G I O R G I O
G R I F F A
2000 & NOVECENTO Edizioni d’Arte
2000 & NOVECENTO Galleria d’Arte
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GIORGIO GRIFFA 8 cicli 2000 & NOVECENTO Galleria d’Arte Via Emilia San Pietro, 21 Reggio Emilia 10 ottobre - 30 novembre 2009
Mostra a cura di Gianfranco Rossi Catalogo a cura di M. Paule Fournier e Erika Rossi Organizzazione e coordinamento di M. Paule Fournier e Erika Rossi Ufficio stampa e pubbliche relazioni Erika Rossi Prefazione di Luigi Abbate Testo di Marisa Vescovo Foto di Daniele Prandi, Reggio Emilia Fabio Fantini, Reggio Emilia Traduzioni di Michael Haggerty, Verona In copertina, Linee orizzontali, 1969 (particolare), foto di Fabio Fantini, Reggio Emilia In patella di copertina foto di Daniele Prandi, Reggio Emilia
© 2009, 2000 & NOVECENTO - Edizioni d’Arte Stampato nell’ottobre 2009 da Grafiche Step, Parma
Luigi Abbate - Marisa Vescovo
Giorgio Griffa
8 cicli
2000 & NOVECENTO Edizioni d’Arte
Di segno in suono Luigi Abbate
Non sono poche le intermittences du cœur, i cortocircuiti emotivi e intellettuali, estetici e culturali che scattano declinando la poetica di Giorgio Griffa con i casi della parola musica. E non certo in virtù di doverose quanto stucchevoli convenienze (la trita locuzione Ut Pictura…), ma, oltre che per un’autentica attrazione di Giorgio per l’arte de’ suoni, per il suo riconoscere una posizione privilegiata della musica nel “percorrere - come lui stesso dice - quell’itinerario di conoscenza dell’ignoto e dell’ineffabile che risale a Orfeo”, anche e soprattutto per le caratteristiche, vien da dire, organolettiche del suo lavoro. Trattare diffusamente di questi cortocircuiti sarebbe un inopportuno sovrapporsi al testo critico cui queste righe fanno solo da preludio. Proverò allora a individuare solo alcuni possibili luoghi di coabitazione, dove la mia esperienza di musicista incrocia il percorso con quella del pittore Griffa. Tracce personali, presupposti estetico-antropologici di un più vasto rapporto arte-musica. Pittura che vive nel mondo dei segni, quella di Griffa incontra, non troppo tangenzialmente, il problema tutto musicale della decodifica di quei segni. Segni nobili ma, specie nel Griffa degli esordi, volutamente depauperati, privati di quell’aura romantica in base alla quale l’opera d’arte si definisce come tale. Segni ossuti, prosciugati da qualunque orpello mnestico, non quindi come, in musica, una Bagatella di Webern, o un più recente aforisma di Kurtag, “romanzi in un respiro” - avrebbe detto Schoenberg - stracarichi di memoria. Piuttosto, certo radicalismo di Cage o Feldman: oppure, si parva licet, il mio Apax per quintetto di fiati datato ’84-’85, il cui titolo greco, seguito da legòmenon significa “mai più detto di nuovo, mai più ripetuto”. Nato compositivamente negli anni Ottanta del secolo scorso, in un’epoca non ancora abituatasi alla scrittura musicale al computer, stendevo questo primo lavoro, che mi ha fatto conoscere, rigorosamente a mano, con cura fin maniacale, forse anche perché la composizione era la rilettura musicale di un’opera pittorica fortemente “segnica” - quasi un destino. La partitura poteva in questo modo vivere di una sua autonomia sotto l’aspetto grafico, e così il feticcio della pagina ben scritta si scopriva correlato musicale di un più nobile e prezioso feticcio, la tela nuda su cui l’artista lascia il suo segno. Pensiero radicale, estremo, proprio come una quindicina d’anni prima le tele degli esordi di Griffa. Che nella forte autoreferenzialità del segno, verticale, orizzontale, diagonale, poco o nulla parevano concedere alla succulenza del percepire, al godimento della forma e del colore, così come il sottoscritto compositore pure ai suoi esordi negava la ripetizione in musica, quindi la riconoscibilità dell’oggetto (in termini musicali: motivo, tema, armonia). Poi Griffa passerà, per sua stessa ammissione, dalla fase “calvinista” a quella “mediterranea”. Come per me, (Apax, se mi si passa il bisticcio, non sarà mai più ripetuto). 5
Come, credo, per molti. E il passaggio avverrà, come per tutti, nella direzione di un graduale recupero della memoria Nel frattempo però il rito della decodifica o meno del segno, ha ormai caricato l’opera di Griffa di valenze esoteriche proprie della musica: “All’artista viene affidata la conoscenza di ciò che non si può conoscere”. E quasi a voler girare il coltello nella piaga, insiste facendo suo il principio di indeterminazione di Heisenberg, il teorema di incompletezza di Godel, le vertigini poetico-esistenziali di Pound. Nel suo Trattato d’armonia Pound, lui, poeta, è capace di spiegare con geniale lucidità il problema della non verticalità dell’armonia - ogni accordo musicale è percepibile solo se persiste, anche per un istante, nel tempo. La musica si riconosce e stabilisce nel tempo le sue gerarchie: in passato si parlava di tonalità (qualcuno comodamente la pratica ancora oggi) oggi si dice polarizzazione, campi armonici... L’esperienza aiuta a maturare la necessità di una ricerca più profonda sul senso del lavoro artistico, e il rapporto fra “riempimento” della tela e completamento del gesto pittorico attraverso il segno trova ancora una volta un correlato musicale nel rapporto fra gesto esecutivo (il migliore possibile) e ricerca della innere Stimme schumanniana, la voce interiore che sta scritta sulla carta da musica ma che può non essere eseguita. E proprio Griffa parla di una sua “… volontà di passare da una imitazione della natura per linee esterne a una per linee interne”. Nulla di casuale, dunque! Questa alternativa, dell’eseguibilità o meno (gli oppure, gli ad libitum, i ritornelli facoltativi…), e in genere tutte le variabili legate all’interpretazione di un testo musicale, mi fanno ricordare un altro aspetto peculiare della poetica di Giorgio Griffa, riassunto ancora una volta in un’osservazione ricorrente nei suoi scritti, dichiarazione di passività nei confronti della materia: “Costruire un’opera d’arte con segni che appartengono alla mano di tutti”. Umanissima, intima lettura della deleuziana deterritorializzazione, che, confesso, provoca turbamento al mio ego musicale. Inquietante tensione verso l’anonimato artistico, inclinazione sottile verso il cupio dissolvi. Condivido altresì con Griffa la necessità di sfatare l’idea ancora una volta romantica secondo cui l’artista/musicista debba necessariamente sentirsi depositario della verità (che è poi, declinata al singolare, nient’altro è che una specifica forma di saggezza) e non pretendere di imporre questa verità agli altri; insomma, una dimensione squisitamente laica. Anche in que-
Luigi Abbate, da Swallows n. 2/2 bis (particolare)
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sto senso forse si può leggere la non necessità di un supporto alla tela, metafora-metonimia di quella pretesa di una imposizione. Ma ecco all’improvviso, e per contrasto apparire all’orizzonte un nuovo argomento, quasi a voler riscattare i diritti di paternità, di autorialità sull’opera: è il lavoro dell’artista, il lavoro quotidiano, così simile a quello, assai più artigianale di quanto i non addetti ai lavori possano immaginare, del musicista, esecutore o compositore che sia. Il lavoro, per esempio sui materiali, come l’uso dei colori ad acqua - “che mi avvicina alla tradizione mediterranea” - e che consente il processo dello sposalizio fra i materiali. E, in musica, che cosa è questo sposalizio se non il cosiddetto “impasto di colori”, sic et simpliciter definito nei manuali di strumentazione e orchestrazione; va senza dire, espressione desunta quasi naturalisticamente dalla pratica della pittura! E l’idea che questo sposalizio, ovvero l’assorbimento di un colore nell’altro, avvenga sulla tela, per conto suo “… assistevo - dice Griffa - come spettatore attento e partecipe ad una azione che non facevo io”. È un po’ come il compositore che, quando non esecutore di se stesso, si affida al suo interprete: il compositore ascoltatore/spettatore del suo stesso lavoro. Ancora una volta, il misterioso ceder le armi dell’autore, fiducioso nei confronti dell’autogenesi dell’opera. Durante una recente conversazione, Giorgio mi parlava di “intelligenza della materia”: di nuovo un’espressione felice e veritiera, rinnovabile in molti casi artistici, e felicissima anche nella composizione musicale. Aggiungerei: generosa capacità della materia di accumulare informazioni, vettorialità… Generosa, perché in grado di assorbire, metabolizzandole, persino scorie, ovvero tensioni, sofferenza, trasducendo ri-creativamente pulsioni decostruttive/distruttive. Altro aspetto affascinante è quello numerologico. E, inevitabilmente, ancora un forte rimando musicale. Numero più Griffa uguale sezione aurea. Ars combinatoria per eccellenza, la musica non prescinde dal ricorso al numero, alla serie di Fibonacci, alla sezione aurea, sia nell’analisi dei presupposti fisico-acustici che nei procedimenti compositivi. Il numero è strutturalmente inerente il fare musicale. E anche qui non mancano allusioni a un coté esoterico: non è forse l’irrazionalità del numero misura del suo fascino? Certamente l’espressione matematica all’interno della quale si inscrive la sezione aurea, e quel “numero che non finisce mai” stimolano la
