with the 14
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new avant-garde linguistic experiments which had the courage to be an artefact no more but an assemblage, a ready-made, and then an “environment” in a post-media world where the idea of beauty was no longer crucial for judging a work. There is no doubt that, for example, the distinction between sculpture and architecture was made very late in the history of art, and that the diversity of genres and their specificity have impoverished the sphere of creation. This is why, I believe, that no one wonders why sculpture has once more turned back towards architecture and architecture has shifted towards a dialectically sculptural expression. The birth of hybrid works can be seen as the consequence of the twentieth century debate about the synthesis of the arts. A work that is representative of this line of thought is the chapel of Notre-Dame du Haut in Ronchamp by Le Corbusier (represented in the show by a splendid watercolour Femme en buste, 1942) which rung up the curtain, so to speak, on the synthesis between the arts; it caused amazement because the person who imagined and created it had always been considered the apostle of standard, of the “modulor”, of a research aimed at a perfect model as though it had been generated by nature. The public discovered this line of research as the result of later works of architecture by such a superstar as Frank Ghery with his Guggenheim Museum in Bilbao which was intended, quite successfully, to take the place of the works of art on show. Deep down it is the building that is on show and that we go to see: it is a great sculpture, a landmark, a work that gives, or aims to give, an identity to a place. In the gallery are exhibited a group of portrait photos by Patrizia della Porta which are basically constructed from light and shade and that impress on the paper the minimal and vibrating images of various “monuments” by architects on today’s scene. These photos create a strong link between the sculpture on show and the buildings I have spoken of. Patrizia della Porta, specialized in the photography of contemporary architecture, captures with a firm hand both the poetic evocations and sidereal silences emanated by new materials, and the ineffable movement of some detail that is in shadow or swallowed by light. In the buildings of the architects she most admires she searches for the surprise of formal perfection, for a light as sharp as a knife, and the most minimal and telling shots. Photography becomes a boundary between we who observe and the utopia of images. But, speaking of Ghery, we must note that a step preceding this had already been taken by Richard Serra, the great sculptor born on the edge of the Pacific, who considered the ocean as a new way of thinking about space, as a sort of starting point, just as the mass of rusting ships in San Francisco’s ports and shipyards were also a starting point. The mass, the large scale, the leaning walls, the freedom for passing, not around, but inside the sculptures, the possibility for taking different directions - all these are the tough nucleus that Serra gives us in order to think about creativity, for considering the space from and through his sculptures. And this creates a sense of unease, of anxiety that has something to do with the experience of the sublime. Serra is the sculptor who over the past decades has most exemplified sculpture’s potential, a sculpture that takes its place, installs itself within architecture, affirms its own area of extension, and diminishes distinctions. Even today such a sculptor as Anish Kapoor his raised his works, in the Grand Palais in Paris, to a height of 35 metres; the viewers are involved in a series of emotions, of expectations, on their discovery of such unusual geometry and they are led to think that there is no longer a difference between sculpture and architecture: one has changed into the other without any recourse to metaphors. After a century of divisions between disciplines it is worthwhile to put back together humanity’s visual knowledge of its various modes of expression: music, architecture, theatre, poetry, sculpture, photog16
raphy (at the 2009 Venice biennale the sculpture prize was awarded to two photographers: Bernd and Hilla Becher). The installations by Serra, Kapoor, and others define our art today which nomadism and experimentation promise a great future to. And, speaking of music, we are obliged to consider a beautiful work on show here by Fausto Melotti, Scultura G (Nove cerchi), (1967, stainless steel), a three-part structure that rises vertically and also plays with the layout of three sets of dark spheres that create sonic intervals. We can feel that Melotti’s musical and poetical culture is in this way an architecture of melodic sounds where the spheres seem to allude to the music of the cosmos. Melotti himself has said that we are concerned with “... the orphic marriage of geometry to sculpture”. We can enjoy the slow movement of a frontal architecture that reveals itself as a “living system”, an organism able to adapt itself, to transform itself formally, to breathe, communicate in real time, without metaphors and without relying on any improbable technical implants, something that is currently very fashionable. In this case we can forget the boundaries between the world we search for with our thoughts and reality. The square lead wall-piece by Nunzio, Senza titolo (2011), and his pastel on paper Senza titolo (2008) remind us that if we start from the idea that history, in this part of the century, has never been a linear event but an accumulation of interruptions and dislocations, then we can understand how it is that this Roman artist follows the aim of an expressive feature in search of a non-illusory relationship between the surface and the centre of the volume, with the dancing or sharp rhythms of much of today’s architecture. The metal and the black pastel aim at emphasizing the lightness of the material’s real weight. We are dealing with works that have a global, architectural, and unitary volume that avoids any internal armature and directs our attention to the attentive, tactile, and erogenous elaboration of the surfaces, bringing to mind claustrophobic buildings. Luigi Mainolfi, who has one work in the nearby church of SS. Carlo e Agata (there are another three by Domenico Borrelli), could also be defined a landscape architect who overcomes the disciplines of his work in order to allow us to glimpse a new sensibility, a way of thinking strongly tied to native cultural traditions; this is developed concurrently with art movements that have been a continual source of inspiration to him and which, translated into the landscapes of his mind, have become extremely fascinating objects. Mainolfi’s visions of cities and landscape/nature have been transformed into a specific work in which colours, materials, and forms are laid out to display and transfigure nature and the typology of places. The artist’s places and forms seem to us above all to be “mental spaces”, at times interpreted as tough visions of archaic, even fairytale, imaginings. In any case, the power his sculptures evoke create and nourish a subtle dialogue about the reality of things and nature. If we look at La sposa e la capretta (2002, iron and fabric) we become aware that we are faced with a column covered with white tapes and one red one, and thus with an essential element of architecture. The column represents the construction’s axis, it joins together its various levels, and guarantees its solidity. In fact this extremely elongated work, one that seems to want to touch the sky with its capital/ bust, is a metaphor for being, the “tree of life”, a mythical, unreal, and spiritual apparition. It seems drawn by the winds that move it. Piana degli occhi (maschio), (1984, polychrome terracotta and iron), on show in the gallery, seems instead to allude to the image of an irregularly built stone wall through which we are observed by innumerable eyes. Another highly meaningful work is Case (1991/1992, terracotta and wood) - one chapter of his long tale of the cities of the soul which is the basis of a large part of his art - is placed on an apparently 17