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mente pensante dell’artista, del musicista, alimentandone l’ambizioso sforzo deterministico di acchiapparne la noce, il succo della sua precisione peculiare. D’altro canto questa precisione, non esistendo per via della caratteristica irrazionale del numero, trasforma lo sforzo ambizioso in progetto utopico, con tutte le derive e le conseguenze che ciò determina. (1,618033… confesso, caro Giorgio, di “vellicarlo” io stesso nel mio comporre, usandolo, sia ben chiaro (!) solo come il falegname usa uno dei suoi tanti attrezzi…). Senza dire poi del “caso Bartók”: il musicologo Ernö Lendvai analizza la musica di Bela Bartók individuando nella sezione aurea la chiave di lettura dell’organizzazione formale del suo approccio alla composizione (proporzioni nel numero di misure, rapporti intervallari, etc.). Eppure, e il fatto è curioso e significativo, non risulta - non solo dagli scritti ma anche da testimonianze di prima mano - che Bartók abbia mai fatto cenno e tantomeno utilizzato la sezione aurea nel suo approccio alla composizione. Questo è quanto. Dunque può esser legittimo dedurre che, almeno nel caso di Bartók, l’evidenza formale, diremmo la fenomenologia musicale della sezione aurea - giacché, grazie agli studi di Lendvai tale risulta - persista come retaggio se non genetico, perlomeno culturale piuttosto che come riflessione progettuale o speculazione teorica. “Io non rappresento nulla; io dipingo”. Affermazione che avvicina Griffa alla Poétique Musicale di Stravinskij (La musica è per sua natura inadatta a esprimere alcunché…). Ancora una volta la fertile ambiguità del rapporto con il segno in quanto veicolo, o meno, di senso. Essendo profondamente convinto che la poetica e l’operare artistico di Giorgio Griffa abbiano molto da condividere con l’universo musicale, sono perciò particolarmente lieto che la Galleria 2000 & NOVECENTO abbia pensato di offrire alla mia musica l’occasione di associarla all’arte sua, e di farlo concretamente, attraverso la sua naturale “consumazione”, l’esecuzione dal vivo. E, sottile omaggio al recupero della memoria come valore aggiunto all’opera, che segna negli anni la produzione di Griffa, si è pensato di accostare al mio Swallows - qui presentato per la prima volta nell’interezza dei suoi numeri per clarinetto (sei più il secondo bissato) uniti ai due per corno di bassetto - una presenza storica del clarinetto novecentesco con i Tre pezzi di Igor Stravinskij - non a caso -, gigante del secolo passato la cui poetica senza il concetto di memoria non potrebbe neppure esistere, giungendo “per li rami” fino alla matrice stessa della memoria musicale, attraverso una rilettura “timbrica” del timbricamente asessuato Adagio mozartiano per Glasharmonika, l’antica armonica a bicchieri. Ma Mozart aleggia negli accordi del Minuetto K 355, tradotti in “multifonici” per il corno di bassetto del brano finale di Swallows. Come a voler chiudere il cerchio, modernità e tradizione provano ancora una volta a ritrovarsi alimentandosi, gratificandosi reciprocamente, riaccendendo quel cortocircuito che nasce ogni volta dal contatto ri-creativo fra mistero e conoscenza. Come - mi auguro - piacerebbe a Giorgio: “… un passo più in là del far di conto, così come la pittura è un passo più in là del disegno di una mela”.
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Tre colori, 2000 9
From marks to music Luigi Abbate
Using the word music to outline the poetics of Giorgio Griffa can lead to many intermittences du Cœur: in other words, to emotional, intellectual, aesthetic, and cultural short-circuits. This is certainly not due to its justifiable if nauseating usefulness (the trite idiom Ut Pictura…), but it is, above all, due to what we might call the sensory characteristics of the work, quite apart from Giorgio’s genuine attraction to the art of sounds, to his recognition of music’s privileged position in, as he says, “following Orpheus’s path of knowledge of the unknown and the inexpressible”. To deal at length with these short-circuits would be a useless repetition of the critique to which this essay is simply a prelude. I will, then, try to pinpoint just some of the possible places where my experience as a musician intersects the career of the painter Giorgio Griffa. These are personal notes, aesthetic-anthropological conjectures about a far vaster relationship between art and music. Griffa’s painting dwells in the world of marks and comes up against - and not just tangentially the wholly musical problem of deciphering those marks. Noble marks but, above all in his early painting, purposely humbled, and without that romantic aura that works of art use to define themselves. Raw-boned marks, stripped of any kind of mnemonic frills, and thus unlike, in music, a Bagatelle by Webern or - in recent aphoristic works by Kurtág - memory-filled “arias sung in one breath”. They are more like certain radical experiments by Cage or Feldman or, if you will excuse my presumption, my own Apax for wind quintet dating from ’84-’85, the Greek title of which, when followed by the suffix legòmenon, means “never newly coined again, never repeated again”. Composed in the ’80s at a time when we were still unused to writing music with a computer, I notated it down almost maniacally by hand, perhaps also because the composition was the musical rereading of a strongly “marked” painting - almost a twist of fate. In this way the score could have its own graphic self-sufficiency. And so I discovered my fetish for a well-written page to be related to a more noble and precious fetish: the naked canvas on which the artist leaves his mark. A radical and extreme idea, just like the canvases by Giorgio some fifteen years earlier which, in the great self-reference of the vertical, horizontal, or diagonal marks, gave little or no satisfaction to perceptual succulence or the enjoyment of form and colour - just as I, at the beginning of my career as a composer, rejected repetition in music and thus the recognizability of the object (in musical terms: motif, theme, and harmony). Griffa was then to pass, as he himself has admitted, from his “Calvinist” period to a “Mediterranean” one. Just like me (Apax, was never again to be repeated). And, I believe, like many others. As in my own case and that of others, this passage meant for him a gradual recuperation of memory. In the meantime, however, the rite of deciphering or not the mark has by now loaded Griffa’s work with the esoteric value belonging to music: “The artist is entrusted with the knowledge of what cannot be known”. And, almost as though to twist the knife in the wound, he continues by making his own the Heisenberg uncertainty principle, 10