antique minimal table. The archaic habitations have the sculptural minimalism of absolute forms; they do not admit any kind of relationship with today’s external space, but they do not exclude naturalistic meditations between the signified and the signifier. Mainolfi aims at gathering the original seed of plastic form. Through symbolic form we discover images that aim at touching the most intimate part of our conscience, that allude to the body, sexuality, and the secret and necessary link that unites us to the earth. Marco Gastini, with his extraordinary work I segni mormoran nella conchiglia (1987, mixed media on plaster and Plexiglas), proposes a fanlike three-dimensional form such as we often find in architecture. The artist loves to underline that the representative focus of his way of looking loses the idea of a centre, so that the painting and the levitating mark are led towards a new limit, one that has no external reference in nature. The painting discovers space above all in the progressive stratification of the marks which are organized according to the laws of chromatic-formal balance, something that is almost self-referential. A work like this reveals that in the artist there exists an awareness of being pushed into an incandescent and ambiguous area where each representation is obliged to measure itself against a reality, even an urban one, that has new roots and produces a discontinuity, a fracture in the ordinary flow of things, but one that also finds new questions for itself. The steel sculptures made by Giuseppe Spagnulo have quite a different “weight”; one example for all is Libro (2010), a rising object that is reminiscent of a group of skyscrapers viewed in the evening. In Spagnulo’s work there is a great “respect” for such simple events as the “breath” we feel exhaled by the material or the fading between light and the opaque material. This work shows that the surface of things - another typical theme of today’s art - is uneasy; from its fissures energetic flows exude and interchange in space; it is a skin over which run marks that penetrate it and dig into its flesh. The broken steel allows a view of its viscera, its cavernous physicality. For this artist art serves for searching for extremes: the nearby and the distant, in time and in space, serve to indicate and keep this exchange open so that they can continue to amaze and be elusive. Herbert Hamak’s language is different; in H440N, H442N and H646N (2002 and 2003, pigments and resin on canvas) he presents us with coloured geometric shapes, placed in various ways on the walls or in space. We could speak of minimalism - there is some point of contact with its compositional schemes, in other words with repetition and serial progression - but in this case the basic difference is that the minimalists did not themselves make the elements of their works which were made for some other use. Basically they were ready-mades that formed a sculptural composition with an architectural flavour. We can say that for the present day their pure forms greatly influenced our contemporary superstars’ architecture and their muscular aesthetic and formal games. In fact Hamak’s forms bring to mind a stacked structure placed in the space between two buildings in a road in the East Village: the BMW Guggenheim Lab. Ettore Spalletti’s work goes in a similar direction, as in I colori si toccano (2005, impasto of colour on panel). This is a work that, as is usual with this artist’s refined art, creates a dreamlike space that almost seems “clotted” on the surface of the panel, almost as though an environment or a wall had crystallized in colour. Everything is done with great ability and patience, and we are invited to perceive and experience his work as a fragment of architecture; this can best be understood if we move slowly from one view to another. These is a work in which the cosmic consistency of the pigment nestles in the spaces of the setting to become architecture. The perfect, tranquil surface of the work, in tender greys and violet, liberates the work of its weight and invites us to contemplate. 18
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However, no material is offered once and for all: today, if they undergo increasingly sophisticated manipulations, then any kind of materials can be receptive to a wide range of possible transformations. Younger artists now dematerialize environments: silent and unburdened empty spaces concerned with interior mediation, marked by a minimal change of the volumes or a subtle arrangement of the light which by now has become tamed and artificial. Today’s artists tend to envelop and develop, decrease and increase their objects; the surfaces grow and swell, and so the distinction between inside and out, depth and surface, becomes emptied of sense. Domenico Borrelli is to be seen in the church of SS. Carlo e Agata; he exhibits volumes that are like buildings, constructed from blocks of paraffin that create a sense of expansion in the space because of his use of bricks that are both empty and full; these generate chiaroscuro-filled openings and tunnels. The images of lightness and transparency that the artist searches for do not allow themselves to be seen as dreams but as a milky, distant reality without certain boundaries. Colonna (2011, plaster and iron) is a due tribute to the famous and timeless “tavolo delle vertebre” by the great architect, designer, and photographer Carlo Mollino. Gioberto Noro make use of “models”, constructed by themselves with great ability, of architectures that reflect the structure of thought, and which are then translated into photography. But the miracle that comes about is due to the light which is able to enter decisively into a dense and naked space, into an architecture that pretends to be made from cement; a light that is partially absorbed and partially accepted as a simple event, as happens in those manifestations of timeless theatrical magic. Works to be meditated on. The young Filippo Centenari concentrates on the unstable balance of weights and on a light that becomes both a material and the subject of his work. He creates works in continual evolution, a continual passage from one state to another and, therefore, works that are anti-classical. In them we cannot, perhaps, help being aware of some flash of memory that leads us to Shanghai and its nocturnal lights, lights that can bring us to some allegorical idea, though with abstract allusions and a call to some Utopia. The sculpture of the younger artists is the subject of a deeper enquiry in the other part of the catalogue by Alessandro Carrer. It might well be that the most intriguing architects have become sculptors and that sculptors have tended to become architects, because both the languages they use are part of the same world, one where an irresistible desire for narrating is felt.