Gödel’s incompleteness theorems, and Pound’s poetic-existential dizziness. In his Treatise on Harmony, Pound explained with inspired clarity the problem of harmony’s non-verticality: each chord can be perceived only if it persists in time, even if only for a moment. Music identifies itself and establishes its hierarchies in time: in the past we spoke about tonality (certain people still comfortably compose in this way), but today we talk about polarization, harmonic fields… Experience helps to mature the need for a deeper research into the meaning of art work, and the relationship between “filling” the canvas and the completion of the pictorial gesture by way of marks has yet another musical correlation in the relationship between the executive gesture (the best… possible) and the search for Schumann’s innere Stimme, the interior voice that is written on the stave but may also not be executed. Griffa himself has spoken of his “… wish to pass from an imitation of nature using external lines to one using internal lines”. Not by chance then! The alternative of playing something or not (otherwise, ad libitum, optional ritornellos…), and, in general, all the variables linked to the interpretation of a musical work, bring to my mind another particular aspect of Giorgio Griffa’s poetics summarised once again in a recurrent observation in his writings, a statement of his passivity in the face of material: “To construct a work of art with the marks made by the hands of anybody”. An extremely human, intimate way of considering Deleuze’s deterritorialization which, I must admit, upsets my musical ego: a disturbing attraction to artistic anonymity, a subtle inclination towards the cupio dissolvi. I also share with Griffa the need to debunk the romantic idea that the artist/musician must necessarily feel himself the repository of truth (which is, when it comes down to it, nothing other than a specific form of sagacity) and that, instead, he should not claim to impose his truth on others: a decidedly secular attitude. Perhaps we can interpret in this sense too the lack of a need for a canvas support as a metaphor/metonym of such claims. But suddenly, and by contrast, a new theme appears on the horizon, almost as though to revive the paternal right, the authority, over the work: it is the artist’s work, his daily work, very like that of a composer or musical interpreter, something which is far more down-to-earth than non-experts like to believe. For example, by working with such materials as watercolours - “which bring me near to the Mediterranean tradition” - which permit the process of a marriage between them. And what is this marriage in music if not the so-called “impasto of colours” as it is defined in handbooks for scoring and orchestrating? Obviously this definition has been taken over virtually intact from the sphere of painting. And this marriage, in other words the absorption of one colour into another, comes about on the canvas on its own account. Griffa has said, “I watched, like a careful and involved spectator, an action that was not carried out by me”. This is rather like a composer who, when not playing himself, entrusts himself to his interpreter: so the composer is the listener/spectator of his own work. Yet again, the artist mysteriously lays down his weapons and trusts in the autogenesis of the work. During a recent conversation, Giorgio spoke to me about the “intelligence of material”: once again, an apt and true expression, applicable to many artists as well as being apt for composing music. I would also add: the generous capacity of material to accumulate information and vectorial potential… Generous because it is able to absorb and metabolise even dross - in other words tensions, suffering - and to translate re-creatively deconstructive/destructive urges. 11
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Quattro segni, 1979 13
A further fascinating aspect is the numerological one. And, inevitably, there is yet another allusion to music. For Griffa numbers are the same as the golden section. A combinatorial art par excellence, music makes use of numbers, the Fibonacci series, and the golden section both in its analysis of physical-acoustic assumptions and in compositional procedures. Numbers are structurally inherent in music-making. And here too we find allusions to an esoteric aspect: isn’t it perhaps the irrationality of numbers the measure of their fascination? Certainly, the mathematical expression denoting the golden section and the “numbers that never end” stimulate the artist’s and the musician’s thoughts and increase their ambitious aim of reaching the heart of numbers’ peculiar precision. On the other hand, this precision, which does not exist due to the irrational character of numbers, transforms this ambitious aim into a utopian plan with all the consequences that derive from it. (1.618033… I must confess, my dear Giorgio, that I myself “play about” with it when composing, using it though (!) only as a carpenter uses one of his many tools…). Not to mention the “Bartók case”. The musicologist Ernö Landvai analysed Bartók’s music by pinpointing the golden section as the way of understanding the formal organisation of his approach to composing (the proportions of the numbers of bars, the relationship between intervals etc.). And yet - and this is curious and significant - neither from his writings nor from any firsthand testimony does it result that Bartók ever hinted at the use of the golden section when composing. That’s the whole story. So, then, it is legitimate to deduce that, at least in Bartók’s case, the formal evidence, what we might call the musical phenomenology of the golden section - because Lendvai’s researches show this is what it is - persists as a legacy that, if not genetic, is at least cultural rather than anything planned or the result of some theory. “I don’t represent anything; I paint”. This statement brings Griffa near to Stravinsky’s Poétique Musicale (“Music by its very nature is not adapted to expressing anything…”). Once again we find the fertile ambiguity of relationships between marks as the vehicle, or otherwise, of sense. Being deeply convinced that Giorgio Griffa’s poetics and art making have much in common with the world of music, I am particularly pleased that the 2000 & NOVECENTO gallery has thought of associating my own music with his art, and to do so concretely with a live performance, its natural way of being “consumed”. And, as a subtle tribute to the recuperation of memory as an additional value in art, characteristic of Griffa’s years of production, I have decided to present my Swallows; it is here being heard for the first time in its final form of six pieces for clarinet plus two for basset horn, together with - and not by chance - the Three Pieces by Igor Stravinsky: a giant of the last century whose poetics could not exist without the concept of memory and which, along its ramifications, arrived at the very matrix of musical memory through the neutral timbres of Mozart’s Glasharmonica, the ancient Musical Glasses. And the chords of Mozart’s Minuet K 355 lie behind the “multi-phonic” treatment for basset horn in the finale of Swallows. As though to close the circle, modernity and tradition once again attempt to rediscover each other by reciprocally feeding and gratifying themselves, as well as by reactivating the short-circuit that comes about each time that there is a re-creative contact between mystery and knowledge. Just as, I hope, Giorgio would like: “…one step more than summing up, so painting is one step more than drawing an apple”. 14
Verticale tricolore, 1976 15
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Spugna, 1977 17
Sezione aurea, 2009 18
Giorgio Griffa, pittura liminare Marisa Vescovo
Credo sia veramente arduo accingersi a scrivere un testo dedicato al lavoro di Giorgio Griffa, mostra antologica alla Galleria 2000 & NOVECENTO, anche dopo aver letto, uno solo dei suoi libri: “Cani sciolti antichisti” (1980), in cui l’autore indica con grande lucidità le linee guida del suo operare. Visto che il coraggio deve stare nel cuore di ogni mestiere, mi affido all’emozione e alla fortuna. L’inizio della ricerca ormai quarantennale di Griffa si manifesta come un pensato ritorno all’analisi, agli strumenti specifici del fare pittorico, con un recupero di attenzione verso il supporto della pittura, la tela - dapprima sempre libera e volante - al colore - che liberato delle sue funzioni denotative acquista più autonomia - al gesto, determinante sia il campo che la funzione del margine. L’etichetta più usata per queste ricerche - che cominciano per Griffa alla fine del 1967 - è quella di “Nuova pittura”, “Pittura/Pittura”, “Pittura analitica”, “Pittura processuale”. Di fatto si trattava di ridurre al minino l’emotività mentale e fisica per identificare la nozione di spazio e di spazio-tempo, con la realtà stessa della tela grezza, o tarlatana. Si trattava di arte visiva in quanto azione, o esperienza della realtà del corpo, ovvero il braccio che traccia un segno sempre con le stesse caratteristiche morfologiche, ma sempre diverse a seconda dell’energia della mano, che percorre la superficie con il pennello intriso di colore, tracciando rette di lunghezza ogni volta diversa, organizzate in sequenze orizzontali o verticali, oppure a tratteggio. Questo lavoro è legato anche a doppio filo alla Conceptual Art, perché, come ha sottolineato Menna, ha una forte attenzione ai problemi del linguaggio e all’idea della pratica artistica come pratica specifica e autonoma anche in campo pittorico. Si nota pertanto il rifiuto di Griffa verso la forma necessariamente oggettuale dell’opera, una rivalutazione di quel “fare”, che era stato messo in secondo piano tanto dai pop artisti, quanto dai minimalisti. Tutto quanto detto sopra è riferibile al 1° ciclo di opere in mostra, quello dei “Segni primari”, in cui l’idea, o il concetto, eliminano così l’arbitrio, il casuale, il caotico, l’emotivo e il soggettivo, esaltando il controllo, la chiarezza, la sobrietà, anzi i segni con la loro studiata piattezza ed insignificanza tendono a concentrare l’intensità sul processo. Se guardiamo: Linee orizzontali (1969), Verticale tricolore (1976), Spugna (1977), ci accorgiamo che il segno policromo bidimensionale si sviluppa secondo una struttura concettuale che risulta lo zoccolo duro, obiettivo del lavoro. È qui evidente la volontà di Griffa di operare un tentativo sistematico di eliminare ogni componente empirica, per cui l’adozione di un metodo e di un ordine diventa fondamentale. 19
Dopo la metà degli anni Settanta Griffa sente il bisogno di “aprire il lavoro a suggestioni più vaste”, quindi incominciano a intersecarsi segni differenti, sempre comunque legati alle prassi precedenti, e a una straordinaria memoria della pittura del passato, intesa come bacino di illuminazioni e suggestioni. In questo 2° ciclo, legato a “Connessioni e contaminazioni”, le disposizioni e le combinazioni dei segni si mescolano e assumono “forme” e “dimensioni” sempre varianti, la cui presenza serve però a dimostrare il processo additivo tipico del lavoro di Griffa, mentre le possibilità combinatorie creano presenze ritmiche e moltiplicatorie sulle superfici, che non si traducono mai in oggetto. Tutto questo lo troviamo in: Quattro segni (1979), Per linee orizzontali (1982), Incastro viola (2008), Incrocio (2009) e in altri lavori, in cui l’amplificazione delle variazioni e la loro ricchezza segnica e cromatica, pur eliminando la ridondanza mentale e soggettiva, sottolineano quella visuale, tanto che le linee ormai si sentono libere di rompere lo schema della geometria classica e si dispongono liberamente secondo un loro istinto musicale. Altre opere come: Avanti e indietro dall’intervallo (2001), Angolare (2002), Polittico (2002), ci dicono che la pittura, oltre ad un mezzo per un’evoluzione spirituale, esige dallo spettatore una forza meditativa, un vero contributo creativo. In queste opere infatti i segni vengono inseriti in un sistema costruttivo e ripetitivo, che da un canto fa perno sul colore intenso ed evocante, e dall’altro trasforma il movimento ad onde della linea in un vibrante “continuum”, così da farci pensare a un percorso in moto verso l’infinito. La scrittura lineare o curvilinea, guidata da impulsi motori, prende il posto che nella pittura tradizionale avevano masse, volumi, materia. Ci sono inevitabili zone di transizione tra arti visive e arti verbali, specialmente quando ci si interroga su questioni quali il “desiderio” dell’immagine. Sembra che Griffa voglia, a partire dai resti di una pittura fecondata “mentalmente”, mostrare che le capacità espressive sono illimitate, e ogni gesto può diventare un pretesto pittorico, ed è quasi sempre in questo gesto che l’uomo-artista si descrive e si smaschera. La pittura s’istituisce così quale sequenza di gesti umani, pieni di candore manuale e artigianale, tesi al ricordo di una memoria delicata ed evocativa di una cultura che si veste sia di letteratura che della gioia del vedere, e una musicalità che nasce da una successione di fatti alogici, ma totalizzanti. I tratti di colore, seguendo il percorso della mano, non sono del tutto controllati, quindi accadono come eventi, e testimoniano l’associazione vitale tra artefatto e artefice. Ciò significa anche che l’impatto cromatico comporta una qualità dinamica, una fisionomia motoria del colore, e talvolta un colore, ancora prima di essere percepito può annunciarsi con l’esperienza di un certo atteggiamento del corpo. Già nel 1972 Giorgio Griffa aveva pensato come titolo di una sua mostra romana l’affermazione: “Io non rappresento nulla, io dipingo”, mentre qualche anno prima Rothko aveva detto: “Io non esprimo me stesso nella pittura. Esprimo il mio non-io”. La dichiarazione di Rothko è da mettere in rapporto al suo spirito astorico, atemporale, de-soggettivante, che appartiene alla dimensione originario-arcaica della vita, la quale sigla l’anonimità della percezione visiva. Per Griffa invece la “memoria millenaria della pittura ha trovato negli sviluppi del minimalismo alcuni percorsi in cui il suo immenso patrimonio (anche quello rappresentativo) continua a 20
vivere senza dover percorrere strutture obsolete”. Nella drammaturgia dello spazio-tempo di Griffa si afferma imperiosamente la capacità del suo gesto, in taluni casi “danzato”, che origina il “visibile”, un gesto che incarna l’ostensione e l’indicazione di qualcosa d’altro che sta oltre la semplice presenza. L’effetto quindi non è ormai freddamente e rigorosamente anonimo, ma estremamente sensibile. Ogni dipinto è perciò testimonianza di una diversa coscienza di esecuzione. Alla fine degli anni Settanta ha inizio il ciclo dei “Frammenti” (3° ciclo). Di questa ricerca scrive Griffa: “Le diverse tele sono tagliate in piccoli frammenti irregolari sui quali viene posata la pittura. I frammenti vengono esposti disseminati nello spazio. Sono le stesse tele non più suppor-
to neutro della pittura ma parti integranti di essa, a divenire immagini, figure, unitamente alla pittura che esse contengono”. Basta ricordare l’installazione Frammenti del 1979-80 per capire che queste piccole tele, su cui si muovono pochi segni, di forme diverse, poste a parete, non offrano alcuna certezza di sé, non hanno basi, o punti di appoggio, poiché il loro taglio irregolare le modella bidimensionalmente, le libera da ogni posizione vettoriale e direzionale definita. Esse potrebbero adattarsi, come corpi viventi, a tutte le condizioni, poiché per esse non sussiste nessun problema compositivo. Con questi lavori Griffa infrange la rigidità dispositiva di tutta la sua pittura bidimensionale e le oppone una multidirezionalità ed ubiquità che li rende vitali e liberi. Negando un’unica realtà alle tele Griffa ne afferma l’esistenza autogenerati21
va. L’artista pur essendo consapevole di tutto questo, è anche consapevole che l’atto generativo, per quanto non possa sorgere che da quella rete di rimandi, debiti e citazioni, che fanno la storia dell’arte, esige, nello stesso tempo, una rottura, un movimento di scarto rispetto al passato: il problema non è di rifiutare il passato, ma se lo si ama troppo, uno stile pittorico veramente personale può sfuggire di mano. Naturalmente se si vuole dipingere si deve vedere “tutto”, anche il passato. “Negli anni ’80 è stata introdotta nel lavoro - dice Griffa - una memoria più specifica della pittura, la antica questione della convivenza del segno che disegna e del colore che colora, segno e campo”. Questo 4° ciclo, “Segno e campo”, ci introduce nel dibattito di sempre sul primato tra segno e colore. In quadri quali: Campo rosso (1984), Campo giallo campo verde (1986), Arabesco rosso (1997), Policromo (2003), Ricurvo (2008), osserviamo che l’aura brilla intorno ad un segno cromatico lanciato su uno sfondo “infinito”. Esso pare acquistare una vibrante corporeità, che non ce lo rivela più come frammento di linguaggio, ma anche, contraddittoriamente, come frammento di un alfabeto misterioso emanante fasci di energia mentale. Questo segnocolore, oscillando tra la propria leggerezza e il proprio impulso di velocità, va incontro all’Altrove. La mente è per Griffa un luogo sacro, uno spazio entro cui far agire, come in un teatro, pensieri composti da parole rotte in frammenti e da sentieri cromatici, un luogo dove svolgere la recita astratto-segnico-cromatica di un mondo, in cui avviene la messa a fuoco della propria poetica, tenendo presente che l’atto del guardare è anche un atto di lettura. Potremmo parlare di “una partitura d’ideogrammi senza peso come insetti