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Statica incerta. Alessandro Carrer
L’architettura oggi deve essere molto più che funzionale; non avrebbe modo di esistere se priva di valori plastici. Senza di essi, l’architettura produrrebbe solo edifici, ma i semplici edifici non sono architettura. [...] Architettura ed arti plastiche, la scultura soprattutto, non costituiscono semplicemente due elementi giustapposti o paralleli ma, come direbbe Le Corbusier, sono un solido e coerente intero... Il corpo di un edificio è quindi definito dall’unisono delle tre arti maggiori, architettura, scultura e pittura. ( José Luis Sert)
La natura - diceva Aristotele - odia profondamente il vuoto; ogniqualvolta si tenta di produrre il vuoto, la materia corre subito a colmarlo perché la materia desidera essere ovunque. Duemilaquattrocento anni dopo sappiamo che è esattamente il contrario: dal vuoto potrebbe essere nato l’Universo intero; il vuoto si agita, fluttua, si contrae, in esso oscilla l’energia, e anche se non c’è modo di determinarne parametri e andamenti, il nulla si rivela quale principio generatore di materia. Dalla sua delimitazione, nell’intervallo con il pieno che lo circonda, nel colmarsi di luce, costruisce lo spazio, produce il volume, costituisce il “doppio negativo” - per usare il titolo della celebre opera d Michal Heizer in Nevada - dell’architettura e della scultura: nel progetto per la biblioteca di Francia Rem Koolhaas immagina un gigantesco parallelepipedo riempito di libri e solcato da buchi, spazi vuoti. “Sono i buchi - racconta l’architetto - a fare la struttura della biblioteca, perché è in queste cavità che si svolge la vita di relazione, si snodano i percorsi, sono possibili le attività di studio e ricerca”. In maniera analoga l’earthwork abitabile e percorribile di Heizer, due incisioni lunghe trenta metri scavate nella cima di due tavolati che formano i lati di un profondo burrone, è il luogo per scoprire l’“eccentricità dell’io” (Rosalind Krauss), uno spazio che costringe a riflettere sul rapporto tra noi e l’altro, tra uomo e ambiente circostante, sia esso naturale o costruito. D’altro canto, era Brancusi a sostenere che l’architettura fosse, più semplicemente, una scultura abitata, mentre in un celebre aforisma, Bruno Zevi, diceva che “la pittura agisce su due dimensioni, anche se può suggerirne tre o quattro. La scultura agisce su tre dimensioni, ma l’uomo ne resta all’esterno, separato, guarda da fuori le tre dimensioni. L’architettura invece è come una scultura scavata, nel cui interno l’uomo penetra e cammina”. In termini di relazioni con lo spazio, esistono coppie oppositive di carattere topologico, esattamente come pieno e vuoto, che definiscono un breviario terminologico vicino sia alla scultura che all’architettura: aperto/chiuso, interno/esterno, circondante/circondato, centro/periferia, per elencare i principali. Tutti quanti partecipano all’analisi degli “oggetti” che abitano lo spazio per definirne il campo di forze, le potenzialità tensive, i valori e il senso. L’implicito è ovviamente il soggetto, lo sguardo che osserva, contempla, abita, usa; l’implicito è anche il riferimento, l’io da cui si dipana la matassa della 24
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relazione, l’incipit dell’intersoggettività tra autore e pubblico. Le Corbusier l’ha enunciato in termini funzionalisti e programmatici attraverso il Modulor, dottrina delle proporzioni sulla base della forma umana, unità di misura universale capace di muovere a giusto mezzo natura e cultura; un sistema generato a partire dalla serie di Fibonacci che è insieme strumento dell’architettura - utilizzato ad esempio per la progettazione dell’Unità Abitativa di Marsiglia - e ricerca di un “ordine poetico, riflessione sul giusto rapporto tra uomo e mondo”, a trovare la perfetta armonia tra tessuto corporeo e tessuto urbano. Nell’ovvia ribalta della Storia e della mutazione tecnologica, cinquant’anni dopo l’istanza individuale è introdotta nel dominio della spettacolarità diffusa e del gigantismo curvilineo: all’epidermide si sostituisce la corporeità permeabile, la co-presenza di interno ed esterno, la fluidità dell’osmotico, dell’uomo come parte del tutto organico e molecolare; Frank O. Ghery, Zaha Hadid, Bernard Tschumi, Rem Koohlaas o il gruppo Coop Himmelb(l)au sono tra gli architetti che sintetizzano al meglio questi aspetti. “Io penso di creare edifici - dice la Hadid - che pur evocando esperienze originali ispirino la gente e facciano provare emozioni, che possano essere luoghi, per citare Derrida, in cui il desiderio può abitare”. Le architetture e i corpi diventano le macchine desideranti di Deleuze, passibili di reciproco consumo, imbevute di modernità liquida (Bauman); sculture monumentali, indipendenti dal loro contenuto, intitolate alla contemporaneità, che, ed è quel che più conta, non smettono di produrre quella Sintesi tra le Arti di cui Le Corbusier fu fautore insieme ad André Bloc, Matisse e Picasso. Una spinta verso l’unificazione, verso l’intersezioni dei saperi, che però ha sempre teso ad essere unidirezionale, dall’architettura verso la scultura, un po’ più raramente il contrario. Le eccezioni, va da sé, esistono e non sono poi così sporadiche: al di là delle più note esperienze di Richard Serra, Christo o il già citato Heizer, un caso interessante è quello della scultrice inglese Rachel Whiteread, che si serve dell’architettura per rovesciare le percezioni dello spettatore e riflettere sul rapporto tra spazio e memoria: le sue sculture sono calchi in gesso di spazi e abitazioni esistenti che vengono poi rivelate in negativo, rompendo l’equilibrio sensoriale e generando aree vuote ad alta densità perturbante. Uno dei suoi lavori più noti, House, è il calco di un interno casa londinese da poco abbattuta che è stato fisicamente sostituito alla casa preesistente, mettendone in luce la memoria delle vite