acquatici” (Italo Calvino). Ma gli insetti sono anche segni grafici, scrittura su un foglio, oppure note di un flauto nel silenzio, senza i quali ci sarebbe solo il vuoto-pieno del mondo, che può essere dissolto solo da ciò che è leggero, rapido e sottile. Come nella pittura orientale, o orientalista, non c’è opposizione in questo lavoro tra segno e colore, essendo essi centrati felicemente sulla loro sovrapposizione. La percezione del colore ha giocato un ruolo fondamentale nella manifestazione delle idee alchemiche, che a loro volta hanno fatto del colore un linguaggio di movimento, emergente come musica del colore nel XX secolo. Il colore di Griffa ha una solidità assoluta costruita con la più fluttuante instabilità materica, che sembra ottenuta con la polvere di una frantumazione cosmico-alchemica, un colore venuto dallo spazio, quindi staminale, portante con sé il sapore di un colore sconosciuto. Sulle tele di Griffa troviamo le cromie dell’inizio e della fine di un giorno. Il colore inteso come strumento dell’“altrove”, o come strumento d’intimizzazione del clima interno alla tela e alla sensibilità dell’autore, inquadrato in una catena sintattica di segni che risuonano sullo sfondo di una cornice di riferimento. I colori scelti non sono né opachi né riverberanti, mantengono un irraggiamento latente, suggeriscono un peso, ma rimangono teneri come certi cieli di Carpaccio o di Lotto. Non si tratta mai del nitore industriale e freddo della tradizione minimalista, quanto di una forza basata sul controllo del dettaglio, ma tesa verso un silenzio legato alla storia e all’intensità dei colori antichi. Se osserviamo varie tele dal titolo Tre linee con arabesco del 1991 (appartenenti al 5°ciclo) ci accorgiamo che le varie sequenze di segni si adeguano alla sequenza dei lavori dandosi una 24
regola unificante: tre linee accompagnate da un arabesco. E l’arabesco, come dice il nome, è legato all’arte arabo-islamica, talvolta cinese, e rappresenta un superamento della rappresentazione. Infatti non è una raffigurazione ma un ritmo, anche sonoro, operato per ripetizione infinita di un tema, una salmodia. L’arabesco permette di sfuggire al condizionamento temporale diventando anche un supporto di contemplazione, non avendo né principio né fine, anzi è instancabilmente diretto verso l’illimitato. Questo tipo di ornato dunque è essenzialmente una specie di negazione delle forme geometriche chiuse. Schlegel è andato più avanti ipotizzando che l’arabesco fosse addirittura una forma originaria della fantasia umana. La manifestazione del caos da cui si originano le forme in quella che possiamo definire: creazione dal nulla. “Nella seconda metà degli anni ’90 nasce il ciclo delle numerazioni, che mira a dare una informazione sul modo in cui si è realizzato il divenire di quell’opera. I numeri indicano l’ordine in cui i vari segni o colori sono stati depositati su quella tela” (G. Griffa). Quadri come: Otto colori (2002), Sei colori (2006), Cinque colori (2008), non indicano soltanto un modo di procedere dell’arista nell’orchestrare i colori e i segni - ci riferiamo al 6° ciclo - ma ci ricordano che da sempre ai numeri è stato attribuito un significato, che va ben al di là del calcolo matematico. Dalla mistica numerica dell’antichità alle moderne forme di superstizione, ogni cultura, l’alta e la bassa, l’orientale e l’occidentale, ha dato alle cifre un valore di simbolo: religioso, filosofico, cosmologico, predittivo. Molto intrigante è anche il 7° ciclo: “Alter ego”, in cui l’artista lascia sfogo alla propria memoria storica, una memoria che ridona alle cose la loro consistenza e può far crescere una più grande attenzione alle differenze, e ai dati biografici rimossi. Lo sguardo al passato e alla sua iconografia stratificata, diventa una felice ricetta per procedere alla ricerca di temi, metafore, racconti a cui attingere. La Storia dell’Arte, come dice Baudrillard, diventa il nostro “referente perduto”, vale a dire il nostro mito, e come tale prende il suo posto sulla tela. Ma affinché il passato, la memoria, si riapproprino del loro spessore, è anche necessario ritrovare una distanza da essi, sentire la difficoltà di comprenderli, coglierne la frammentarietà, sapere che quei frammenti talora non si legano tra loro, se non dopo sforzi d’interpretazione e di verifica. Oggi un artista come Griffa attinge col massimo della libertà al suo serbatoio memorizzato del Museo e della Storia dell’Arte. Nei meandri molli della memoria l’autore non cerca modelli di valore da dissacrare, bensì dei “modelli di confronto” da verificare, simboli capaci di rappresentare le origini dell’esistere e dell’agire. Nel nostro caso basta guardare opere quali: Paolo e Piero (Paolo Uccello e Piero Dorazio - 1982), Matisseria n. 1 (1982), Tre linee con arabesco n. 319 (Matisse - 1992), Luxe calme et voluptè (Matisse - 1999), Fibonacci (Mario Merz - 2006), Caro Piero (Piero della Francesca - 2008), per capire che il prelievo di idee-icona è puramente mentale, o esistenziale, ed avviene per amore, o per riconoscimento, di dati da trasformare e restituire attraverso segni, o cromatismi, che non concedono spazio all’“appropriazione” o alla citazione. I lavori si colorano dunque di un “desiderio” iconografico, che nasce da un’attività preparata a dominare l’irrazionale e l’intuitivo, mentre una severa autocritica eleva a gusto estetico la riflessione e la scelta. Ciò che salta subito agli occhi è la passione di Griffa per i colori magici di Matisse, che al Cubismo contrappone l’intuizione sintetica del tutto, la massima comples25
sità espressa con la massima semplicità. È la sintesi delle arti-musica e poesia confluiscono nella pittura e la pittura è sintesi di rappresentazione e decorazione, di linea e colore, tutto si muove nella dimensione ultrasensibile, ma non trascendente, degli ultra-colori. Il gruppo di opere della “Sezione aurea” (8° ciclo) che completa, ma non chiude, questo cerchio creativo, è quello nato negli anni 2000, che ragiona sull’aspetto matematico della “sezione aurea”, ancora una volta i numeri, studiata dai Pitagorici, che chiamarono anche pentagramma, considerandola anche simbolo dell’armonia, da cui nasce il numero d’Oro, elemento proporzionale analogico tra figura umana e la natura soggettiva. Nell’arte il concetto di armonia e delle sue leggi numeriche hanno governato fin dalle civiltà arcaiche, sia attraverso la Sezione aurea sia attraverso i processi di crescita di tipo spiralico, conosciuti come serie di Fibonacci, ovvero una serie numerica che non finisce mai, quindi proiettata verso l’infinito. Si propone in questo modo una diversa visibilità del mondo, dopo che per secoli l’uomo si è interrogato sul valore dell’immagine in rapporto al suo referente oggettuale. L’attraversamento del moderno ci porta davvero ad oltrepassate i suoi limiti, anche se questi limiti non sono esterni, ma una frontiera interna, un pensiero liminare, proprio perché si pone nel punto in cui visibile e invisibile si toccano, luogo e non luogo sono tangenti. Il lavoro sulla Sezione aurea ci ricorda anche che se la musica è la forma più svincolata dall’esperienza empirica e dalla quotidianità, e più slegata da qualsiasi rapporto diretto con il “rappresentato” del linguaggio, si può affermare che esiste un’analogia tra il lavoro di Griffa e la musica. I suoi lavori sono in fondo “partiture” visuali su segni bidimensionali, esercizi “inconsci e intuitivi” di calcolo, in cui l’esecuzione non è che la traduzione segnica di processi concettuali. In questo senso i lavori di Griffa sono “spartiti” visuali, che si basano su relazioni mute tra concetti e processi. Ogni volta che cerchiamo di porgere orecchio a questi suoni essi si spengono, per riprendere con vigore su un’altra tela. Tutti i cicli del nostro artista hanno un inizio e non una fine, sono progressioni di poetica in divenire. In questo senso il “racconto di viaggio” di Griffa, in quanto sintesi di momenti eterogenei, ma coerenti, si pone come una complessa rifigurazione dell’esperienza, in cui vengono resi prossimi eventi lontani e, come nell’andirivieni sinuoso di un fiume, le cose si intrecciano, spariscono, ritornano, proponendo così i tratti di un’esperienza temporale diversa da quella chiusa all’interno del pensiero filosofico sul tempo, perché il tempo diventa significativo nella misura in cui disegna in modo narrativo i tratti dell’esperienza temporale.
Arabesco rosso, 1997 26
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Giorgio Griffa’s Boundary Painting Marisa Vescovo
The work of Giorgio Griffa, to be seen in the 2000 & NOVECENTO gallery, is very difficult to write about, even after having read just one of his books, “Cani sciolti antichisti” (1980), in which he carefully sets out the outlines of his working process. But seeing that courage is the basic requirement of any activity, I will trust to my feelings and luck. The beginning of Griffa’s by now forty-years-long activity was a thoughtful return to analysis, to the specific tools for painting, with a renewed attention given to the picture’s support (the canvas, at first hanging freely and un-stretched), to colour (liberated from its denotative aspect became more autonomous), and to gesture, which determined both the field and the function of the boundary. These were Griffa’s interests from the end of 1967, and they have been labelled variously “New Painting”, “Painting/Painting”, “Analytical Painting”, and “Process Painting”. It was, in fact, a question of reducing mental and physical emotionalism to a minimum in order to pinpoint the notion of space and space-time through the physical fact of untreated canvas or hessian. It was a question of visual art as action or the experience of the reality of the body; or, in other words, the arm as it traces out a mark with the same morphological characteristics, though always differing according to the energy of the hand. The hand passed over the surface with a full brush and traced out straight lines of different lengths and arranged horizontally, vertically, or else hatched. This work is closely connected to that of Conceptual Art, as Menna has underlined, and is strongly influenced by the language and ideas of a specific and autonomous art practice, even in the field of painting. We thus notice Griffa’s rejection of the necessity for an object-like form for the work, and a re-evaluation of “making”, something which had been put to one side by both Pop artists and Minimalists. All the above refers to the first series of works on show, the “Segni primari”, in which the idea or concept, by eliminating arbitrariness, chance, chaos, emotions, and subjectivity, exalts control, clarity, and sobriety; in fact, the carefully flattened and insignificant marks tend to highlight the process itself. If we examine Linee orizzontali (1969), Verticale tricolore (1976) and Spugna (1977), we become aware that the two-dimensional polychrome mark develops according to a conceptual structure which is the work’s intransigent aim. And here we can clearly see Griffa’s wish to undertake a systematic attempt to eliminate any kind of empirical component, one for which the choice of method and order becomes fundamental. Towards the end of the ‘seventies, Griffa felt the need to “open up the work to wider implications”, as a result of which different marks began to intersect, but they were always linked both to his earlier practice as well as to his extraordinary memory for past painting which he considered a source of enlightenment and suggestion. In this second series, which was concerned with “Connessioni e contaminazioni”; the layout and combinations of the marks mix and take on varied “forms” and “dimensions”, the presence of which, however, demonstrates 28
Griffa’s typical additive process, while the combinatory possibilities create rhythmic and multiplying presences on the surface which never become objects. We find all this in Quattro segni (1979), Per linee orizzontali (1982), Incastro viola (2008) and Incrocio (2009), as well as in other works where the amplification of the variations and their abundance of marks and colour, even though eliminating mental and subjective redundancy, underline visual richness, so much so that the lines are now free to break down the boundaries of classical geometry and to compose themselves freely and follow their musical instinct. Such other works as Avanti e indietro dall’intervallo (2001), Angolare (2002), and Polittico (2002), make us aware that painting, besides being a means for spiritual evolution, also demands a mental effort: a genuine creative contribution on the part of the viewer. In these works, in fact, the marks are part of a constructive and repetitive system which, on the one hand, is based on intense and evocative colour, and, on the other, transforms the wave-like movement of the lines into a vibrating continuum bringing to mind a movement towards the infinite. The linear or curvilinear “writing”, guided by motor impulses, takes the place of what, in traditional painting, had mass, volume, and material. There are inevitable transition areas between the visual and verbal arts, especially when one asks oneself about such things as the image’s “aim”. It seems that Griffa, by starting from the remains of “mentally” fertilised painting, wants to show that expressive capacities are limitless, that every gesture can become a pretext for painting, and that it is almost always with this gesture that the man/artist describes and reveals himself. Painting can thus be established as the sequence of human gestures, full of manual and handcrafted naturalness, aimed at summoning up delicate and evocative memories of culture in the guise of both literature and of joie de vivre, as well as a musicality deriving from a succession of a-logical yet all-inclusive facts. The marks of colour following the action of the hand are not completely controlled, and they thus come about as events and testify to the vital association between artefact and artifice. This also means that the impact of the colour has a dynamic quality, a motory chromatic physiognomy, and that at times a colour, even before being perceived, can be heralded by the experience of a certain behaviour of the body. Already in 1972 Giorgio Griffa had considered using as the title a show of his work in Rome the statement: “I don’t represent anything; I paint”; some years earlier Rothko had said, “I don’t express myself in painting. I express my not-self”. Rothko’s statement is to be related to his a-historic, a-temporal, and non-subjective spirit which was part of an originary-archaic dimension of life, the sign of the anonymity of visual perception. For Griffa, instead, the “millennial memory of painting has found, in the development of Minimalism, various possibilities for allowing its immense patrimony (including that of representation) to continue to live without having to rely on obsolete structures”. In Griffa’s space-time dramaturgy, the capacity of his gesture imperiously asserts itself; in some cases it “dances” and gives rise to the “visible”; it is a gesture that embodies the revelation and indication of something else that stands beyond simple presence. So the effect is not coldly and rigorously anonymous, but extremely sensitive. Each painting is, therefore, a testimonial to a different knowledge of its execution. 29
At the end of the ‘70s he began his third series of “Frammenti”. Griffa was to write about it, “The various canvases are cut up into tiny irregular fragments onto which the paint is applied. The fragments are then disseminated in the exhibition space. These selfsame canvases, no longer the neutral support for the painting but an integral part of it, become images and figures together with the paint that they contain”. It is enough to recall the installation Frammenti, 1979-80, to understand that these small canvases, covered with a just a few variously shaped marks and placed on the wall, do not offer any inherent certainty; they have no bases or points of support because their irregular outline shapes them two-dimensionally and frees them from any definite vectorial or directional position. Just like living bodies, they can adapt themselves to all conditions because they have no compositional problems. With these works Griffa shatters the systematic rigidity of his two-dimensional painting and opposes to it a multi-directionality and ubiquity that makes them become vital and free. By denying the canvases a single reality, Griffa affirms their self-generative existence. While being aware of all this, the artist is also aware that the generative act - even while only being able to derive from a network of allusions, debts, and quotations - needs, at the same time, a breach with, and a deviation from, the past. The question is not one of a rejection of the past: but if you love it too much then a really personal style of painting might slip from your grasp. Of course, if you want to paint you must see “everything” - even the past. Griffa has said, “In the ‘80s I introduced a more specific memory of painting into the work, the old problem of the cohabitation of marks which draw, and paint which colours: marks and field”. This 4th series, “Segno e campo”, leads us to the question of the primacy of mark or colour. In such paintings as Campo rosso (1984), Campo giallo campo verde (1986), Arabesco rosso (1997), Policromo (2003) and Ricurvo (2008), we can see an aura shining around a coloured mark on an “infinite” background. It seems to acquire