lì trascorse. L’opera ha però destato così tante proteste da parte dei cittadini che l’avevano di fronte ogni giorno che ha dovuto essere abbattuta. Sotto molti aspetti il lavoro della scultrice inglese non è lontano dal concetto di decostruzionismo operato dal filosofo Derrida e ripreso dalle archistar sopracitate. Per quanto rimangano ben salde le regole della geometria euclidea, nell’inversione dei piani, nel superamento della contraddizione tra interno ed esterno a produrre disequilibrio e caos, e nell’esplicitazione dell’io intimo e privato, Rachel Whiteread decostruisce un oggetto familiare per offrirlo al pubblico straniamento. Tra le opere degli emergenti in mostra, quelle di Domenico Borrelli sintetizzano al meglio il rapporto, e i cambiamenti cui è stato sottoposto, tra soggetto e architettura: il lavoro Colonna esplicita apertamente la relazione, tematica e materica insieme, tra scultura e architettura, tra corpo e spazio. La ricerca dello scultore torinese celebra da sempre “il corpo come filo conduttore” (Nietzsche), il corpo quale luogo totemico (per l’arte e la cultura) che si costruisce sulla metrica e sull’ordine, strappandosi, in un continuo movimento a togliere, dal potere del caos. Quasi a sentire l’eco di Le Corbusier, Colonna sembra analizzare il perfetto equilibrio, il principio che è piacere armonico della costruzione, il classicismo del moderno, a dire che l’arte, non importa in che espressione, è sostegno e pilastro della Storia, elemento portante di ogni cultura. E a prescindere dalla forma - suggerisce Rosalind Krauss, e Calatra26
va sarebbe d’accordo - sia essa astratta o oggettuale, essa trova sempre la sua origine nella corporeità. Apparentemente analoghi, in realtà assai differenti, i lavori che compongono la serie dei Blocchi riflettono all’opposto sul potere del disequilibrio. Nella rassicurante perfezione del modulo, nella simmetria del mattone, che ancora una volta potrebbe richiamare Le Corbusier o Mies van der Rohe, si cela invece l’inganno del collasso, la catastrofe della forma: una sorta di decostruttivismo - a mo’ di critica - che resta in potenza eppure ben visibile, imbrigliato nell’instabile illusione della paraffina, racconto della fragilità del tempo e della materia, distopia in cui l’uomo è prima elevato a misura delle sue costruzioni, demiurgo e creatore, poi lasciato ad attenderne l’inevitabile infarto e successivo crollo; il monito è forte: abbiamo forse perduto il senso della misura, del fare per l’uomo, scambiando la necessità universale dell’abitare con la cieca proliferazione degli edifici, perduti in un labirintico tessuto urbano che è ormai protesi vestimentaria dei nostri più inutili, ma sempre più fagocitanti, desideri. Una considerazione non dissimile, sul difficile rapporto che lega la città ai suoi abitanti, tra quotidianità e Storia, tecnologia e tradizione, muove la ricerca di Filippo Centenari, artista cremonese che non ha mai celato le sue collaborazioni con designers e architetti. I lavori si sviluppano a partire da una sintesi di luce e spazio, spesso mediata da oggetti di pertinenza quotidiana che scavano con forza la loro posizione all’interno dell’opera e diventano elementi di contatto tra cielo e terra. Se è vero, come sostiene il semiologo sovietico Yuri Lotman, che “l’elemento utopico è sempre caratteristico dell’architettura, in quanto il mondo creato dalle mani dell’uomo modellizza la sua concezione di un universo ideale”, allora il lavoro di Filippo Centenari aderisce perfettamente a questa definizione in termini “scultorei”: le luci al neon seguono spesso vettori verticali, dal basso verso l’alto o viceversa, allontanandosi progressivamente dagli oggetti cui sono legate. Il caso di Luce in pezzi è esemplare: la morsa àncora al pavimento lo specchio, mentre le diagonali che lo dividono nell’ipotetica rottura ne definiscono il volume architettonico; la luce si eleva al soffitto, a creare una progressiva tensione verso l’alto, ma è anche riflessa nello specchio, bloccata nel mezzo dei due mondi. Così l’opera assume la forma di un racconto che non si realizza, una “fiaba” che dice il desiderio insoddisfatto, l’anelito infinito a cercare l’impossibile ideale. Parafrasando Calvino, le sculture dell’artista cremonese sono “come i sogni e le città, costruite di desideri e paure”. In Luce e Spazio Coincideranno l’elemento utopico è ancora più forte, il riferimento all’architettura sempre più diretto: il filo a piombo disegna la luce, delimita lo spazio, marca la necessità di una progressiva leggerezza, circoscrive la geometria percettiva dello sguardo; il pieno e il vuoto si accavallano, creati e determinati dalla radiazione luminosa, mentre l’occhio di chi guarda è immerso nella contemplazione del movimento. Come nei lavori di James Turrel o Olafur Elliasson, Filippo Centenari prova a creare uno spazio sensoriale, un luogo in cui soggetto e oggetto convergono verso una reciproca e rassicurante visione. Per provare a chiudere il cerchio con il lavoro di Gioberto Noro, coppia di fotografi torinesi - Sergio Gioberto e Marilena Noro - che ha deciso di “condividere la responsabilità di ogni immagine firmando unitamente ogni opera finita”, dobbiamo tornare al breviario di termini oppositivi introdotti nella prima parte del testo, e fare cenno ad un nuovo livello di analisi nel rapporto tra soggetto e architettura/ scultura. Da un lato è infatti necessario precisare come le loro opere abbiano sempre origine nella dualità, nella co-presenza, sul piano della rappresentazione, di elementi di natura oppositiva quali pieno/vuoto, trasparenza/opacità, natura/cultura, domestico/selvatico; dall’altro gli spazi che articolano l’immagine istituiscono immediatamente una relazione di straniamento con il soggetto che li guarda, un confronto diretto con il nostro io profondo. Questo accade sia nel caso di D-Zone #3 che di Came27
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ra #5, in cui lo sguardo è costretto ad abitare, almeno per il tempo dell’osservazione, spazi di natura perturbante, luoghi e non-luoghi che vivono al confine tra mondo reale e immaginario. È vero che il concetto di straniamento all’interno di pareti domestiche ha una lunga trama letteraria, che si snoda da Hoffmann a Poe per investire buona parte del XX secolo, ma è altrettanto vero che negli ultimi anni quello stesso concetto è stato introdotto nel dibattito sull’architettura fino a diventare parte della strumentazione linguistica dei progettisti. Le deformazioni, le rotture o gli smembramenti volumetrici di Ricardo Scofidio, Peter Eisenman e molti altri, rimandano al perturbante, denotando in forma più o meno consapevole la condizione di fragilità e disequilibrio tipiche della contemporaneità (Anthony Vidler). D-Zone #3 è un luogo dell’architettura sospeso sul limen tra naturale e artificiale, nell’incessante incedere del loro conflitto: impossibile dire cosa possa prevalere, se la natura stia soggiogando le futuribili pareti di cemento o accada il contrario; in ogni caso quello spazio vuoto appare abitato da invisibili presenze, territorio d’elezione dell’unheimlich freudiano. Lo stesso accade per l’altra fotografia, Camera #5, dove la luce momentaneamente domesticata nello spazio disegna una meridiana, apre un valico tra due realtà, una soglia tra sole e ombra il cui passaggio risulta comunque prigioniero nel mezzo. Il riferimento a Freud non vuole però essere specifico, non mira alla corrispondenza perfetta con le teorie dello psicanalista austriaco, è piuttosto un rimando alla trattazione che il concetto di perturbante ha assunto nella psicanalisi moderna, abbracciando l’architettura e l’arte contemporanea nel suo complesso; non solo quindi il difficile rapporto che lega psiche e dimora, individuo ed architettura, ma soprattutto il perturbante “come elemento prevalente della nostalgia moderna, i cui elementi toccano ogni aspetto della vita sociale” (Anthony Vidler) conducendo ad una condizione di progressiva instabilità ed esasperante alienazione. Più ancora, lo straniamento come costituente fondativo di ogni testo estetico, a confermare quella sintesi tra le arti tanto auspicata da Le Corbusier.
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Uncertain statics. Alessandro Carrer
Today architecture must be far more than simply functional; it would have no way of existing if it were without plastic values. Without them architecture would only produce buildings, but buildings alone are not architecture. [...] Architecture and the plastic arts, sculpture above all, are not simply two juxtaposed or parallel elements but, as Le Corbusier would say, they are a solid and coherent whole... The body of an edifice is thus defined by the unison between the major arts, architecture, sculpture, and painting. ( José Luis Sert)
Aristotle said that nature abhors a vacuum; every time we try to produce emptiness material as once rushes to fill it in because material wishes to be everywhere. Two thousand four hundred years later we know that it is the exact contrary: the whole universe might well have been born from nothing; the void is agitated, fluctuates, contracts, and energy oscillates inside it; even though there is no way of determining parameters and progressions, the void reveals itself as the main generator of material. From its delimitation, in the gap between the fullness that surrounds it, and by filling itself with light, it constructs space, produces volume; it constitutes the “double negative” - to use the title of a famous work by Michael Heizer in Nevada - of architecture and sculpture: in his project for the French Library, Rem Koolhaas has imagined a gigantic parallelepiped filled with books and marked by holes, empty spaces. The architect has said that “it is these cavities that create the structure of the library because it is in them that relationships take place, that itineraries are formed, and the activities of study and research are possible”. In a similar way, Heizer’s earthwork, which is inhabitable and can be walked through - two incisions thirty metres long excavated at the top of two plateaus forming the sides of a deep trench - is a place for discovering the “eccentricity of the self” (Rosalind Krauss). It is a space that forces us to reflect on the relationship between us and the others, between humanity and the surrounding environment, whether natural or constructed. On the other hand, Brancusi held that architecture was, more simply, an inhabited sculpture. In a famous aphorism Bruno Zevi said that “painting acts in two dimensions, even if it can suggest three or four. Sculpture acts in three dimensions, but humanity remains outside, separated, sees the three dimensions externally. Architecture, instead, is like excavated sculpture inside which humanity can penetrate and walk”. Just like emptiness and fullness, in terms of relationships with space opposing couples of a topological character exist and define a terminological compendium near to both sculpture and architecture: open/closed, inside/outside, surrounding/surrounded, central/peripheral, to list just a few. All of them are part of any analysis of the “objects” that occupy space in order to define its fields of force, its tensile potential, its value and meaning. Obviously the subject is implicit: the eye that observes, contemplates, 31
inhabits, and utilizes. The reference point is also implicit: the self from which relational difficulties are unravelled, the incipit of the subjectivity woven between the artist and the public. Le Corbusier stated this in functional and programmatic terms with his Modulor, the doctrine of proportions based on the human form, a universal measure of the golden mean between nature and culture; a system generated with its starting point in the Fibonacci series and which is both an architectural tool - used for example for planning the Unités d’Habitation in Marseilles - and a search for a “poetic order, a meditation on the right relationship between man and the world”, for finding the perfect harmony between the fabric of the body and that of towns. Due to inevitable historical reaction and technological changes, fifty years later the individual factor was seen in widespread spectacularity and curvilinear gigantism: the epidermis was replaced by a permeable body, by the co-presence of inside and out, osmotic fluidity, mankind as part of an organic and molecular whole. Frank O. Ghery, Zaha Hadid, Bernard Tschumi, Rem Koohlaas or the Coop Himmelb(l)au group are among the architects who best sum up these aspects. Hadid has said that she imagines creating buildings that, while summoning up original experiences, also inspire people and provide them with emotions, buildings that might be places, as Derrida said, where desire can live. Architecture and bodies become Deleuze’s machines of desire traversed by reciprocal consumption, soaked in liquid modernity (Bauman). They are monumental sculptures independent of their content, dedicated to contemporaneity, and, what counts most, they continue to produce the synthesis of the arts that Le Corbusier promoted together with André Bloc, Matisse, and Picasso. A drive towards unification, towards the intersection of knowledge which, however, has always tended to be unidirectional, from architecture towards sculpture, more rarely the reverse. Obviously there are exceptions nor are they all that sporadic: apart from the well-known experiences of Richard Serra, Christo or of the previously mentioned Heizer, an interesting case is that of the English sculptor Rachel Whiteread. She makes use of architecture in order to overturn the viewer’s perception and reflect on the relationship between space and memory: her sculptures are plaster casts of existing spaces and habitations that are then shown negatively; they break the sensorial balance and generate empty areas which are highly disturbing. One of her best known works, House, is the cast of the interior of a pre-existing house which highlights the memories of the life passed in it. However, the work led to so many protests by the people who saw it every day that it had to be demolished. In many respects her work is not that far from the deconstructionism of the philosopher Derrida and adopted by the previously mentioned superstars. However much Euclidian rules of geometry remain in place, through the inversion of planes, the overcoming of the contradiction between inside and out to create imbalance and chaos, and the underlining of the intimate and private self, Rachel Whiteread deconstructs a familiar object in order to offer it for public alienation. Among the works by emergent artists on show, those by Domenico Borrelli best sum the relationships, between the subject and architecture: his work Colonna overtly states the relationship, which is both thematic and consistent, between sculpture and architecture and the changes it has been subject to, between body and space. The work of this Turin-born sculptor always celebrates “the body as a leitmotiv” (Nietzsche), the body as a totemic place (for art and culture) that is built on metrics and order and that continuously tears itself away from power and chaos. Almost like an echo of Le Corbusier, Colonna seems to analyze perfect balance, the principle of the harmonic pleasure of construction, and the classicism of modernity in order to say that art, however it is expressed, is the support and column of history, the load-bearing element of every culture. And apart from the form - as Rosalind Krauss 32
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suggests, and which Calatrava would agree with - whether abstract or objective, it always discovers its origin in corporeity. Apparently similar, though in fact quite different, the works in the Blocchi series meditate on the power of imbalance. Beneath the reassuring perfection of modules and the symmetry of bricks, which once again might remind us of Le Corbusier or Mies van der Rohe, there is instead hidden the deception of collapse and the catastrophe of form: a kind of deconstructivism - by way of criticism - that is latent even though quite visible, caught up as it is in the unstable illusion of the paraffin; it recounts the fragility of time and material, a dystopia in which mankind is first elevated, as a demiurge and creator, to the level of his constructions, and then allowed to wait for its inevitable malady and fall. The warning is a harsh one: we have perhaps lost our sense of mankind’s measure and making-abilities by exchanging the universal need for inhabiting with the blind proliferation of buildings, lost in a labyrinthine urban fabric that is by now the dressed-up prosthesis for our useless, all-engulfing, desires. A similar consideration about the difficult relationship between towns and their inhabitants, between everyday life and history, technology and tradition, lies at the heart of the work by Filippo Centenari, an artist from Cremona who has rightly never been ashamed, of his collaborations with designers and architects. The works develop from a synthesis of light and space, often mediated by objects taken from everyday life that forcefully dig out their own position inside the work and become elements for contact between heaven and earth. If it is true, as the Soviet semeiologist Yuri Lotman says, that “a utopian element has always been characteristic of architecture because the world created by the hand of man models his concept of an ideal world”, then Filippo Centenari fits this definition perfectly in “sculptural” terms: his neon lights often move vertically, from the bottom to the top and vice versa, progressively distancing themselves from the objects they are linked to. The case of Luce in pezzi is exemplary: the clamp anchors the mirror to the floor while the diagonals that mark out a hypothetical breaking point define the architectonic volume. Light rises to the ceiling to create a progressive upward moving tension, but it is also reflected in the mirror, blocked between two worlds. So the works has the form of an untold story, a “fairytale” that recounts unsatisfied desire, the infinite yearning for an impossible ideal. To paraphrase Calvino, his sculptures are “like dreams and cities, constructed from fears and desires”. In Luce e Spazio Coincideranno, the utopian element is even stronger and the reference to architecture even more direct: the plumb-line draws the light, delimits space, marks out the need for more airiness, circumscribes the perceptive geometries of the eye. Fullness and emptiness are superimposed, created and determined by the luminous radiation, while the eye of the viewer is immersed in the contemplation of movement. As in the works by James Turrel or Olafur Elliasson, Filippo Centenari tries to create a sensorial space, a place in which subject and object converge on a reciprocal and reassuring vision. In order to round of this discussion with the work of Gioberto Noro, a couple of photographers from Turin - Sergio Gioberto and Marilena Noro - who have decided to “share the responsibility for each image by signing each finished work together”, we must return to the compendium of opposites mentioned at the start, and hint at a new level of analysis of the relationship between subject and architecture/sculpture. In fact, on the one hand it is necessary to indicate how, on the plane of representation, their works have always originated from the duality, from the joint presence of such opposite elements of nature as full/empty, transparency/opacity, nature/culture, and domestic/wild; on the other hand are the spaces that articulate the image and are immediately aware of an alienated relationship between the subject and the viewer, of a direct confrontation with our deepest self. This 34
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happens both in D-Zone #3 and in Camera #5 in which, at least for the period of observation, the eye is forced to inhabit disturbing spaces, the places and non-places on the boundary between the real and the imaginary world. It is true that the concept of alienation within the domestic walls has a long literary tradition, running from Hoffmann to Poe and then on throughout the twentieth century, but it is just as true that in recent years that very concept has been part of the debate about architecture to the point of becoming one of the linguistic tools of designers. The volumetric deformations, fractures and dismemberments of Ricardo Scofidio, Peter Eisenman and others refer to disturbance and denote in a more or less knowing form the fragility and imbalance typical of contemporaneity (Anthony Vidler). D-Zone #3 is an architectural place suspended on the limen between the natural and the artificial in the incessant advance of their conflict: it is impossible to say which will prevail and whether nature is threatening the future walls of cement or whether the opposite will happen. In any case, that empty space seems inhabited by empty presences, the favourite territory of Freudian unheimlich. Likewise for the other photograph, Camera #5, where the momentarily domesticated light in the space traces a sundial, creating an opening between the two realities, a threshold between sun and shadow which nevertheless reveals itself to be imprisoned in the middle. However, my reference to Freud was not meant to be specific; it did not aim at making a simple parallel with his theories; it was, rather, a reference to the treatment that the concept of disturbance has had in modern psychoanalysis when dealing with contemporary art and architecture in their totality; so disturbance, not just the difficult relationship between the psyche and the home, the individual and architecture, but above all “the prevailing element of modern nostalgia, the elements of which touch on every aspect of social life� (Anthony Vidler) leads to a progressive condition of instability and exasperating alienation. Even more, alienation as a basic element of every aesthetic text is a confirmation of that synthesis between the arts that Le Corbusier so mush hoped for.
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Apparati Appendix
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pagine 4-5 Gioberto Noro, Camera #5, 2006 Stampa a pigmenti su carta di puro cotone cm. 104x152 Pigments printed on pure cotton paper
pagina 12 Nunzio, Senza titolo, 2008 Pastello su carta, cm. 198x98 Pastel on paper Foto: Carlo Vannini, Reggio Emilia
pagina 20 Filippo Centenari Luce e Spazio Coincideranno, 2011 Fili a piombo, neon, trasformatore misura ambiente Plumb threads, neon, transformer room dimension
pagina 6 Patrizia della Porta Jewish Museum Berlino. Variazione sul tema 37, 2006 Stampa a mano ai sali d’argento su carta baritata, cm. 60x50 Silver bromide hand-print on baryta paper
pagina 11 Herbert Hamak, H442N, 2002 Resina e pigmenti su tela, cm. 48x19x19 Resin and pigments on canvas
pagina 14 Patrizia della Porta Guggenheim Museum Bilbao. Variazione sul tema 8, 1998 Stampa a mano ai sali d’argento su carta baritata, cm. 96x64,5 Silver bromide hand-print on baryta paper
pagina 19 Filippo Centenari, Luce in pezzi, 2011 Morsa in ferro, specchio, pittura, neon, alimentatore, misura ambiente Iron clamp, mirror, paint, neon, feeder room dimension
pagina 22 (particolare) Marco Gastini I segni mormoran nella conchiglia, 1987 Tecnica mista su gesso e plexiglas cm. 75x86x44 Mixed media on plaster and Plexiglas
pagina 23 Marco Gastini I segni mormoran nella conchiglia, 1987 Tecnica mista su gesso e plexiglas cm. 75x86x44 Mixed media on plaster and Plexiglas
Foto: Carlo Vannini, Reggio Emilia
Foto: Carlo Vannini, Reggio Emilia
pagina 24 Marco Gastini, Linea di cielo, 2008 Tecnica mista su vetro, ferro e pietra cm. 60x43,5x23,5 Mixed media on glass, iron and stone
pagine 28-29 (particolare) Luigi Mainolfi Piana degli occhi (maschio), 1984 Terracotta policroma e ferro cm. 130x178x25 Polychrome terracotta and iron
pagina 33 Luigi Mainolfi Piana degli occhi (maschio), 1984 Terracotta policroma e ferro cm. 130x178x25 Polychrome terracotta and iron
Foto: Carlo Vannini, Reggio Emilia
Foto: Carlo Vannini, Reggio Emilia
pagina 34 Luigi Mainolfi, Case, 1991/1992 Terracotta e legno, cm. 180x100x70 Terracotta and wood
pagina 37 (particolare) Luigi Mainolfi, Case, 1991/1992 Terracotta e legno, cm. 180x100x70 Terracotta and wood
pagina 38 (particolare) Herbert Hamak, H646N, 2003 Resina e pigmenti su tela, cm. 30x16,5x15 Resin and pigments on canvas
Foto: Carlo Vannini, Reggio Emilia
Foto: Carlo Vannini, Reggio Emilia
Foto: Carlo Vannini, Reggio Emilia
pagina 39 Herbert Hamak, H646N, 2003 Resina e pigmenti su tela, cm. 30x16,5x15 Resin and pigments on canvas
pagine 40-41 Ettore Spalletti, I colori si toccano, 2005 Impasto di colore su tavola, cm. 40x80x4 Coloured impasto on panel
pagina 43 Nunzio, Senza titolo, 2011 Piombo su legno, cm. 160x150x4 Plumb on wood
Foto: Carlo Vannini, Reggio Emilia
Foto: Michele Alberto Sereni, Pesaro
Foto: Francesco Landolfi, Roma
Foto: Carlo Vannini, Reggio Emilia Foto: Claudio Abate, Roma
Foto: Pietro Diotti, Cremona
Foto: Pietro Diotti, Cremona
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pagina 44 Patrizia della Porta Whitney Museum New York. Variazione sul tema 7, 1980 Stampa a mano ai sali d’argento su carta baritata, cm. 60x50 Silver bromide hand-print on baryta paper
pagina 45 Patrizia della Porta Whitney Museum New York. Variazione sul tema 8, 1980 Stampa a mano ai sali d’argento su carta baritata, cm. 40x50 Silver bromide hand-print on baryta paper
pagina 47 Patrizia della Porta Guggenheim Museum New York. Variazione sul tema 11, 1981 Stampa Giclee su carta Hahnemuhle cm. 101x63 Gyclée print on Hahnemuhle paper
pagina 55 Herbert Hamak, H440N, 2002 Resina e pigmenti su tela, cm. 47,5x19x19 Resin and pigments on canvas
pagina 57 Giuseppe Spagnulo, Libro, 2010 Acciaio forgiato, cm. 128x37,5x40 Forged steel
Foto: Carlo Vannini, Reggio Emilia
Foto: Daniele Prandi, Reggio Emilia
pagine 58-59 Gioberto Noro, D-Zone #3, 2007 Stampa a pigmenti su carta di puro cotone, cm. 104x152 Pigments printed on pure cotton paper
Chiesa dei SS. Carlo e Agata
pagina 48 Patrizia della Porta Berlino Potsdamer Platz #2, 2003 Stampa a mano ai sali d’argento su carta baritata, cm. 60x50 Silver bromide hand-print on baryta paper
pagina 49 Patrizia della Porta Berlino Potsdamer Platz #3, 2003 Stampa a mano ai sali d’argento su carta baritata, cm. 60x50 Silver bromide hand-print on baryta paper
pagina 50 (particolare) Fausto Melotti Scultura G (Nove cerchi), 1967 Inox, cm. 168x100x81 Stainless steel
pagina 51 Fausto Melotti Scultura G (Nove cerchi), 1967 Inox, cm. 168x100x81 Stainless steel
pagina 53 Domenico Borrelli, Block 128, 2009 Mattoni in paraffina, plastica e alluminio cm. 188x46x46 Paraffin bricks, plastic and aluminium
pagina 54 (particolare) Herbert Hamak, H440N, 2002 Resina e pigmenti su tela, cm. 47,5x19x19 Resin and pigments on canvas
Foto: Carlo Vannini, Reggio Emilia
Foto: Carlo Vannini, Reggio Emilia
pagina 61 Giuseppe Spagnulo, Cubus 2, 2011 Acciaio forgiato, cm. 47x56x56 Forged steel
Foto: Carlo Vannini, Reggio Emilia
Foto: Carlo Vannini, Reggio Emilia
pagina 65 Allestimento all’interno della Chiesa dei SS. Carlo e Agata Exhibition set up
pagina 66 (particolare) Luigi Mainolfi La sposa e la capretta, 2002 Ferro e tessuto, misura ambiente Iron and fabric, room dimension
pagina 67 Luigi Mainolfi La sposa e la capretta, 2002 Ferro e tessuto, misura ambiente Iron and fabric, room dimension
Foto: Carlo Vannini, Reggio Emilia
Foto: Carlo Vannini, Reggio Emilia
Foto: Carlo Vannini, Reggio Emilia
pagine 62-63 Chiesa dei SS. Carlo e Agata Via San Carlo, 1 - Reggio Emilia
Foto: Carlo Vannini, Reggio Emilia
Foto: Carlo Vannini, Reggio Emilia
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pagina 60 Giuseppe Spagnulo, Cubus 1, 2011 Acciaio forgiato, cm. 50x63x63 Forged steel
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pagina 68 Domenico Borrelli, Colonna, 2011 Gesso e ferro, cm. 432x60x60 Plaster and iron
pagina 69 Domenico Borrelli, Building, 2011 Mattoni in paraffina, plastica, legno cm. 190x92x92 Paraffin bricks, plastic, wood
Foto: Carlo Vannini, Reggio Emilia
pagina 71 Domenico Borrelli, Clearing, 2011 Mattoni in paraffina, misura ambiente Paraffin bricks, room dimension Foto: Carlo Vannini, Reggio Emilia
Foto: Carlo Vannini, Reggio Emilia
pagine 72-73 (particolare) Domenico Borrelli, Clearing, 2011 Mattoni in paraffina, misura ambiente Paraffin bricks, room dimension
pagina 79 Le Corbusier, Femme en buste, 1942 Gouache su carta, cm. 27x21,5 Gouache on paper
Foto: Carlo Vannini, Reggio Emilia
Foto: Luca Bottello, Torino
La scultura: il farsi corpo della verità dell’Essere nella sua opera instaurante luoghi. 78
Martin Heidegger
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Marisa Vescovo Alessandro Carrer
C O L L I S I O N I
Un gruppo di artisti tra scultura e architettura
2000 & NOVECENTO Galleria d’Arte
B or r e l l i Centenari
Via Emilia San Pietro, 21 42121 Reggio Emilia - Italia tel. 0522 580143 - fax 0522 496582 duemilanovecento@tin.it www.duemilanovecento.it Orari: 10/12.30-16/19.30 Chiuso la mattina di Giovedì Aperto Domenica e Festivi
C O L L I S I O N I
De l l a P orta Gastini Gi obert o N or o Hamak L e C or b u s i e r
XXVII COLLISIONI
Un gruppo di artisti tra scultura e architettura a cura di Marisa vescovo GIANFRANCO ROSSI
15 ottobre - 30 novembre 2011
M a i n ol fi Melotti
Con il patrocinio di
Nunzio S pa g n u l o S pa l l e t t i
2000 & NOVECENTO
2000 & NOVECENTO Edizioni d’Arte
In collaborazione con