a vibrant corporality and no longer shows itself just as a fragment of language but also, and contradictorily, as a fragment of a mysterious language that emanates flashes of mental energy. This colour-mark, oscillating between its own lightness and its attraction to speed, meets up with the “elsewhere”. For Griffa the mind is a sacred space in which to activate, as in a theatre, thoughts made up of fragmented words and chromatic paths; a place where there is acted out the abstract-colour-mark play of a world where its poetics are brought into focus, because the act of looking is also an act of reading. We might speak of “a score of ideograms as weightless as aquatic insects” (Italo Calvino). But the insects are also graphic marks, the writing on a piece of paper, or the notes of a flute playing in silence, and without which there would only be the void-fullness of a world which can only be dissolved by what is light, speedy, and slender. As in Oriental or Orientalist painting, there is no opposition between mark and colour in these works because they are successfully based on their superimposition. The perception of colour had a fundamental role in the manifestation of alchemical ideas which, in turn, have made colour a language of movement which was to emerge as the music of colour in the 20th century. Griffa’s colour has an absolute solidity constructed from the most fluctuating material instability which seems to be obtained from the dust of some cosmicalchemical atomisation; a colour from space and, therefore, a stem cell importing the taste of an unknown colour. On Griffa’s canvases we find the colours of the beginning and end of a day. 32
Colour is considered as a means for arriving “elsewhere” or for hinting at the climate within the canvas or at the sensitivity of the artist; it is organised by a syntactic chain of marks that resonate against their frame of reference. The colours selected are neither opaque nor brilliant; they retain their latent radiance and suggest weight, but they remain as tender as certain skies by Carpaccio or Lotto. It is never a question of the chill industrial clarity of Minimalist tradition but, rather, a strength based on a control of details aimed at a silence linked to the history and intensity of ancient colours. If we look at the various canvases called Tre linee con arabesco, 1991, part of the 5th series, we become aware that the various sequences of marks adapt to the series of works by imposing on themselves a unifying rule: three lines accompanied by an arabesque. And the arabesque, as its name implies, is linked to Arabic-Islamic, and at times Chinese, art; it represents the surmounting of representation. In fact it is not a representation but a rhythm, even an acoustic one, that acts through the infinite repetition of a theme: a psalmody. Arabesques permit an escape from the conditioning of time by also becoming a support for contemplation because they have neither beginning nor end: in fact they tirelessly quest for limitlessness. So this type of ornamentation is essentially a kind of negation of geometric closed forms. Schlegel went even further when he suggested that arabesques were even an originary form of human fantasy. The manifestation of the chaos from which forms originate into what we might call creation from nothing. “In the second half of the ‘90s I began the series with numbers which aims at imparting information about the way in which the development of the work was realised. The numbers indicate the order in which the various marks and colours were applied to the canvas”. (Giorgio Griffa). Such paintings as Otto colori (2002), Sei colori (2006) and Cinque colori (2008), do not simply indicate the artist’s way of orchestrating colours and marks - I am now referring to the 6th series - but they remind us that a meaning has been given to the numbers, one that goes far beyond mathematical calculation. From the mystic numbers of antiquity to modern forms of superstition, each culture, from the highest to the lowest, Eastern and Western, has conferred a symbolic value on numbers: religious, philosophical, cosmological, and predictive. The 7th series, “Alter Ego”, is extremely fascinating. Here the artist gives free rein to his historical memory, a memory that reinvests things with their full import and that can increase attention to differences, to hidden biographical data. His look at the past, and his stratified iconography becomes the just recipe for a search for themes, metaphors, and tales to be dipped into. As Baudrillard says, Art History becomes our “lost reference point”, in other words our myths, and, as such, it takes its place on the canvas. But, as long as the past and memory re-appropriate its meaning and accept its fragmentariness, then it is also necessary to distance ourselves from it and realise the difficulty of understanding it and its fragmentation which, at times, does not reconnect its pieces unless through interpretation and testing. Today, an artist like Griffa draws freely on the storehouse of museums and art history. The artist does not search in the labyrinths of memory in order to debunk values but, rather, for “a comparative model” to be verified, symbols that might represent the origins of existence and action. In our case it is sufficient to look at such works as Paolo e Piero (Paolo Uccello e Piero Dorazio - 1982), Matisseria n. 1 (1982), Tre linee con arabesco n. 319 (Matisse - 1992), Luxe calme et voluptè (Matisse - 1999), Fibonacci (Ma33
rio Merz - 2006), and Caro Piero (Piero della Francesca - 2008) in order to understand that this extraction of ideas-icons is purely mental or existential and is the result of his love for, or recognition of, data; these can then be transformed and restored to us through marks of colour without any hint of “appropriation” or quotation. So the works are tinged with an iconographic “desire” resulting from an activity aimed at dominating what is irrational and intuitive, while severe self-criticism elevates such thoughts and choices to the plane of aesthetic taste. What is immediately evident is Griffa’s passion for the magical colours of Matisse, someone who countered Cubism with an all-embracing idea of the whole and the greatest expressive complexity together with the greatest simplicity. It is a synthesis of the arts - music and poetry come together, and the painting is a synthesis of representation and decoration, lines and colours: everything acts within the ultra-sensitive, though non-transcendental, dimension of the heightened colours. The group of works comprising the 8th “Sezione aurea” series rounds off, without exhausting, this creative period, a period begun in 2000 and that is concerned with the mathematical aspect of the “golden section”. Once again there are numbers, those studied by the Pythagoreans, also known as the pentagram, and which were also considered a symbol of harmony and from which is obtained the golden number, the analogical proportional element between the human figure and the subject of nature. In art the concept of harmony and its numerical laws have ruled since archaic times, whether through the golden section or spiral growth processes; they are known as the Fibonacci series or, in other words, a series of numbers that is endless and thus projected towards infinity. In this way a different vision of the world is suggested, after man had, for centuries, been questioning the value of images in relation to their object referent. The development of modernism has led us to go beyond its limits, even though these limits are not external but an internal frontier, an idea of a boundary, because it comes about at the point in which the visible and the invisible touch and where place and non-place are tangential. This work about the golden section reminds us that also that if music is the most free form of empirical and everyday experience, the one most unbound by any kind of direct relationship with what language “represents”, then it can be affirmed that there exists an analogy between Griffa’s work and music. Deep down his works are visual “scores” of two-dimensional marks, “unconscious and intuitive” exercises in calculation where the execution is nothing other than the translation into marks of conceptual processes. In this sense the work of Griffa are visual “scores” based on silent relationships between concepts and processes. Each time we try to lend our ears to these sounds they die away only to spark into life once again on another canvas. All the series by Griffa have a beginning but not an end: they are constantly developing poetic progressions. In this sense Griffa’s “travel book”, because it is a synthesis of varied yet coherent moments, posits itself as a complex regrouping of experience in which distant events are brought together and, as with the sinuous winding of a river, things interlace, disappear, come back again, and thus suggest the outlines of a temporal experience, but one which is different to the one enclosed within philosophical ideas about time, as time becomes meaningful because it draws the traits of temporal experience in a narrative manner. 34
Sezione aurea, 2009 35
Tre linee con arabesco n. 787, 1993 36
Campo violetto, 1984 37
Campo rosso, 1984 38
Tre colori, 1998 39
Rosso su rosso, 1987 41
Tre linee con arabesco n. 877, 1993 43
Policromo, 1980 44
46
Sezione aurea, 2009 47
48
Campo giallo campo verde, 1986 49
Sei colori, 2006
Dal giallo in poi, 1982 /1984 52
Tre linee con arabesco n. 279, 1992 53
Otto colori, 2002 54
56
Linee orizzontali, 1969 57
Sei colori, 2000 58
Campo rosa, 1984 59
Per linee orizzontali, 1982 60
Ricurvo, 2008 61
Incrocio, 2009 64
Sezione aurea, 2009 65
Incastro viola, 2008 67
Fuga in rosso, 2008 68
Cinque colori, 2008 69
Apparati | Appendix
Esposizioni recenti | Recent shows MOSTRE PERSONALI | SOLO EXHIBITIONS 2001 Galerie Walter Storms. Munchen CESAC, ex Convento dei Capuccini, Caraglio (CN) Galleria Giampiero Biasutti, Torino GAM Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, Torino 2002 Galleria Plurima, Udine (con Claude Viallat) Bethmann Bank, Frankfurt A.M. Galleria Palladio, Udine 2003 Studio Guastalla, Milano 2004 Sebastian Fath Contemporary, Mannheim 2000 & NOVECENTO Galleria d’Arte, Reggio Emilia 2005 Neuer Kunstverein, Aschaffenburg Museo della Permanente, Milano Institut Matildenhoe, Darmstadt Galleria Giampiero Biasutti, Torino 2006 Barbara Behan Contemporary Art, London (con Marco Gastini e Paolo Icaro) Galleria Fumagalli, Bergamo 2007 Fondazione Zappettini, Milano (con Pinelli) Galerie Philippe Pannetier, Nimes 2008 Galleria Fumagalli, Fiera di Basilea 2009 Galleria Artesilva, Seregno (MI) Galleria Giuseppe Marino, Roma Lorenzelli Arte, Milano Globart Gallery, Acqui Terme 2000 & NOVECENTO Galleria d’Arte, Reggio Emilia
MOSTRE COLLETTIVE | GROUP EXHIBITIONS 2001 Mosaico, Stazione Ponte Mammolo della metropolitana, Roma (installazione permanente) Figure astratte, Palazzo Rospigliosi, Roma 2002 IX Biennale Paraxo, Andora (SV) Il tempo della profezia, Chiostro di S. Domenico, Casale Monferrato
6 artisti contemporanei dal Piemonte, Museu Nuevo, Castellón de la Plana, Valencia Torino 1902/2002, Manifatture Aristocratiche, Palazzo Cavour, Torino 2003 La grande svolta anni ’60, Palazzo della Ragione, Padova Le figure mancanti, Palazzo Bricherasio, Torino Incontri… dalla collezione di Graziella Lonardi Buontempo, Académie de France, Villa Medici, Roma Pittura Analitica, Museo Angelo Bozzola, Galliate (NO) 2004 L’incanto della pittura, Casa del Mantenga, Mantova Il disegno nell’arte italiana dal 1945 al 1975, Fondazione Bandera, Busto Arsizio (VA) Pittura 70, Fondazione Zappettini, Chiavari (GE) AAVV 30, Galleria Fumagalli, Bergamo 2005 Visioni. 20 artisti a Sant’Agostino, Complesso di Sant’Agostino, Bergamo Il ritorno inesistente, Imbiancheria del Vairo, Chieri (TO) Je ne regrette rien, Studio la Città, Verona Un secolo di arte italiana. Opere della Fondazione VAF, MART, Rovereto Artisti di pigotte, Comitato UNICEF, Reggio Emilia 2006 Pittura 70. Then and now, Italian Cultural Institute, Londra La via del sale, Castello di Millesimo, Savona MuseoMuseoMuseo, GAM, Palazzo Torino Esposizioni, Torino 2007 Vier5 Family & Friends, Centre d’Art Contemporain, Brétigny Global books. Les Livres d’Artistes de Gervais Jassaud, Bibliothèque Carnegie, Reims Pittura Analitica. I precorsi italiani 1970/1980, Museo della Permanente, Milano Il velo, Il Filatoio, Caraglio (CN) 2008 Documenti di pittura, Galleria del Milione, Milano Pittura aniconica, Casa del Mantegna, Mantova Venti per venti, Galleria Globart, Acqui Terme TIME & PLACE Torino-Milano 1958-1968, Moderna Museet, Stoccolma Viaggio in Italia, Italienische Kunst 1960 bis 1990, Neue Galerie am Landesmuseum, Graz 2009 HOT SPOTS, Rio de Janeiro/Milano-Torino/Los Angeles 1956 bis 1969, Kunsthaus, Zurich Temi & Variazioni. Dalla grafia all’azzeramento, Peggy Guggenheim Collection, Venezia Pensare pittura. Una linea internazionale di ricerca negli anni ’70, Museo Villa Croce, Genova
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pagina 4 (particolare di pag. 15) Foto: Fabio Fantini, Reggio Emilia
pagine 6-7 (particolare) Luigi Abbate da Swallows n. 2/2 bis Composizione per clarinetto A work for clarinet
pagina 9 Tre colori, 2000 Acrilico su tela, cm. 86x78 Acrylic on canvas Foto: Fabio Fantini, Reggio Emilia
pagine 12-13 Quattro segni, 1979 Acrilico su tela, cm. 59x105 Acrylic on canvas
pagina 15 Verticale tricolore, 1976 Acrilico su tela, cm. 57x71 Acrylic on canvas
pagine 16-17 Spugna, 1977 Acrilico su tela, cm. 180x320 Acrylic on canvas
Foto: Fabio Fantini, Reggio Emilia
Foto: Fabio Fantini, Reggio Emilia
Foto: Fabio Fantini, Reggio Emilia
pagina 18 Sezione aurea, 2009 Acrilico su tela, cm. 88x96 Acrylic on canvas
pagina 21 Quattro frammenti, 1980 Acrilico su tela, su piano, cm. 60x75 Acrylic on canvas, on a panel
Foto: Fabio Fantini, Reggio Emilia
Foto: Fabio Fantini, Reggio Emilia
pagine 22-23 Policromo verticale, 1968 Acrilico su tela, cm. 240x360 Acrylic on canvas Dall’alto, 1972 Acrilico su tela, cm. 150x183 Acrylic on canvas Foto: Fabio Fantini, Reggio Emilia
74
pagina 27 Arabesco rosso, 1997 Acrilico su tela, cm. 86x42 Acrylic on canvas
pagine 30-31 (particolare di pag. 64) Foto: Fabio Fantini, Reggio Emilia
Foto: Fabio Fantini, Reggio Emilia
pagina 35 Sezione aurea, 2009 Acrilico su tela, cm. 40x47 Acrylic on canvas Foto: Fabio Fantini, Reggio Emilia
pagina 36 Tre linee con arabesco n. 787, 1993 Acrilico su tela, cm. 98x78 Acrylic on canvas
pagina 37 Campo violetto, 1984 Acrilico su tela, cm. 43x46 Acrylic on canvas
pagina 38 Campo rosso, 1984 Acrilico su tela, cm. 72x81 Acrylic on canvas
Foto: Fabio Fantini, Reggio Emilia
Foto: Fabio Fantini, Reggio Emilia
Foto: Fabio Fantini, Reggio Emilia
pagina 39 Tre colori, 1998 Acrilico su tela, cm. 70x71 Acrylic on canvas
pagina 40 (particolare di pag. 41)
pagina 41 Rosso su rosso, 1987 Acrilico su tela, cm. 70x95 Acrylic on canvas
Foto: Fabio Fantini, Reggio Emilia
Foto: Fabio Fantini, Reggio Emilia
Foto: Fabio Fantini, Reggio Emilia
75
pagina 43 Tre linee con arabesco n. 877, 1993 Acrilico su tela, cm. 96x96 Acrylic on canvas
pagina 44 Policromo, 1980 Acrilico su tela, cm. 150x145 Acrylic on canvas
pagina 45 Allestimento/Installation 2000 & NOVECENTO Galleria d’Arte Reggio Emilia, 2009
Foto: Fabio Fantini, Reggio Emilia
Foto: Fabio Fantini, Reggio Emilia
Foto: Fabio Fantini, Reggio Emilia
pagine 46-47 Sezione aurea, 2009 Acrilico su tela, cm. 55x112 Acrylic on canvas
pagine 48-49 Campo giallo campo verde, 1986 Acrilico su tela, cm. 51x105 Acrylic on canvas
pagina 50 (particolare di pag. 51)
Foto: Fabio Fantini, Reggio Emilia
Foto: Fabio Fantini, Reggio Emilia
pagina 51 Sei colori, 2006 Acrilico su tela, cm. 95x89 Acrylic on canvas
pagina 52 Dal giallo in poi, 1982/1984 Acrilico su tela, cm. 70x48 Acrylic on canvas
pagina 53 Tre linee con arabesco n. 279, 1992 Acrilico su tela, cm. 116x101 Acrylic on canvas
Foto: Fabio Fantini, Reggio Emilia
Foto: Fabio Fantini, Reggio Emilia
Foto: Fabio Fantini, Reggio Emilia
76
Foto: Fabio Fantini, Reggio Emilia
pagina 54 Otto colori, 2002 Acrilico su tela, cm. 180x150 Acrylic on canvas
pagina 55 Allestimento/Installation 2000 & NOVECENTO Galleria d’Arte Reggio Emilia, 2009
pagine 56-57 Linee orizzontali, 1969 Acrilico su tela, cm. 27x45 Acrylic on canvas
Foto: Fabio Fantini, Reggio Emilia
Foto: Fabio Fantini, Reggio Emilia
Foto: Fabio Fantini, Reggio Emilia
pagina 58 Sei colori, 2000 Acrilico su tela, cm. 70x80 Acrylic on canvas
pagina 59 Campo rosa, 1984 Acrilico su tela, cm. 86x96 Acrylic on canvas
pagina 60 Per linee orizzontali, 1982 Acrilico su tela, cm. 64x91 Acrylic on canvas
Foto: Daniele Prandi, Reggio Emilia
Foto: Daniele Prandi, Reggio Emilia
Foto: Fabio Fantini, Reggio Emilia
pagina 61 Ricurvo, 2008 Acrilico su tela, cm. 74x111 Acrylic on canvas
pagine 62-63 Policromo, 2003 Acrilico su tela, cm. 120x190 Acrylic on canvas
pagina 64 Incrocio, 2009 Acrilico su tela, cm. 70x94 Acrylic on canvas
Foto: Fabio Fantini, Reggio Emilia
Foto: Fabio Fantini, Reggio Emilia
Foto: Fabio Fantini, Reggio Emilia
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pagina 65 Sezione aurea, 2009 Acrilico su tela, cm. 33x48 Acrylic on canvas
pagina 66 (particolare pag. 67) Foto: Fabio Fantini, Reggio Emilia
Foto: Fabio Fantini, Reggio Emilia
pagina 67 Incastro viola, 2008 Acrilico su tela, cm. 49x75 Acrylic on canvas Foto: Fabio Fantini, Reggio Emilia
pagina 68 Fuga in rosso, 2008 Acrilico su tela, cm. 51x95 Acrylic on canvas
pagina 69 Cinque colori, 2008 Acrilico su tela, cm. 45x96 Acrylic on canvas
pagine 70-71 Spugna bicolore, 1972 Acrilico su tela, cm. 86x105 Acrylic on canvas
Foto: Fabio Fantini, Reggio Emilia
Foto: Fabio Fantini, Reggio Emilia
Foto: Fabio Fantini, Reggio Emilia
pagina 72 (particolare) Studio dell’artista in Via Fratelli Calandra Torino, 2004 The artist’s studio in Via Fratelli Calandra Torino, 2004
pagina 79 (particolare) Studio dell’artista in Via Fratelli Calandra Torino, 2004 The artist’s studio in Via Fratelli Calandra Torino, 2004
Foto: Daniele Prandi, Reggio Emilia
Foto: Daniele Prandi, Reggio Emilia
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE GALLERIE D’ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA