Anno 1 | Numero 3 | Mag./Giu. 2019 | € 12,00
PERIODICO BIMESTRALE - P.I. 01/05/2019 spedizione in abbonamento postale Comma 26, Art. 2, Legge 549/95
LA RIVISTA ITALIANA DI STORIA E TECNICA AERONAUTICA
starfighters aerospace Gli F-104 italiani volano ancora
eagle claw
La notte in cui tutto andò storto
jahù
Le avventure di un S.55 destinato all’immortalità
on c e ri n o l o i o c z i a r T or b e c a l c l e o r In c o Club F zza: i m n i s a e g r m o tu ’l ottan i Ghemme d
zeltweg
air power Un week-end all’Air Show Viaggio A /R in bus Gran Turismo da Milano, due pernottamenti nell’aera di Zel tweg, biglietto d’ingresso all’Air Show
3 giorni a
tolosa
Volo A /R + Hotel Ingresso combinato al museo dell'aviazione e visita guidata agli stabilimenti Airbus
i posti sono limitati e il tempo stringe! info e prenotazioni 370.36.41.829 gmeter@libero.it
I
l grande fotografo francese Robert Doisneau disse una volta: “Vi spiego come nasce una fotografia: mi sveglio al mattino con un’incredibile voglia di fare, di vedere...”. Le stesse modalità, più o meno, con le quali nasce un nuovo numero di Aerofan. Con la differenza che al mattino, quando ci svegliamo con la suddetta incredibile voglia di fare, qualcun altro sa che verrà coinvolto suo malgrado in questo vortice. Proprio l’altra mattina eravamo in riunione in una delle sezioni staccate della nostra redazione, un bar di Milano, con Massimo Dominelli. Sì, perché dovete sapere che, così come l’aeroplano sul quale vola il Presidente degli Stati Uniti diventa automaticamente “Air Force One”, così qualsiasi luogo in cui si riuniscono almeno due LA RIVISTA ITALIANA DI STORIA E TECNICA AERONAUTICA collaboratori diventa d’ufficio la redazione di Aerofan. Quindi, dicevamo, eravamo in redazione che stavamo chiudendo il numero 3 quando Massimo ci ha informati della sua prossima trasferta insieme all’amico Domenico Binda per partecipare all’Open Day dei Red Devils, la pattuglia ufficiale delle Forze Aeree belghe. I quali, guarda caso, da quasi dieci anni volano sugli italianissimi SF260 (e guai a chi glieli tocca!) e, guarda caso, sono ormai nostri amici di vecchia data avendo contribuito alla realizzazione della monografia di Massimo sul piccolo “Marchetti”, come i Diavoli chiamano il loro aeroplano. Da qui, l’idea: rimandare la chiusura del numero e realizzare un report esclusivo dell’ultimo minuto; e in men che non si dica, con la collaborazione del comandante e del fotografo dei Red Devils e grazie alla penna di Massimo e alle foto di Domenico, quella che doveva essere una semplice gita di piacere, è diventato un articolo di Aerofan. Nel frattempo dalla Russia ci è giunta notizia della prossima uscita sul mercato di un modello in scala del Siai Marchetti S.55, e non uno qualunque ma niente meno che lo “Jahù”; potevamo non approfittare dell’occasione per ricordare la storia dell’unico S.55 sopravvissuto fino ai giorni nostri? Certo che no. Anche perché se pensiamo che lo “Jahù” durante la sua esistenza ha Un coppia di TF-104G appartenenti al rischiato di finire affondato, smontato, tagliato e nonostante tutto ha resistito ed è stato 20° Gruppo, 4° Stormo, infine restaurato, mentre l’S.55 di Italo Balbo che era perfettamente conservato è stato dell’Aeronautica Militare. Lo Starfighter in primo piano in ingloriosamente demolito, ci prende una malinconia che non riusciamo a spiegare... questi mesi sta completando la Per farla breve, il risultato di tutto ciò è stato che il menabò del numero 3, già bello e pronto certificazione negli Stati Uniti per tornare a volare con la società con un mese di anticipo, è stato stravolto. Insieme a tutti i nostri buoni propositi di chiudere i Starfighters Aerospace numeri in anticipo per non arrivare all’ultimo minuto con l’acqua alla gola. (Ph. Luigino Caliaro) Ad ogni modo, ecco il nuovo numero in cui troverete, tra gli altri, l’immortale “Spillone” che non vuole saperne di stare nei musei e l’altrettanto immortale “Sparviero” che, un po’ stanco di quel che si dice a sproposito di lui, cerca di fare chiarezza sulle leggende che lo riguardano. Ma perché state continuando a perdere tempo con questo sproloquio? Su, girate pagina che c’è molto da scoprire! Buona lettura e ricordate: volare è impossibile!
Luciano Pontolillo
3
45
armstrong Whitworth a.w. 41 albemarle Da bombardiere fallito ad aeroplano per traino alianti
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57
Gli F-104 italiani volano ancora
Le imprese di un S.55 destinato all’immortalità
19
65
starfighters aerospace
eagle claw La notte in cui tutto andò storto
32
red devils Abbiamo seguito in esclusiva la presentazione della Stagione 2019
jahù
valentina tereshkova la prima cosmonauta della Storia
69
con il vagone volante al circolo polare artico Una missione della 46a Aerobrigata
39
fighter squadron Un film dedicato ai piloti da caccia dell’USAAF Europe
inserto speciale
78
storie di ali italiane
l’album di aerofan
- 70 anni fa Superga - Quando la realtà diventa mito -
Le foto e la Storia
4
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armstrong Whitworth a.w. 41 albemarle Da bombardiere fallito ad aeroplano per traino alianti
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Gli F-104 italiani volano ancora
Le imprese di un S.55 destinato all’immortalità
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starfighters aerospace
eagle claw La notte in cui tutto andò storto
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red devils Abbiamo seguito in esclusiva la presentazione della Stagione 2019
jahù
valentina tereshkova la prima cosmonauta della Storia
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con il vagone volante al circolo polare artico Una missione della 46a Aerobrigata
39
fighter squadron Un film dedicato ai piloti da caccia dell’USAAF Europe
inserto speciale
78
storie di ali italiane
l’album di aerofan
- 70 anni fa Superga - Quando la realtà diventa mito -
Le foto e la Storia
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starfighters
aerospace Gli F-104 italiani volano ancora
Luigino Caliaro
TF-104 N992SF, l’unico dei velivoli ex Aeronautica Militare attualmente operativo, fotografato ad ottobre del 2018. La sessione air-to-air è stata possibile grazie all'aiuto di Doug Matthews, che ha messo a disposizione come “photo platform” il suo T-33 basato sull'aeroporto di Tico. (Ph. Luigino Caliaro)
G
li appassionati i t a l i a n i d i a v i a z i o n e sicuramente ricordano la grande manifestazione aerea del 30 maggio 2004, organizzata sull’aeroporto di Pratica di Mare dall'Aeronautica Militare per salutare il ritiro dal servizio degli ultimi F-104.
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starfighters
aerospace Gli F-104 italiani volano ancora
Luigino Caliaro
TF-104 N992SF, l’unico dei velivoli ex Aeronautica Militare attualmente operativo, fotografato ad ottobre del 2018. La sessione air-to-air è stata possibile grazie all'aiuto di Doug Matthews, che ha messo a disposizione come “photo platform” il suo T-33 basato sull'aeroporto di Tico. (Ph. Luigino Caliaro)
G
li appassionati i t a l i a n i d i a v i a z i o n e sicuramente ricordano la grande manifestazione aerea del 30 maggio 2004, organizzata sull’aeroporto di Pratica di Mare dall'Aeronautica Militare per salutare il ritiro dal servizio degli ultimi F-104.
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MORENO AGUIARI
2
3
8
Pratica di Mare, 30 maggio 2004. Un momento della manifestazione organizzata per l’ultimo saluto agli F-104 italiani.
LUIGINO CALIARO
LUCIANO PONTOLILLO
1
Lo “Special Color” realizzato dal 20° Gruppo di Grosseto fu uno dei velivoli partecipanti all’Air Show di Pratica di Mare, mentre il 4-40 è uno degli Starfighter riportati in volo negli Stati Uniti.
TF-104G-M c/n 5212 ex M.M. 54261. Immatricolato N992SF negli Stati Uniti, questo è attualmente l’unico F-104 biposto in condizioni di volo presso la Starfighters Aerospace.
AEROFAN | MAG/GIU 2019
LUIGINO CALIARO
Si chiudeva così definitivamente la carriera operativa del caccia dopo cinquant'anni dal suo primo volo, avvenuto negli Stati Uniti il 4 marzo 1954. Un risultato incredibile per un velivolo concepito nei primi anni della Guerra Fredda per la missione, estremamente specializzata, di intercettore puro. A dispetto di questa sua peculiarità, lo Starfighter ha dimostrato una inaspettata longevità oltre che essere stato importantissimo per la rinascita di alcune delle più importanti industrie aeronautiche e per il rinnovamento di diverse forze aeree europee, tra cui la nostra Aeronautica Militare, ritagliandosi così una parte importante nella storia dell'Aviazione e nel cuore degli appassionati. Ma alla fine anche il “104” ha dovuto cedere il passo alle nuove generazioni di velivoli militari. Quando sembrava ormai inevitabile che l'unico modo per vedere un F-104 sarebbe stato all'interno di un Museo, dagli Stati Uniti è giunta la notizia che alcuni Starfighter appartenuti all'Aeronautica Militare e acquistati dalla Starfighters Aerospace, una società con sede in Florida, sarebbero tornati in volo. Fondatore e presidente della Starfighters Aerospace è Rick Svetkoff, ex pilota militare e pilota civile. Originario del Michigan, dopo aver conseguito molto giovane il brevetto di pilota, iniziò a lavorare nel settore dell'aviazione civile fondando una piccola compagnia di aerotaxi, successivamente ceduta quando fu ammesso al corso di pilotaggio della US NAVY. Dopo aver volato per alcuni anni con l'A-4 Skyhawk dai ponti di volo delle portaerei, lasciò la carriera militare per la compagnia civile Continental Airlines, con la quale ha volato fino ad alcuni anni fa come comandante di DC-9, MD-80, Boeing B-757 e Boeing B767. Nel frattempo, con l'intento di cercare nuovi interessi e sbocchi professionali in campo aeronautico, nel 1995 ebbe l'opportunità di acquistare il suo primo Starfighter al quale si aggiunsero in poco tempo altri due aerei, con i quali Svetkoff creò il Team Starfighter (in realtà Starfighter Inc.) con base sull'aeroporto di Clearwater a Tampa. Il Team era composto da caccia di costruzione canadese e precisamente un biposto CF104D s/n 104632 registrato con marche civili N104RB e due monoposto CF-104G, s/n 104850 (N104RD) e 104759 (N104RN). A questi tre caccia, che in precedenza avevano servito con l'Aviazione Canadese e Norvegese, fu aggiunto un F-104B ex Royal Jordanian Air Force, non volante ed usato principalmente come fornitore di parti di ricambio. Il “core business” della società era la partecipazione ai principali Air Show americani, ma tale attività non compensava gli altissimi costi che la società doveva sostenere per mantenere i caccia Lockheed in condizioni di volo. Pertanto Svetkoff si attivò per trovare nuove soluzioni per l'impiego dei velivoli, che si concretizzarono a partire dal 2000, con un iniziale accordo di collaborazione con la NASA a supporto del programma spaziale commerciale. Per questo motivo, dopo la trasformazione della società in Starfighters Aerospace, dal 2007 tutte le attività furono trasferite press il Kennedy Space Center a Cape Canaveral, grazie alla concessione della NASA di utilizzo di parte del grande hangar posizionato ai bordi della pista dello Shuttle Landing Facility, usato per ricoverare gli elicotteri UH-1 impiegati per il controllo e le attività di supporto del centro spaziale. La nuova attività portò gradualmente ad un crescente disimpegno della partecipazione degli Starfighter agli Air Show, al punto che oggi, tranne alcune sporadiche apparizioni al locale Tico Air Show, gli F-104 non partecipano a nessuna manifestazione. Grazie alle eccellenti prestazioni dello Starfighter, la richiesta dei velivoli per attività e compiti scientifici e di ricerca, portarono ben presto alla necessità di trovare nuove cellule, dal momento che gli aeroplani utilizzati avevano alle spalle una discreta vita operativa. Di conseguenza divenne giocoforza orientare l'interesse della società verso l'Italia, per acquisire alcuni degli Starfighter appena ritirati dal servizio della nostra
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Pratica di Mare, 30 maggio 2004. Un momento della manifestazione organizzata per l’ultimo saluto agli F-104 italiani.
LUIGINO CALIARO
LUCIANO PONTOLILLO
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Lo “Special Color” realizzato dal 20° Gruppo di Grosseto fu uno dei velivoli partecipanti all’Air Show di Pratica di Mare, mentre il 4-40 è uno degli Starfighter riportati in volo negli Stati Uniti.
TF-104G-M c/n 5212 ex M.M. 54261. Immatricolato N992SF negli Stati Uniti, questo è attualmente l’unico F-104 biposto in condizioni di volo presso la Starfighters Aerospace.
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LUIGINO CALIARO
Si chiudeva così definitivamente la carriera operativa del caccia dopo cinquant'anni dal suo primo volo, avvenuto negli Stati Uniti il 4 marzo 1954. Un risultato incredibile per un velivolo concepito nei primi anni della Guerra Fredda per la missione, estremamente specializzata, di intercettore puro. A dispetto di questa sua peculiarità, lo Starfighter ha dimostrato una inaspettata longevità oltre che essere stato importantissimo per la rinascita di alcune delle più importanti industrie aeronautiche e per il rinnovamento di diverse forze aeree europee, tra cui la nostra Aeronautica Militare, ritagliandosi così una parte importante nella storia dell'Aviazione e nel cuore degli appassionati. Ma alla fine anche il “104” ha dovuto cedere il passo alle nuove generazioni di velivoli militari. Quando sembrava ormai inevitabile che l'unico modo per vedere un F-104 sarebbe stato all'interno di un Museo, dagli Stati Uniti è giunta la notizia che alcuni Starfighter appartenuti all'Aeronautica Militare e acquistati dalla Starfighters Aerospace, una società con sede in Florida, sarebbero tornati in volo. Fondatore e presidente della Starfighters Aerospace è Rick Svetkoff, ex pilota militare e pilota civile. Originario del Michigan, dopo aver conseguito molto giovane il brevetto di pilota, iniziò a lavorare nel settore dell'aviazione civile fondando una piccola compagnia di aerotaxi, successivamente ceduta quando fu ammesso al corso di pilotaggio della US NAVY. Dopo aver volato per alcuni anni con l'A-4 Skyhawk dai ponti di volo delle portaerei, lasciò la carriera militare per la compagnia civile Continental Airlines, con la quale ha volato fino ad alcuni anni fa come comandante di DC-9, MD-80, Boeing B-757 e Boeing B767. Nel frattempo, con l'intento di cercare nuovi interessi e sbocchi professionali in campo aeronautico, nel 1995 ebbe l'opportunità di acquistare il suo primo Starfighter al quale si aggiunsero in poco tempo altri due aerei, con i quali Svetkoff creò il Team Starfighter (in realtà Starfighter Inc.) con base sull'aeroporto di Clearwater a Tampa. Il Team era composto da caccia di costruzione canadese e precisamente un biposto CF104D s/n 104632 registrato con marche civili N104RB e due monoposto CF-104G, s/n 104850 (N104RD) e 104759 (N104RN). A questi tre caccia, che in precedenza avevano servito con l'Aviazione Canadese e Norvegese, fu aggiunto un F-104B ex Royal Jordanian Air Force, non volante ed usato principalmente come fornitore di parti di ricambio. Il “core business” della società era la partecipazione ai principali Air Show americani, ma tale attività non compensava gli altissimi costi che la società doveva sostenere per mantenere i caccia Lockheed in condizioni di volo. Pertanto Svetkoff si attivò per trovare nuove soluzioni per l'impiego dei velivoli, che si concretizzarono a partire dal 2000, con un iniziale accordo di collaborazione con la NASA a supporto del programma spaziale commerciale. Per questo motivo, dopo la trasformazione della società in Starfighters Aerospace, dal 2007 tutte le attività furono trasferite press il Kennedy Space Center a Cape Canaveral, grazie alla concessione della NASA di utilizzo di parte del grande hangar posizionato ai bordi della pista dello Shuttle Landing Facility, usato per ricoverare gli elicotteri UH-1 impiegati per il controllo e le attività di supporto del centro spaziale. La nuova attività portò gradualmente ad un crescente disimpegno della partecipazione degli Starfighter agli Air Show, al punto che oggi, tranne alcune sporadiche apparizioni al locale Tico Air Show, gli F-104 non partecipano a nessuna manifestazione. Grazie alle eccellenti prestazioni dello Starfighter, la richiesta dei velivoli per attività e compiti scientifici e di ricerca, portarono ben presto alla necessità di trovare nuove cellule, dal momento che gli aeroplani utilizzati avevano alle spalle una discreta vita operativa. Di conseguenza divenne giocoforza orientare l'interesse della società verso l'Italia, per acquisire alcuni degli Starfighter appena ritirati dal servizio della nostra
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seconda delle necessità. La situazione tecnica dei velivoli invece sta migliorando notevolmente, dopo un periodo problematico anche a seguito di un ritardo nel ricevimento di pezzi di ricambio e dei motori di riserva, che hanno limitato per qualche anno l'attività di volo al solo biposto N992SF. Con l'arrivo dall'Italia del materiale, nel 2019 la Starfighters Aerospace prevede di aver pronto per il volo il monoposto e un'altro biposto auspicando inoltre la possibilità di rimettere in volo uno o due dei vecchi CF-104G. Risolti i problemi di natura tecnica e con la prossima disponibilità di aerei, le prospettive sono decisamente interessanti; recentemente la società ha ottenuto di essere considerata a supporto diretto delle attività spaziali, organizzando anche corsi teorici e pratici a corollario dei corsi addestrativi degli astronauti ed ha ottenuto la certificazione per poter effettuare addestramento e voli a pagamento sullo Starfighter, anche se, almeno per ora, limitato a piloti civili o militari.
Altro risultato significativo per Starfighters Aerospace è stato l'accordo stipulato con la Test Pilot School dell'USAF per fornire opportunità addestrative particolari sullo Starfighter, che ancora oggi ha caratteristiche di volo talmente spinte ed uniche da permettere agli astronauti esperienze di volo suborbitale a gravità zero prolungate grazie ad una traiettoria studiata appositamente. Il particolare profilo di volo infatti permette una durata del “weightless flight time” di un minuto e mezzo contro poco più di mezzo minuto possibile con altri velivoli. Il settore ricerca e sviluppo ha e avrà la precedenza su tutto il resto, al punto che la partecipazione ad eventi aeronautici è totalmente esclusa. Le previsioni sono di effettuare nel prossimo futuro almeno 200/300 voli l'anno, un sensibile aumento rispetto ai 75/100 voli effettuati nel 2018. La società ha deciso di continuare ad operare dal Kennedy Space Center, nonostante le limitazioni legate all'accesso dell'area per ovvi motivi di sicurezza, perché può disporre di uno spazio aereo
dedicato dove svolgere le attività in volo senza restrizioni oltre che di una pista lunga quasi cinque chilometri e di tutte le strutture necessarie. Rick Svetkoff non ha in animo di sostituire lo Starfighter con altri aerei, poiché lo “spillone” risulta essere una piattaforma ideale per la maggior parte delle attività; la macchina è tra i pochi velivoli che arrivano agevolmente e velocemente a Mach 2, con una impressionante di capacità di salita molto simile a quella di un missile. I rapporti privilegiati con l'Aeronautica Militare danno una ragionevole garanzia di disporre al bisogno di ulteriori parti e, auspicio personale di Rick Svetkoff, di ottenere ancora uno o due velivoli. Starfighters Aerospace in questi anni di attività ha concretamente dimostrato di essere un valido punto di forza per il supporto di attività sperimentali e ricerca sia per società private che governative e quindi, senza ombra di dubbio, il momento per la scomparsa dai cieli del "missile con un uomo dentro" non è ancora arrivato.
LUIGINO CALIARO
revisione, con l'installazione di alcuni apparati elettronici necessari per le attività della società oltre che all'applicazione di una nuova livrea. Attualmente al biposto N992SF e al monoposto N993SF è stata applicate una particolare livrea “splinter” a tre colori bianco, grigio e azzurro, disegnata da Piercarlo Ciacchi, chief pilot della società e vecchia conoscenza degli appassionati italiani in quanto ex pilota delle Frecce Tricolori, e Dario Righetto della Graphistudio di Pordenone. Gli altri due biposto, il N990SF e il N991SF, hanno rispettivamente una colorazione grigio uniforme e nero. Attualmente la società ha un totale di otto persone che lavorano a tempo pieno ed è in procinto di iniziare la costruzione di un hangar presso il Kennedy Space Center. L'intenzione è di portare almeno a cinque il numero dei piloti qualificati, dal momento che ad oggi, oltre al CEO Rick Svetkoff, gli unici piloti abilitati sono Piercarlo Ciacchi e il tedesco Wolfgang Czaia, che però vola in qualità di pilota part-time a
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seconda delle necessità. La situazione tecnica dei velivoli invece sta migliorando notevolmente, dopo un periodo problematico anche a seguito di un ritardo nel ricevimento di pezzi di ricambio e dei motori di riserva, che hanno limitato per qualche anno l'attività di volo al solo biposto N992SF. Con l'arrivo dall'Italia del materiale, nel 2019 la Starfighters Aerospace prevede di aver pronto per il volo il monoposto e un'altro biposto auspicando inoltre la possibilità di rimettere in volo uno o due dei vecchi CF-104G. Risolti i problemi di natura tecnica e con la prossima disponibilità di aerei, le prospettive sono decisamente interessanti; recentemente la società ha ottenuto di essere considerata a supporto diretto delle attività spaziali, organizzando anche corsi teorici e pratici a corollario dei corsi addestrativi degli astronauti ed ha ottenuto la certificazione per poter effettuare addestramento e voli a pagamento sullo Starfighter, anche se, almeno per ora, limitato a piloti civili o militari.
Altro risultato significativo per Starfighters Aerospace è stato l'accordo stipulato con la Test Pilot School dell'USAF per fornire opportunità addestrative particolari sullo Starfighter, che ancora oggi ha caratteristiche di volo talmente spinte ed uniche da permettere agli astronauti esperienze di volo suborbitale a gravità zero prolungate grazie ad una traiettoria studiata appositamente. Il particolare profilo di volo infatti permette una durata del “weightless flight time” di un minuto e mezzo contro poco più di mezzo minuto possibile con altri velivoli. Il settore ricerca e sviluppo ha e avrà la precedenza su tutto il resto, al punto che la partecipazione ad eventi aeronautici è totalmente esclusa. Le previsioni sono di effettuare nel prossimo futuro almeno 200/300 voli l'anno, un sensibile aumento rispetto ai 75/100 voli effettuati nel 2018. La società ha deciso di continuare ad operare dal Kennedy Space Center, nonostante le limitazioni legate all'accesso dell'area per ovvi motivi di sicurezza, perché può disporre di uno spazio aereo
dedicato dove svolgere le attività in volo senza restrizioni oltre che di una pista lunga quasi cinque chilometri e di tutte le strutture necessarie. Rick Svetkoff non ha in animo di sostituire lo Starfighter con altri aerei, poiché lo “spillone” risulta essere una piattaforma ideale per la maggior parte delle attività; la macchina è tra i pochi velivoli che arrivano agevolmente e velocemente a Mach 2, con una impressionante di capacità di salita molto simile a quella di un missile. I rapporti privilegiati con l'Aeronautica Militare danno una ragionevole garanzia di disporre al bisogno di ulteriori parti e, auspicio personale di Rick Svetkoff, di ottenere ancora uno o due velivoli. Starfighters Aerospace in questi anni di attività ha concretamente dimostrato di essere un valido punto di forza per il supporto di attività sperimentali e ricerca sia per società private che governative e quindi, senza ombra di dubbio, il momento per la scomparsa dai cieli del "missile con un uomo dentro" non è ancora arrivato.
LUIGINO CALIARO
revisione, con l'installazione di alcuni apparati elettronici necessari per le attività della società oltre che all'applicazione di una nuova livrea. Attualmente al biposto N992SF e al monoposto N993SF è stata applicate una particolare livrea “splinter” a tre colori bianco, grigio e azzurro, disegnata da Piercarlo Ciacchi, chief pilot della società e vecchia conoscenza degli appassionati italiani in quanto ex pilota delle Frecce Tricolori, e Dario Righetto della Graphistudio di Pordenone. Gli altri due biposto, il N990SF e il N991SF, hanno rispettivamente una colorazione grigio uniforme e nero. Attualmente la società ha un totale di otto persone che lavorano a tempo pieno ed è in procinto di iniziare la costruzione di un hangar presso il Kennedy Space Center. L'intenzione è di portare almeno a cinque il numero dei piloti qualificati, dal momento che ad oggi, oltre al CEO Rick Svetkoff, gli unici piloti abilitati sono Piercarlo Ciacchi e il tedesco Wolfgang Czaia, che però vola in qualità di pilota part-time a
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EAGLE
CLAW La notte in cui tutto andò storto
Luciano Pontolillo
24 aprile 1980. Ultimi preparativi per gli elicotteri Sikorsky RH-53D Sea Stallion allineati sul ponte di volo della portaerei Nimitz prima della messa in moto e del decollo per partecipare all'operazione di salvataggio “Eagle Claw�. (Ph. U.S. National Archives)
I
l 25 aprile 1980 la Casa Bianca annunciava pubblicamente il fallimento di un'operazion e segreta abortita poche ore prima in Iran, posta in atto per liberare gli ostaggi americani prigionieri nell'ambasciata di Teheran dal 4 novembre dell'anno precedente.
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EAGLE
CLAW La notte in cui tutto andò storto
Luciano Pontolillo
24 aprile 1980. Ultimi preparativi per gli elicotteri Sikorsky RH-53D Sea Stallion allineati sul ponte di volo della portaerei Nimitz prima della messa in moto e del decollo per partecipare all'operazione di salvataggio “Eagle Claw�. (Ph. U.S. National Archives)
I
l 25 aprile 1980 la Casa Bianca annunciava pubblicamente il fallimento di un'operazion e segreta abortita poche ore prima in Iran, posta in atto per liberare gli ostaggi americani prigionieri nell'ambasciata di Teheran dal 4 novembre dell'anno precedente.
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decollati da un base in Oman avrebbero trasportato le forze di terra e il carburante necessario per la missione: tre MC-130E Combat Talon (call signs: Dragon da 1 a 3) avrebbero trasportato la Delta Force e altri elementi di protezione, mentre tre EC-130E (call signs: Republic da 4 a 6) avrebbero provveduto al trasporto di oltre 22.000 litri di carburante per rifornire gli elicotteri durante il rendez-vous a Desert One. I Sea Stallion avrebbero poi dovuto prelevare i soldati della Delta Force da Desert One trasportandoli per più di 420 miglia fino a Desert Two (35°14'00" N, 52°09'00" E), a 52 miglia da Teheran. Una volta giunti a Desert Two, con l'approssimarsi del giorno, le forze di terra sarebbero rimaste in attesa del buio per procedere con la seconda parte della missione. La seconda notte gli agenti della CIA già dislocati in Iran avrebbero portato i camion a Desert Two. Insieme, gli agenti della CIA e le forze di terra avrebbero proceduto quindi fino a Teheran. Nel frattempo, altre truppe statunitensi avrebbero interrotto l'energia elettrica nell'area, nel tentativo di rallentare qualsiasi reazione da parte dell'esercito iraniano. Inoltre, unità cannoniere AC-130 Spectre sarebbero state dispiegate su Teheran per fornire il necessario fuoco di supporto. Infine, i Rangers avrebbero catturato la vicina base aerea di Manzariyeh (34°58'58" N, 50°48'20" E) permettendo l'atterraggio a diversi C141 Starlifter. La Delta Force avrebbe assaltato l'ambasciata, eliminato le guardie e liberato gli ostaggi, procedendo successivamente verso lo stadio Amjadieh dove nel frattempo sarebbero giunti gli elicotteri per l'evacuazione. Infine, gli elicotteri avrebbero trasportato tutti alla base aerea di Manzariyeh, dove i C-141 avrebbero imbarcato gli ostaggi riparando infine in territorio amico. La forza di terra contava 93 soldati della Delta Force per l'assalto all'ambasciata, 13 uomini appartenenti al Detachment "A" della Berlin Brigade per
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Operazioni di volo del Carrier Air Wing 14 a bordo della portaerei Coral Sea nell’Oceano Indiano durante l’addestramento finale in vista dell’operazione Eagle Claw. Dall’alto in basso: A-6E Intruder del VA-196 "The Main Battery” e F-4N Phantom dello USMC Fighter Attack Squadron VMFA-323 "Death Rattlers". I velivoli sono già stati contrassegnati con le strisce di identificazione visiva sull’ala destra.
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assaltare il Ministero degli Affari Esteri, 12 Rangers che formavano la squadra addetta al blocco stradale a Desert One e 15 tra iraniani e americani “persian-speaker” che avrebbero dovuto guidare i camion con gli ostaggi liberati. Lo scudo aereo per l'operazione sarebbe stato appannaggio dei Carrier Air Wing 8 della Nimitz e 14 della Coral Sea. Per l'occasione, i velivoli furono contrassegnati con speciali “invasion stripes” sull'ala destra: gli F-4N Phantom dei Marines appartenenti al CVW-14 avevano una striscia rossa (VMFA-323) o gialla (VMFA-531) racchiusa tra due strisce nere; gli aerei d'attacco A-7E Corsair e A-6E Intruder sempre del CVW-14 avevano una striscia arancione racchiusa da due strisce nere; gli F-4N Phantom e gli F-14A Tomcat imbarcati sulla Nimitz erano contrassegnati anch'essi con una striscia rossa tra due strisce nere. Tutto ciò per facilitare l'identificazione degli aerei statunitensi distinguendoli dagli aerei iraniani acquistati dagli Stati Uniti, in particolare F-14 e F-4. Gli elicotteri destinati all'operazione appartenevano al Marine Heavy Helicopter Squadron HMH-461 “Iron Horses”; vennero alleggeriti rimuovendo tutto ciò che fu ritenuto non strettamente necessario per la missione: portelli, verricelli, finestrini, allestimenti interni, ecc… Dai motori vennero rimossi inoltre i filtri antisabbia, che limitavano le prestazioni dei velivoli, decidendo di “sacrificare” i propulsori per la causa. Agli elicotteri venne applicata infine una vernice color sabbia che ricoprì completamente insegne di reparto e coccarde nazionali. Un piccolo numero identificativo venne applicato a prua, di fianco al portello del carrello anteriore. La sera del 24 aprile, dopo oltre cinque mesi di pianificazione e di preparazione, con l'autorizzazione definitiva del presidente Carter l'operazione prese il via; gli elicotteri RH-53D (call signs: Bluebeard da 1 a 8) decollarono dalla portaerei Nimitz mentre i C-130 con a bordo le squadre d'assalto e i rifornimenti decollarono dalla loro base a Masirah Island, in Oman. Dopo due ore di volo, su Bluebeard 6 si accese una spia che segnalava un
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F-14A Tomcat dei VF-41 “Black Aces” e VF-84 “Jolly Rogers” imbarcati sulla portaerei Nimitz. Questi aeroplani sarebbero stati allertati nel caso in cui le Forze Aeree iraniane avessero tentato di contrastare in qualche modo l’operazione di salvataggio degli ostaggi americani.
Nei giorni precedenti l’operazione, gli equipaggi degli SH-53 eettuarono una serie di voli di ambientamento al crepuscolo che Ā simulavano le condizioni ambientali in cui si sarebbe svolta la missione reale. Per ovvie ragioni questi voli si svolsero sul mare, un ambiente con caratteristiche decisamente dierenti dal deserto e Ā questa, in prospettiva, fu giudicata una delle ragioni che portarono al fallimento di Eagle Claw.
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decollati da un base in Oman avrebbero trasportato le forze di terra e il carburante necessario per la missione: tre MC-130E Combat Talon (call signs: Dragon da 1 a 3) avrebbero trasportato la Delta Force e altri elementi di protezione, mentre tre EC-130E (call signs: Republic da 4 a 6) avrebbero provveduto al trasporto di oltre 22.000 litri di carburante per rifornire gli elicotteri durante il rendez-vous a Desert One. I Sea Stallion avrebbero poi dovuto prelevare i soldati della Delta Force da Desert One trasportandoli per più di 420 miglia fino a Desert Two (35°14'00" N, 52°09'00" E), a 52 miglia da Teheran. Una volta giunti a Desert Two, con l'approssimarsi del giorno, le forze di terra sarebbero rimaste in attesa del buio per procedere con la seconda parte della missione. La seconda notte gli agenti della CIA già dislocati in Iran avrebbero portato i camion a Desert Two. Insieme, gli agenti della CIA e le forze di terra avrebbero proceduto quindi fino a Teheran. Nel frattempo, altre truppe statunitensi avrebbero interrotto l'energia elettrica nell'area, nel tentativo di rallentare qualsiasi reazione da parte dell'esercito iraniano. Inoltre, unità cannoniere AC-130 Spectre sarebbero state dispiegate su Teheran per fornire il necessario fuoco di supporto. Infine, i Rangers avrebbero catturato la vicina base aerea di Manzariyeh (34°58'58" N, 50°48'20" E) permettendo l'atterraggio a diversi C141 Starlifter. La Delta Force avrebbe assaltato l'ambasciata, eliminato le guardie e liberato gli ostaggi, procedendo successivamente verso lo stadio Amjadieh dove nel frattempo sarebbero giunti gli elicotteri per l'evacuazione. Infine, gli elicotteri avrebbero trasportato tutti alla base aerea di Manzariyeh, dove i C-141 avrebbero imbarcato gli ostaggi riparando infine in territorio amico. La forza di terra contava 93 soldati della Delta Force per l'assalto all'ambasciata, 13 uomini appartenenti al Detachment "A" della Berlin Brigade per
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Operazioni di volo del Carrier Air Wing 14 a bordo della portaerei Coral Sea nell’Oceano Indiano durante l’addestramento finale in vista dell’operazione Eagle Claw. Dall’alto in basso: A-6E Intruder del VA-196 "The Main Battery” e F-4N Phantom dello USMC Fighter Attack Squadron VMFA-323 "Death Rattlers". I velivoli sono già stati contrassegnati con le strisce di identificazione visiva sull’ala destra.
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assaltare il Ministero degli Affari Esteri, 12 Rangers che formavano la squadra addetta al blocco stradale a Desert One e 15 tra iraniani e americani “persian-speaker” che avrebbero dovuto guidare i camion con gli ostaggi liberati. Lo scudo aereo per l'operazione sarebbe stato appannaggio dei Carrier Air Wing 8 della Nimitz e 14 della Coral Sea. Per l'occasione, i velivoli furono contrassegnati con speciali “invasion stripes” sull'ala destra: gli F-4N Phantom dei Marines appartenenti al CVW-14 avevano una striscia rossa (VMFA-323) o gialla (VMFA-531) racchiusa tra due strisce nere; gli aerei d'attacco A-7E Corsair e A-6E Intruder sempre del CVW-14 avevano una striscia arancione racchiusa da due strisce nere; gli F-4N Phantom e gli F-14A Tomcat imbarcati sulla Nimitz erano contrassegnati anch'essi con una striscia rossa tra due strisce nere. Tutto ciò per facilitare l'identificazione degli aerei statunitensi distinguendoli dagli aerei iraniani acquistati dagli Stati Uniti, in particolare F-14 e F-4. Gli elicotteri destinati all'operazione appartenevano al Marine Heavy Helicopter Squadron HMH-461 “Iron Horses”; vennero alleggeriti rimuovendo tutto ciò che fu ritenuto non strettamente necessario per la missione: portelli, verricelli, finestrini, allestimenti interni, ecc… Dai motori vennero rimossi inoltre i filtri antisabbia, che limitavano le prestazioni dei velivoli, decidendo di “sacrificare” i propulsori per la causa. Agli elicotteri venne applicata infine una vernice color sabbia che ricoprì completamente insegne di reparto e coccarde nazionali. Un piccolo numero identificativo venne applicato a prua, di fianco al portello del carrello anteriore. La sera del 24 aprile, dopo oltre cinque mesi di pianificazione e di preparazione, con l'autorizzazione definitiva del presidente Carter l'operazione prese il via; gli elicotteri RH-53D (call signs: Bluebeard da 1 a 8) decollarono dalla portaerei Nimitz mentre i C-130 con a bordo le squadre d'assalto e i rifornimenti decollarono dalla loro base a Masirah Island, in Oman. Dopo due ore di volo, su Bluebeard 6 si accese una spia che segnalava un
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F-14A Tomcat dei VF-41 “Black Aces” e VF-84 “Jolly Rogers” imbarcati sulla portaerei Nimitz. Questi aeroplani sarebbero stati allertati nel caso in cui le Forze Aeree iraniane avessero tentato di contrastare in qualche modo l’operazione di salvataggio degli ostaggi americani.
Nei giorni precedenti l’operazione, gli equipaggi degli SH-53 eettuarono una serie di voli di ambientamento al crepuscolo che Ā simulavano le condizioni ambientali in cui si sarebbe svolta la missione reale. Per ovvie ragioni questi voli si svolsero sul mare, un ambiente con caratteristiche decisamente dierenti dal deserto e Ā questa, in prospettiva, fu giudicata una delle ragioni che portarono al fallimento di Eagle Claw.
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24 aprile 1980. Nell’hangar della portaerei Nimitz, gli elicotteri RH-53 vengono preparati per il trasferimento sul ponte.
problema ad una pala del rotore; l'elicottero atterrò seguito da Bluebeard 8 e, dopo un'ispezione al rotore, l'equipaggio decise di abbandonare il velivolo proseguendo il viaggio verso Desert One a bordo di Bluebeard 8. Penetrati ormai profondamente nel territorio iraniano, gli elicotteri si imbatterono in successione in due “haboob”, una sorta di tempesta di sabbia formata da particelle tanto fini da costituire una specie di nebbia. I piloti degli elicotteri non erano stati informati della possibilità di imbattersi in questo fenomeno atmosferico e furono costretti ad allargare la formazione per evitare collisioni in volo. Nel mezzo del secondo “haboob”, Bluebeard 5 ebbe un problema all'impianto elettrico che convinse l'equipaggio a invertire la rotta e a fare ritorno sulla Nimitz; il silenzio radio imposto alla missione impedì ai comandanti sul campo di venire a conoscenza del fatto che ora all'appello mancavano due elicotteri.
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24 aprile 1980. Bluebeard 3 e 6 fotografati sull’ascensore della Nimitz.
Dragon 1 fu il primo Hercules ad atterrare a Desert One alle 22:45, ora locale; l'atterraggio fu effettuato nel buio più completo utilizzando l'improvvisato sistema di luci di atterraggio a infrarossi installato precedentemente da Carney sulla pista, visibile solo attraverso gli occhiali per la visione notturna. Dragon 1 impiegò quattro passaggi per determinare che non c'erano ostacoli sulla pista e per allinearsi correttamente per l'atterraggio. L'aeroplano toccò duro sulla sabbia danneggiando seriamente l'ala seppur rimanendo ancora in condizioni di volo. Dallo MC-130 scesero Kyle e un USAF Combat Control Team (CCT) comandato da Carney e Beckwith. Il CCT stabilì una zona di atterraggio parallelo a nord della strada sterrata e attivò i beacon TACAN per guidare gli elicotteri. Il secondo e il terzo MC-130 atterrarono usando entrambe le piste e scaricarono il resto della Delta Force, dopo di che i velivoli decollarono alle 23:15 per fare spazio agli EC-130 e
agli otto RH-53 tornando alla base per consentire agli equipaggi di prepararsi per le operazioni della seconda notte. Un primo inconveniente accadde quando, poco dopo l'atterraggio dei primi equipaggi e la messa in sicurezza di Desert One da parte della Delta Force e dei Rangers, un autobus iraniano con oltre 40 civili fu costretto a fermarsi e i passeggeri furono trattenuti e trasferiti a bordo di Republic 3. Nel frattempo un camion cisterna di passaggio fu centrato da un razzo da 66 mm sparato dai Rangers mentre cercava di fuggire dal sito. Il passeggero del camion fu ucciso, ma l'autista riuscì a dileguarsi su un camioncino di scorta. La valutazione che il camion fosse probabilmente dedito al contrabbando di carburante fece ritenere che l'autista non fosse un pericolo per la sicurezza della missione. Il fuoco risultante dall'esplosione illuminò il terreno circostante per molte miglia fornendo involontariamente un riferimento visivo per gli elicotteri, ormai in prossimità di Desert One con un ritardo di circa un'ora. Bluebeard 2 fu l'ultimo Sea Stallion a posare le ruote a Desert One intorno all'una del mattino, con il sistema idraulico secondario malfunzionante; l'avaria determinò il suo “no go” per la missione. Con soli cinque elicotteri rimasti per trasportare uomini e attrezzature a Desert Two, Beckwith fu costretto a considerare l'interruzione della missione; durante la pianificazione di Eagle Claw era stato stabilito che la missione sarebbe stata annullata se fossero rimasti efficienti meno di sei e l i co tte ri , n o n o s t a n te s o l o q u a tt ro fo s s e ro ri te n u t i assolutamente necessari per portare a termine la missione. Beckwith temeva tuttavia che nelle fasi successive sarebbero andati persi altri elicotteri, anche perché gli RH-53 erano noti per i loro problemi di partenza a freddo ed essi sarebbero dovuti rimanere inattivi 24 ore a Desert Two. Kyle raccomandò a Vaught che la missione fosse annullata e questi trasmise la richiesta al Presidente statunitense, che confermò infine l'ordine di interruzione. Gli oltre 90 minuti di ritardo degli elicotteri rispetto alla tabella di marcia, avevano fatto sì che per gli Hercules la situazione carburante diventasse critica. Quando fu chiaro che solo sei elicotteri sarebbero arrivati a Desert One, Kyle aveva autorizzato gli EC-130 a trasferire nei propri serbatoi parte della riserva di carburante destinata originariamente agli elicotteri.
1980. 16-17I Sea Stallion vengono allineati sul ponte della Nimitz24peraprilegli ultimi controlli prima del lungo volo sul deserto.
24 aprile 1980. 18 Alle ultime luci del tramonto gli otto RH-53 sono ormai pronti per il volo. Questa è una delle ultime foto scattate prima dell’inizio dell’operazione Eagle Claw.
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24 aprile 1980. Nell’hangar della portaerei Nimitz, gli elicotteri RH-53 vengono preparati per il trasferimento sul ponte.
problema ad una pala del rotore; l'elicottero atterrò seguito da Bluebeard 8 e, dopo un'ispezione al rotore, l'equipaggio decise di abbandonare il velivolo proseguendo il viaggio verso Desert One a bordo di Bluebeard 8. Penetrati ormai profondamente nel territorio iraniano, gli elicotteri si imbatterono in successione in due “haboob”, una sorta di tempesta di sabbia formata da particelle tanto fini da costituire una specie di nebbia. I piloti degli elicotteri non erano stati informati della possibilità di imbattersi in questo fenomeno atmosferico e furono costretti ad allargare la formazione per evitare collisioni in volo. Nel mezzo del secondo “haboob”, Bluebeard 5 ebbe un problema all'impianto elettrico che convinse l'equipaggio a invertire la rotta e a fare ritorno sulla Nimitz; il silenzio radio imposto alla missione impedì ai comandanti sul campo di venire a conoscenza del fatto che ora all'appello mancavano due elicotteri.
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24 aprile 1980. Bluebeard 3 e 6 fotografati sull’ascensore della Nimitz.
Dragon 1 fu il primo Hercules ad atterrare a Desert One alle 22:45, ora locale; l'atterraggio fu effettuato nel buio più completo utilizzando l'improvvisato sistema di luci di atterraggio a infrarossi installato precedentemente da Carney sulla pista, visibile solo attraverso gli occhiali per la visione notturna. Dragon 1 impiegò quattro passaggi per determinare che non c'erano ostacoli sulla pista e per allinearsi correttamente per l'atterraggio. L'aeroplano toccò duro sulla sabbia danneggiando seriamente l'ala seppur rimanendo ancora in condizioni di volo. Dallo MC-130 scesero Kyle e un USAF Combat Control Team (CCT) comandato da Carney e Beckwith. Il CCT stabilì una zona di atterraggio parallelo a nord della strada sterrata e attivò i beacon TACAN per guidare gli elicotteri. Il secondo e il terzo MC-130 atterrarono usando entrambe le piste e scaricarono il resto della Delta Force, dopo di che i velivoli decollarono alle 23:15 per fare spazio agli EC-130 e
agli otto RH-53 tornando alla base per consentire agli equipaggi di prepararsi per le operazioni della seconda notte. Un primo inconveniente accadde quando, poco dopo l'atterraggio dei primi equipaggi e la messa in sicurezza di Desert One da parte della Delta Force e dei Rangers, un autobus iraniano con oltre 40 civili fu costretto a fermarsi e i passeggeri furono trattenuti e trasferiti a bordo di Republic 3. Nel frattempo un camion cisterna di passaggio fu centrato da un razzo da 66 mm sparato dai Rangers mentre cercava di fuggire dal sito. Il passeggero del camion fu ucciso, ma l'autista riuscì a dileguarsi su un camioncino di scorta. La valutazione che il camion fosse probabilmente dedito al contrabbando di carburante fece ritenere che l'autista non fosse un pericolo per la sicurezza della missione. Il fuoco risultante dall'esplosione illuminò il terreno circostante per molte miglia fornendo involontariamente un riferimento visivo per gli elicotteri, ormai in prossimità di Desert One con un ritardo di circa un'ora. Bluebeard 2 fu l'ultimo Sea Stallion a posare le ruote a Desert One intorno all'una del mattino, con il sistema idraulico secondario malfunzionante; l'avaria determinò il suo “no go” per la missione. Con soli cinque elicotteri rimasti per trasportare uomini e attrezzature a Desert Two, Beckwith fu costretto a considerare l'interruzione della missione; durante la pianificazione di Eagle Claw era stato stabilito che la missione sarebbe stata annullata se fossero rimasti efficienti meno di sei e l i co tte ri , n o n o s t a n te s o l o q u a tt ro fo s s e ro ri te n u t i assolutamente necessari per portare a termine la missione. Beckwith temeva tuttavia che nelle fasi successive sarebbero andati persi altri elicotteri, anche perché gli RH-53 erano noti per i loro problemi di partenza a freddo ed essi sarebbero dovuti rimanere inattivi 24 ore a Desert Two. Kyle raccomandò a Vaught che la missione fosse annullata e questi trasmise la richiesta al Presidente statunitense, che confermò infine l'ordine di interruzione. Gli oltre 90 minuti di ritardo degli elicotteri rispetto alla tabella di marcia, avevano fatto sì che per gli Hercules la situazione carburante diventasse critica. Quando fu chiaro che solo sei elicotteri sarebbero arrivati a Desert One, Kyle aveva autorizzato gli EC-130 a trasferire nei propri serbatoi parte della riserva di carburante destinata originariamente agli elicotteri.
1980. 16-17I Sea Stallion vengono allineati sul ponte della Nimitz24peraprilegli ultimi controlli prima del lungo volo sul deserto.
24 aprile 1980. 18 Alle ultime luci del tramonto gli otto RH-53 sono ormai pronti per il volo. Questa è una delle ultime foto scattate prima dell’inizio dell’operazione Eagle Claw.
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Nonostante il fallimento di Credible Sport, le esercitazioni continuarono fino al termine dell'Amministrazione Carter, fornendo le basi per molti concetti operativi successivamente sviluppati dalle Forze Speciali americane. Il 20 gennaio 1981, pochi minuti dopo la fine del mandato presidenziale di Carter, i 52 prigionieri statunitensi detenuti in Iran vennero rilasciati, ponendo fine alla crisi degli ostaggi dopo 444 giorni. L'incidente di Desert One è considerato una sconfitta degli Stati Uniti da parte degli iraniani e viene commemorato ogni anno in Iran; la popolazione delle città vicine si riunisce a Tabas, accompagnata da funzionari locali e figure religiose. La cerimonia include la visita al relitto di Bluebeard 7, uno dei cinque elicotteri americani abbandonati a Desert One, eretto a monumento.
Il segretario di stato americano Cyrus R. Vance, da subito scettico nei confronti dell'operazione ritenendo che avrebbe solo messo in pericolo la vita degli ostaggi, aveva presentato le proprie dimissioni indipendentemente dal fatto che la missione avesse successo o meno. Dimissioni che furono confermate ed accettate alcuni giorni dopo. Il fallimento dell'operazione assunse toni leggendari nell'Iran rivoluzionario; l'Ayatollah Ruhollah Khomeini definì le tempeste di sabbia gli "Angeli di Allah" che con il loro intervento avevano sventato la cospirazione statunitense proteggendo l'Iran. Il capo delle operazioni navali, l'ammiraglio James L. Holloway III, guidò l'indagine ufficiale sulle cause del fallimento dell'operazione. Il rapporto Holloway ascrisse la responsabilità del disastro principalmente alla pianificazione inadeguata, ad una struttura di comando imperfetta dovuta a scarsa interoperabilità tra le varie componenti delle Forze Armate statunitensi, alla mancanza di un adeguato addestramento dei piloti e, non ultimo, alle condizioni meteorologiche avverse. La pianificazione di una seconda missione di salvataggio venne autorizzata, poco dopo il primo tentativo fallito, con il nome in codice Honey Badger. Il fallimento degli elicotteri durante l'operazione Eagle Claw portò allo sviluppo di un concetto operativo differente che avrebbe dovuto coinvolgere solo velivoli ad ala fissa STOL (Short Take Off and Landing) in grado di volare dagli Stati Uniti all'Iran sf ruttando il rifornimento in volo, atterrare e decollare dall'Amjadieh Stadium dopo aver imbarcato gli ostaggi per poi atterrare su una portaerei al termine della missione. Il programma, chiamato Credible Sport, portò allo sviluppo di un Hercules modificato, l'YMC-130H che, oltre a vistose “pinne” stabilizzatrici poste davanti ai piani di coda, prevedeva l'installazione di una serie di razzi in fusoliera che teoricamente avrebbero consentito al velivolo di atterrare e decollare entro i confini dell'arena sportiva. Tre aerei furono modificati in gran segreto; il primo di essi il 29 ottobre 1980, durante una dimostrazione al Duke Field presso la Eglin Air Force Base, toccò terra duramente dopo aver azionato i razzi di frenata in anticipo. L'urto spezzò la semiala destra innescando un incendio che per fortuna si risolse senza danni per l'equipaggio.
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Il primo YMC-130H del programma Credible Sport fotografato sulla Eglin Air Force Base dopo l’incidente accaduto il 29 ottobre 1980. Republic 5, ritornato con successo dalla missione Eagle Claw, 25 L’EC-130E è stato ritirato dall'USAF nel giugno 2013 ed è ora esposto al Carolinas Aviation Museum di Charlotte, in North Carolina.
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L’arrivo degli ostaggi negli Stati Uniti nel gennaio del 1981, finalmente liberi dopo 444 giorni di prigionia.
CH-53D della Islamic Republic of Iran Navy. Due dei quattro elicotteri abbandonati dagli americani a Desert One, Bluebeard 2 e 8, furono in seguito immessi in servizio dalla Marina Militare iraniana.
Bluebeard 7 è oggi un monumento iraniano che commemora la sconfitta degli americani a Desert One.
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Nonostante il fallimento di Credible Sport, le esercitazioni continuarono fino al termine dell'Amministrazione Carter, fornendo le basi per molti concetti operativi successivamente sviluppati dalle Forze Speciali americane. Il 20 gennaio 1981, pochi minuti dopo la fine del mandato presidenziale di Carter, i 52 prigionieri statunitensi detenuti in Iran vennero rilasciati, ponendo fine alla crisi degli ostaggi dopo 444 giorni. L'incidente di Desert One è considerato una sconfitta degli Stati Uniti da parte degli iraniani e viene commemorato ogni anno in Iran; la popolazione delle città vicine si riunisce a Tabas, accompagnata da funzionari locali e figure religiose. La cerimonia include la visita al relitto di Bluebeard 7, uno dei cinque elicotteri americani abbandonati a Desert One, eretto a monumento.
Il segretario di stato americano Cyrus R. Vance, da subito scettico nei confronti dell'operazione ritenendo che avrebbe solo messo in pericolo la vita degli ostaggi, aveva presentato le proprie dimissioni indipendentemente dal fatto che la missione avesse successo o meno. Dimissioni che furono confermate ed accettate alcuni giorni dopo. Il fallimento dell'operazione assunse toni leggendari nell'Iran rivoluzionario; l'Ayatollah Ruhollah Khomeini definì le tempeste di sabbia gli "Angeli di Allah" che con il loro intervento avevano sventato la cospirazione statunitense proteggendo l'Iran. Il capo delle operazioni navali, l'ammiraglio James L. Holloway III, guidò l'indagine ufficiale sulle cause del fallimento dell'operazione. Il rapporto Holloway ascrisse la responsabilità del disastro principalmente alla pianificazione inadeguata, ad una struttura di comando imperfetta dovuta a scarsa interoperabilità tra le varie componenti delle Forze Armate statunitensi, alla mancanza di un adeguato addestramento dei piloti e, non ultimo, alle condizioni meteorologiche avverse. La pianificazione di una seconda missione di salvataggio venne autorizzata, poco dopo il primo tentativo fallito, con il nome in codice Honey Badger. Il fallimento degli elicotteri durante l'operazione Eagle Claw portò allo sviluppo di un concetto operativo differente che avrebbe dovuto coinvolgere solo velivoli ad ala fissa STOL (Short Take Off and Landing) in grado di volare dagli Stati Uniti all'Iran sf ruttando il rifornimento in volo, atterrare e decollare dall'Amjadieh Stadium dopo aver imbarcato gli ostaggi per poi atterrare su una portaerei al termine della missione. Il programma, chiamato Credible Sport, portò allo sviluppo di un Hercules modificato, l'YMC-130H che, oltre a vistose “pinne” stabilizzatrici poste davanti ai piani di coda, prevedeva l'installazione di una serie di razzi in fusoliera che teoricamente avrebbero consentito al velivolo di atterrare e decollare entro i confini dell'arena sportiva. Tre aerei furono modificati in gran segreto; il primo di essi il 29 ottobre 1980, durante una dimostrazione al Duke Field presso la Eglin Air Force Base, toccò terra duramente dopo aver azionato i razzi di frenata in anticipo. L'urto spezzò la semiala destra innescando un incendio che per fortuna si risolse senza danni per l'equipaggio.
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Il primo YMC-130H del programma Credible Sport fotografato sulla Eglin Air Force Base dopo l’incidente accaduto il 29 ottobre 1980. Republic 5, ritornato con successo dalla missione Eagle Claw, 25 L’EC-130E è stato ritirato dall'USAF nel giugno 2013 ed è ora esposto al Carolinas Aviation Museum di Charlotte, in North Carolina.
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L’arrivo degli ostaggi negli Stati Uniti nel gennaio del 1981, finalmente liberi dopo 444 giorni di prigionia.
CH-53D della Islamic Republic of Iran Navy. Due dei quattro elicotteri abbandonati dagli americani a Desert One, Bluebeard 2 e 8, furono in seguito immessi in servizio dalla Marina Militare iraniana.
Bluebeard 7 è oggi un monumento iraniano che commemora la sconfitta degli americani a Desert One.
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red
devils Abbiamo seguito in esclusiva la presentazione della Stagione 2019
Domenico Binda Massimo Dominelli
U
n'inaspettata giornata di sole, seguita ad un pomeriggio tipicamente invernale tra acqua e nebbia, ha accompagnato l'Open Day 2019 sull’aeroporto militare belga di Beauvechain, non lontano dalla capitale Brussels, e base operativa dei “Red Devils�.
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I quattro SF-260 dei Red Devils allineati al parcheggio e pronti per la messa in moto. (Ph. Domenico Binda)
red
devils Abbiamo seguito in esclusiva la presentazione della Stagione 2019
Domenico Binda Massimo Dominelli
U
n'inaspettata giornata di sole, seguita ad un pomeriggio tipicamente invernale tra acqua e nebbia, ha accompagnato l'Open Day 2019 sull’aeroporto militare belga di Beauvechain, non lontano dalla capitale Brussels, e base operativa dei “Red Devils�.
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I quattro SF-260 dei Red Devils allineati al parcheggio e pronti per la messa in moto. (Ph. Domenico Binda)
la storia dei red devils
N
el 1957, per volontà del maggiore Robert “Bobby” Bladt viene creato, nel contesto del 350° Squadron appartenente alle Force Aérienne Belge, un nuovo “demonstration team” basato sull'aeroporto militare di Chièvres presso il 7° Fighter Wing. L'aereo impiegato è lo Hawker Hunter Jet F.6. La neonata squadra si esibisce per la prima volta, ancora senza un nome ufficiale, il 12 giugno dello stesso anno a Valenciennes, in Francia, e successivamente a diversi air show europei acquisendo rapidamente una crescente notorietà. Il 10 ottobre 1959 alla manifestazione aerea di Chièvres la formazione è formata da nove velivoli che presentano la superficie inferiore delle ali e lo stabilizzatore verticale dipinti nei colori della bandiera belga. Nel medesimo anno la pattuglia viene battezzata “Red Devils”. Tra il 1961 e il 1962 i Red Devils partecipano complessivamente a 32 Air Show ma lo Stato Maggiore
La formazione iniziale dei Red Devils ai tempi dell’Hunter era di 4 velivoli con l'approvazione delle competenti Autorità, vede la luce un nuovo team battezzato “Hardship Red”, nome derivato dal callsign usato nelle comunicazioni con gli Enti di Controllo del Traffico Aereo. Non si tratta di una vera e propria pattuglia acrobatica, poiché non sono autorizzate manovre d'acrobazia, ma ha piuttosto lo scopo di dimostrare sia le qualità dell'aeroplano che la professionalità dei piloti. Gli aeroplani del team sono dipinti di giallo con l'aggiunta del logo della pattuglia sull'impennaggio di coda e del numero dell'aereo, all’interno della formazione, scritto ventralmente. Trentatré anni più tardi, nell'ottobre del 2010, in occasione dei 65 anni delle Forze Aeree belghe, i Red Devils rinascono nuovamente sulla base di Beauvechain. Gli aeroplani sono gli immortali SF-260, quattro dei quali vengono dipinti interamente di rosso con la bandiera belga sulle superfici inferiori delle ali e con una aggressiva sharkmouth sul muso, partecipando ogni anno a numerosi Air Show in vari Paesi europei oltre, naturalmente, al Belgio.
dell'Aviazione Militare belga considera la formazione troppo costosa riducendo, dal 1961, il team a solo quattro aeromobili più due di riserva. L'ultima esibizione con gli Hunter avviene il 23 giugno 1963 sempre a Chièvres. Nel 1965 per volere del maggiore Jacques ”Red” Dewaelheyns, la pattuglia si ricostituisce con sette addestratori Fouga Magister CM-170R basati a Brustem che adottano la stessa livrea utilizzata sugli Hunter oltre ad essere equipaggiati con generatori di fumo rosso, giallo e nero. I piloti provengono tutti dalla Ecole de Pilotage Avancée. La crisi petrolifera degli Anni '70 porta prima al ridimensionamento del team, ridotto a due aeroplani nel 1972, tre nel 1973 e sei nel 1974, e poi allo scioglimento definitivo nel 1977. Intanto nel 1970, un anno dopo la consegna del primo SF-260 alla Elementary Flying School, nasce in Belgio una nuova pattuglia acrobatica che utilizza due monomotori SIAI Marchetti: gli “Swallows”. Tra alterne vicende il Team proseguirà l’attività fino al 1997, anno del definitivo scioglimento. Nel 2008 una pattuglia formata da quattro SF-260 si esibisce non ufficialmente in diversi Air Show riscuotendo un grande successo e l’anno successivo,
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BART ROSSELLE
Fouga Magister CM-170R dei Red Devils
I Red Devils sui SIAI Marchetti SF-260 con la livrea adottata a partire dal 2010
la storia dei red devils
N
el 1957, per volontà del maggiore Robert “Bobby” Bladt viene creato, nel contesto del 350° Squadron appartenente alle Force Aérienne Belge, un nuovo “demonstration team” basato sull'aeroporto militare di Chièvres presso il 7° Fighter Wing. L'aereo impiegato è lo Hawker Hunter Jet F.6. La neonata squadra si esibisce per la prima volta, ancora senza un nome ufficiale, il 12 giugno dello stesso anno a Valenciennes, in Francia, e successivamente a diversi air show europei acquisendo rapidamente una crescente notorietà. Il 10 ottobre 1959 alla manifestazione aerea di Chièvres la formazione è formata da nove velivoli che presentano la superficie inferiore delle ali e lo stabilizzatore verticale dipinti nei colori della bandiera belga. Nel medesimo anno la pattuglia viene battezzata “Red Devils”. Tra il 1961 e il 1962 i Red Devils partecipano complessivamente a 32 Air Show ma lo Stato Maggiore
La formazione iniziale dei Red Devils ai tempi dell’Hunter era di 4 velivoli con l'approvazione delle competenti Autorità, vede la luce un nuovo team battezzato “Hardship Red”, nome derivato dal callsign usato nelle comunicazioni con gli Enti di Controllo del Traffico Aereo. Non si tratta di una vera e propria pattuglia acrobatica, poiché non sono autorizzate manovre d'acrobazia, ma ha piuttosto lo scopo di dimostrare sia le qualità dell'aeroplano che la professionalità dei piloti. Gli aeroplani del team sono dipinti di giallo con l'aggiunta del logo della pattuglia sull'impennaggio di coda e del numero dell'aereo, all’interno della formazione, scritto ventralmente. Trentatré anni più tardi, nell'ottobre del 2010, in occasione dei 65 anni delle Forze Aeree belghe, i Red Devils rinascono nuovamente sulla base di Beauvechain. Gli aeroplani sono gli immortali SF-260, quattro dei quali vengono dipinti interamente di rosso con la bandiera belga sulle superfici inferiori delle ali e con una aggressiva sharkmouth sul muso, partecipando ogni anno a numerosi Air Show in vari Paesi europei oltre, naturalmente, al Belgio.
dell'Aviazione Militare belga considera la formazione troppo costosa riducendo, dal 1961, il team a solo quattro aeromobili più due di riserva. L'ultima esibizione con gli Hunter avviene il 23 giugno 1963 sempre a Chièvres. Nel 1965 per volere del maggiore Jacques ”Red” Dewaelheyns, la pattuglia si ricostituisce con sette addestratori Fouga Magister CM-170R basati a Brustem che adottano la stessa livrea utilizzata sugli Hunter oltre ad essere equipaggiati con generatori di fumo rosso, giallo e nero. I piloti provengono tutti dalla Ecole de Pilotage Avancée. La crisi petrolifera degli Anni '70 porta prima al ridimensionamento del team, ridotto a due aeroplani nel 1972, tre nel 1973 e sei nel 1974, e poi allo scioglimento definitivo nel 1977. Intanto nel 1970, un anno dopo la consegna del primo SF-260 alla Elementary Flying School, nasce in Belgio una nuova pattuglia acrobatica che utilizza due monomotori SIAI Marchetti: gli “Swallows”. Tra alterne vicende il Team proseguirà l’attività fino al 1997, anno del definitivo scioglimento. Nel 2008 una pattuglia formata da quattro SF-260 si esibisce non ufficialmente in diversi Air Show riscuotendo un grande successo e l’anno successivo,
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BART ROSSELLE
Fouga Magister CM-170R dei Red Devils
I Red Devils sui SIAI Marchetti SF-260 con la livrea adottata a partire dal 2010
armstrong whitworth
aw . . 41
albemarle
Da bombardiere fallito ad aeroplano per il traino alianti
‘
Luca Parrillo
Albemarle ST Mark I serie 2, (P1514), appartenente al No. 511 Squadron della RAF, parcheggiato a Lyneham, nel Wiltshire. Uno dei sei aerei Mark I venne modificato in configurazione di trasporto "Lyneham Standard" e utilizzato sulla rotta Regno Unito-Gibilterra-Algeri.
L
A r m s t ro n g Whitworth A.W. 41 Albemarle fu un bimotore nato quale bombardiere medio in risposta alla speciďŹ ca ministeriale britannica B.9/38, poi sostituita dalla B.17/38 e dalla B.18/38, ma che non conobbe alcun impiego concreto in tale ruolo.
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armstrong whitworth
aw . . 41
albemarle
Da bombardiere fallito ad aeroplano per il traino alianti
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Luca Parrillo
Albemarle ST Mark I serie 2, (P1514), appartenente al No. 511 Squadron della RAF, parcheggiato a Lyneham, nel Wiltshire. Uno dei sei aerei Mark I venne modificato in configurazione di trasporto "Lyneham Standard" e utilizzato sulla rotta Regno Unito-Gibilterra-Algeri.
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A r m s t ro n g Whitworth A.W. 41 Albemarle fu un bimotore nato quale bombardiere medio in risposta alla speciďŹ ca ministeriale britannica B.9/38, poi sostituita dalla B.17/38 e dalla B.18/38, ma che non conobbe alcun impiego concreto in tale ruolo.
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Armstrong-Whitworth A.W. 41 Albemarle Mk.I Propulsore: · 2 radiali raffreddati ad aria Bristol Hercules XI 1.500 hp di potenza ciascuno Prestazioni: · Velocità massima: 426 km/h a 3.200 m di quota · Velocità di crociera: 273 km/h · Quota massima operativa: 5.500 m · Autonomia: 2.200 km Capacità di carico: 2.000 kg
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AEROFAN | MAG/GIU 2019
Dimensioni: · Apertura alare: 23 m · Lunghezza: 17 m · Altezza: 4,5 m · Peso a vuoto: 11,5 tonnellate Equipaggio: · 2 piloti · 1 operatore radio · 1 addetto alla navigazione · 2 mitraglieri difensivi, poi ridotti ad 1
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Armstrong-Whitworth A.W. 41 Albemarle Mk.I Propulsore: · 2 radiali raffreddati ad aria Bristol Hercules XI 1.500 hp di potenza ciascuno Prestazioni: · Velocità massima: 426 km/h a 3.200 m di quota · Velocità di crociera: 273 km/h · Quota massima operativa: 5.500 m · Autonomia: 2.200 km Capacità di carico: 2.000 kg
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Dimensioni: · Apertura alare: 23 m · Lunghezza: 17 m · Altezza: 4,5 m · Peso a vuoto: 11,5 tonnellate Equipaggio: · 2 piloti · 1 operatore radio · 1 addetto alla navigazione · 2 mitraglieri difensivi, poi ridotti ad 1
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Albemarle ST Mark V (V1762) fotografato a Hucclecote, Gloucestershire, dopo il completamento da parte della A.W. Hawkesley Ltd. Questo velivolo prestò servizio nell'Airborne Forces Experimental Establishment.
Albemarle ST Mark I serie 2 (P1475) in forza al No.511 Squadron RAF basato a Lyneham, Wiltshire.
Albemarle ST Mark I Serie 2 (P1564) Flight “C” del No. 511 Squadron, fotografato in Algeria al termine del primo volo di trasferimento di personale dalla Gran Bretagna al Nord Africa.
AEROFAN | MAG/GIU 2019
marzo 1940 il pilota Charles K. Turner-Hughes, durante una simulazione di decollo, si accorse di aver inavvertitamente percorso tutta la lunghezza della pista e fu costretto a decollare per davvero. A seguito dell'accaduto, che possiamo oggi raccontare con una certa ironia, il collaudatore riportò un giudizio abbastanza incolore del velivolo, il quale si dimostrò nel complesso mediocre, seppur privo di grandi ed insormontabili difetti, e ne venne principalmente lamentata la scarsa manovrabilità. Nel maggio del 1940 il prototipo fu trasferito presso l'aeroporto di Baginton per collaudi su pista pavimentata e qui il giudizio dei piloti divenne ancora più rigido, dato che la velocità massima raggiunta fu di soli 435 km/h, ossia inferiore a quella stimata in fase progettuale, e venne rilevato che la quota operativa praticabile non toccava i 6.000 metri. Al fine di migliorare tali scadenti prestazioni, Lloyd ed il suo gruppo di lavoro aumentarono l'apertura alare di circa 3 metri, aumentarono la dimensione degli alettoni e delle superfici mobili del timone ed introdussero una nutrita serie di aggiustamenti di dettaglio. Così modificato, nel novembre 1940 il bimotore venne preso in carico presso le installazioni di Boscombe Down per ulteriori accertamenti, che durarono fino al mese di febbraio 1941, quando l'aereo dovette tentare un atterraggio di fortuna per via del distacco di un pannello del rivestimento e finì con l'andare distrutto nell'incendio che ne seguì. L'attività di valutazione dello Albemarle poté ricominciare solamente nell'aprile del 1941, periodo in cui fu ultimato il secondo prototipo, peraltro soggetto di altri più o meno piccoli accorgimenti.
Nonostante gli intenti, anche il secondo aeroplano si rivelò scadente sotto tutti i punti di vista, con l'aggravante che la torretta ventrale aveva fatto emergere una così grave serie di turbolenze aerodinamiche che fu necessario rimuoverla. Dinnanzi a tali impietose valutazioni verrebbe da pensare che mai un aeroplano come lo Albemarle avrebbe potuto in qualche misura ottenere una minima commessa governativa. Orbene, la storia dimostrò il contrario: sotto il precipitare degli eventi, infatti, il governo richiese nel novembre 1939, ossia ben otto mesi prima della costruzione dei prototipi, la consegna di 198 apparecchi nel ruolo di bombardieri-ricognitori, cui seguì un ulteriore contratto per altri 800 aeroplani e, infine, un piano di fornitura che doveva portare il numero degli effettivi a 1.000 esemplari entro l'inizio del 1942. La spinta degli eventi fu tale che la costruzione dello Albemarle venne subappaltata a non meno di 1.000 aziende, dando vita ad un intricato groviglio di centri di lavorazione e contestuali enormi problemi di coordinamento, dato che l'inevitabile introduzione di modifiche ed aggiornamenti trasformò la filiera produttiva in qualcosa di caotico ed incoerente. Addirittura, tanto per rendere un'idea del marasma industriale creatosi attorno a questo sfortunato aeroplano, le fonti riportano testimonianze secondo cui non era raro assistere a degli accatastamenti di fusoliere parcheggiate nell'attesa di ricevere una qualche componente. Poiché era chiaro che l'apparecchio non avrebbe avuto la minima possibilità di ricoprire un qualche impiego operativo utile come bombardiere, i tecnici Armstrong Whitworth, di concerto con le istruzioni del Bomber Command, provarono a salvare il progetto adattandolo a tre distinti ruoli: traino alianti, velivolo per aviolancio di paracadutisti ed aerosilurante. Si procedette, pertanto, a ripescare il prototipo P1361 e a modificarlo per il traino aereo, nonché vennero approntati altri due modelli sperimentali, ossia il P1364 per il trasporto paracadutisti, ed il P1376 per l'impiego aeronavale: quest'ultima ipotesi, tuttavia, fu rapidamente scartata poiché il mezzo risultò essere tecnicamente inidoneo al ruolo. Si decise, quindi, di razionalizzare la produzione dello Albemarle e se ne ridussero gli ordinativi a circa 600 unità
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Alianti da assalto Airspeed Horsa al traino degli Albemarle durante i voli di addestramento in preparazione per lo sbarco in Normandia del 1944.
Albemarle ST Mark II (P1442) sul campo di Hucclecote, dopo la sua conversione da GT Mark I Serie 2 eettuata dalla A.W. Ā Hawkesley Aircraft Ltd. Prima della conversione l’aeroplano prestò servizio con il No.1404 (Meteorological) Flight e con gli Squadron No.296 e 297. In seguito volò con il No.42 Operational Training Unit a Ashbourne e fu uno dei quattro Albemarle assegnato al 42 OTU detachment a Hampstead Norreys che prese parte al “D-Day” in Normandia il 6 giugno 1944, trainando gli alianti Airspeed Horsa. L’aeroplano andò perduto nel corso delle operazioni.
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Albemarle ST Mark V (V1762) fotografato a Hucclecote, Gloucestershire, dopo il completamento da parte della A.W. Hawkesley Ltd. Questo velivolo prestò servizio nell'Airborne Forces Experimental Establishment.
Albemarle ST Mark I serie 2 (P1475) in forza al No.511 Squadron RAF basato a Lyneham, Wiltshire.
Albemarle ST Mark I Serie 2 (P1564) Flight “C” del No. 511 Squadron, fotografato in Algeria al termine del primo volo di trasferimento di personale dalla Gran Bretagna al Nord Africa.
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marzo 1940 il pilota Charles K. Turner-Hughes, durante una simulazione di decollo, si accorse di aver inavvertitamente percorso tutta la lunghezza della pista e fu costretto a decollare per davvero. A seguito dell'accaduto, che possiamo oggi raccontare con una certa ironia, il collaudatore riportò un giudizio abbastanza incolore del velivolo, il quale si dimostrò nel complesso mediocre, seppur privo di grandi ed insormontabili difetti, e ne venne principalmente lamentata la scarsa manovrabilità. Nel maggio del 1940 il prototipo fu trasferito presso l'aeroporto di Baginton per collaudi su pista pavimentata e qui il giudizio dei piloti divenne ancora più rigido, dato che la velocità massima raggiunta fu di soli 435 km/h, ossia inferiore a quella stimata in fase progettuale, e venne rilevato che la quota operativa praticabile non toccava i 6.000 metri. Al fine di migliorare tali scadenti prestazioni, Lloyd ed il suo gruppo di lavoro aumentarono l'apertura alare di circa 3 metri, aumentarono la dimensione degli alettoni e delle superfici mobili del timone ed introdussero una nutrita serie di aggiustamenti di dettaglio. Così modificato, nel novembre 1940 il bimotore venne preso in carico presso le installazioni di Boscombe Down per ulteriori accertamenti, che durarono fino al mese di febbraio 1941, quando l'aereo dovette tentare un atterraggio di fortuna per via del distacco di un pannello del rivestimento e finì con l'andare distrutto nell'incendio che ne seguì. L'attività di valutazione dello Albemarle poté ricominciare solamente nell'aprile del 1941, periodo in cui fu ultimato il secondo prototipo, peraltro soggetto di altri più o meno piccoli accorgimenti.
Nonostante gli intenti, anche il secondo aeroplano si rivelò scadente sotto tutti i punti di vista, con l'aggravante che la torretta ventrale aveva fatto emergere una così grave serie di turbolenze aerodinamiche che fu necessario rimuoverla. Dinnanzi a tali impietose valutazioni verrebbe da pensare che mai un aeroplano come lo Albemarle avrebbe potuto in qualche misura ottenere una minima commessa governativa. Orbene, la storia dimostrò il contrario: sotto il precipitare degli eventi, infatti, il governo richiese nel novembre 1939, ossia ben otto mesi prima della costruzione dei prototipi, la consegna di 198 apparecchi nel ruolo di bombardieri-ricognitori, cui seguì un ulteriore contratto per altri 800 aeroplani e, infine, un piano di fornitura che doveva portare il numero degli effettivi a 1.000 esemplari entro l'inizio del 1942. La spinta degli eventi fu tale che la costruzione dello Albemarle venne subappaltata a non meno di 1.000 aziende, dando vita ad un intricato groviglio di centri di lavorazione e contestuali enormi problemi di coordinamento, dato che l'inevitabile introduzione di modifiche ed aggiornamenti trasformò la filiera produttiva in qualcosa di caotico ed incoerente. Addirittura, tanto per rendere un'idea del marasma industriale creatosi attorno a questo sfortunato aeroplano, le fonti riportano testimonianze secondo cui non era raro assistere a degli accatastamenti di fusoliere parcheggiate nell'attesa di ricevere una qualche componente. Poiché era chiaro che l'apparecchio non avrebbe avuto la minima possibilità di ricoprire un qualche impiego operativo utile come bombardiere, i tecnici Armstrong Whitworth, di concerto con le istruzioni del Bomber Command, provarono a salvare il progetto adattandolo a tre distinti ruoli: traino alianti, velivolo per aviolancio di paracadutisti ed aerosilurante. Si procedette, pertanto, a ripescare il prototipo P1361 e a modificarlo per il traino aereo, nonché vennero approntati altri due modelli sperimentali, ossia il P1364 per il trasporto paracadutisti, ed il P1376 per l'impiego aeronavale: quest'ultima ipotesi, tuttavia, fu rapidamente scartata poiché il mezzo risultò essere tecnicamente inidoneo al ruolo. Si decise, quindi, di razionalizzare la produzione dello Albemarle e se ne ridussero gli ordinativi a circa 600 unità
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Alianti da assalto Airspeed Horsa al traino degli Albemarle durante i voli di addestramento in preparazione per lo sbarco in Normandia del 1944.
Albemarle ST Mark II (P1442) sul campo di Hucclecote, dopo la sua conversione da GT Mark I Serie 2 eettuata dalla A.W. Ā Hawkesley Aircraft Ltd. Prima della conversione l’aeroplano prestò servizio con il No.1404 (Meteorological) Flight e con gli Squadron No.296 e 297. In seguito volò con il No.42 Operational Training Unit a Ashbourne e fu uno dei quattro Albemarle assegnato al 42 OTU detachment a Hampstead Norreys che prese parte al “D-Day” in Normandia il 6 giugno 1944, trainando gli alianti Airspeed Horsa. L’aeroplano andò perduto nel corso delle operazioni.
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Albemarle, nonché il danneggiamento di numerosi altri apparecchi. Una volta consolidato lo sbarco Alleato, comunque, il 296° Sqn. venne ricollocato a Cassibile (SR) e qui il bimotore pare sia stato impiegato per missioni di aviolancio di commando (i cosiddetti SAS) nell'entroterra dietro le linee nemiche. Le condizioni operative italiane, tuttavia, si rivelarono molto severe per lo Albemarle, il quale soffriva un elevato rateo di usura a causa dei materiali lignei impiegati nella sua costruzione, ed il numero di bimotori in condizioni di volo rimase sempre piuttosto limitato. Successivamente nell'ottobre del 1943 lo stormo venne richiamato ad Hurn per essere poi schierato a Brize Norton, dove si diede inizio alla pianificazion e logistica ed
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all'addestramento degli equipaggi in vista dell'imminente DDay. A questo punto della vicenda, il numero di A.W. 41 in servizio attivo crebbe esponenzialmente e l'aeroplano finì con l'equipaggiare anche il 295° Sqn., il 297° Sqn., il 570° Sqn. ed il 161° Sqn, quest'ultimo dedito a missioni segrete per infiltrare agenti speciali nei territori sotto controllo tedesco. Lo sbarco in Normandia manifestò finalmente l'importanza tattica e strategica dell'Armstrong Whitworth A.W. 41, il quale conobbe un intenso e fondamentale impiego nel continuo traino di alianti sulle zone dei combattimenti, fino a divenire una pedina straordinariamente importante nelle concitate fasi di quel cruciale momento storico. Sulla scorta delle capacità operative dimostrate nel nord
della Francia, l'aeroplano fu scelto quale naturale aero-traino per le truppe aviotrasportate che vennero lanciate nella fallimentare operazione “Market Garden”, ossia l'assalto aereo e la tentata conquista dei ponti strategici olandesi del settembre 1944. Davanti all'insuccesso del piano, i comandi Alleati ridimensionarono fortemente il ruolo degli attacchi di massa in regime di aviolancio e, conseguentemente, lo A.W. 41 divenne pressoché inutile: già entro la fine del '44, infatti, la carriera dell'aeroplano iniziò a spegnersi, gli esemplari sopravvissuti vennero progressivamente ritirati dai reparti per essere poi demoliti senza grandi cerimonie dopo la fine delle ostilità. Va ricordato che l'Albemarle ebbe occasione di prestare servizio anche con le forze armate sovietiche, le quali nel 1942 si
erano rivolte al governo britannico per la fornitura di velivoli da trasporto. In tale ottica, nell'ottobre del 1942 era stato siglato un accordo di massima per la consegna di 100 esemplari A.W. 41, per i quali, nel gennaio 1943, furono anche ospitati alcuni equipaggi sovietici presso il centro di addestramento di Errol, in Scozia. L'interesse russo, tuttavia, andò rapidamente scemando ed alla fine la fornitura si limitò alla consegna di soli 14 esemplari, di fatto regalati dalla R.A.F. in segno di amicizia: del destino di tali aeroplani si conosce poco, tranne che un apparecchio si schiantò in Scozia durante l'addestramento, altri due andarono perduti nel volo di trasferimento in Unione Sovietica e che i restanti bimotori vennero limitatamente usati sulle tratte interne con compiti di collegamento e trasporto.
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Albemarle, nonché il danneggiamento di numerosi altri apparecchi. Una volta consolidato lo sbarco Alleato, comunque, il 296° Sqn. venne ricollocato a Cassibile (SR) e qui il bimotore pare sia stato impiegato per missioni di aviolancio di commando (i cosiddetti SAS) nell'entroterra dietro le linee nemiche. Le condizioni operative italiane, tuttavia, si rivelarono molto severe per lo Albemarle, il quale soffriva un elevato rateo di usura a causa dei materiali lignei impiegati nella sua costruzione, ed il numero di bimotori in condizioni di volo rimase sempre piuttosto limitato. Successivamente nell'ottobre del 1943 lo stormo venne richiamato ad Hurn per essere poi schierato a Brize Norton, dove si diede inizio alla pianificazion e logistica ed
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all'addestramento degli equipaggi in vista dell'imminente DDay. A questo punto della vicenda, il numero di A.W. 41 in servizio attivo crebbe esponenzialmente e l'aeroplano finì con l'equipaggiare anche il 295° Sqn., il 297° Sqn., il 570° Sqn. ed il 161° Sqn, quest'ultimo dedito a missioni segrete per infiltrare agenti speciali nei territori sotto controllo tedesco. Lo sbarco in Normandia manifestò finalmente l'importanza tattica e strategica dell'Armstrong Whitworth A.W. 41, il quale conobbe un intenso e fondamentale impiego nel continuo traino di alianti sulle zone dei combattimenti, fino a divenire una pedina straordinariamente importante nelle concitate fasi di quel cruciale momento storico. Sulla scorta delle capacità operative dimostrate nel nord
della Francia, l'aeroplano fu scelto quale naturale aero-traino per le truppe aviotrasportate che vennero lanciate nella fallimentare operazione “Market Garden”, ossia l'assalto aereo e la tentata conquista dei ponti strategici olandesi del settembre 1944. Davanti all'insuccesso del piano, i comandi Alleati ridimensionarono fortemente il ruolo degli attacchi di massa in regime di aviolancio e, conseguentemente, lo A.W. 41 divenne pressoché inutile: già entro la fine del '44, infatti, la carriera dell'aeroplano iniziò a spegnersi, gli esemplari sopravvissuti vennero progressivamente ritirati dai reparti per essere poi demoliti senza grandi cerimonie dopo la fine delle ostilità. Va ricordato che l'Albemarle ebbe occasione di prestare servizio anche con le forze armate sovietiche, le quali nel 1942 si
erano rivolte al governo britannico per la fornitura di velivoli da trasporto. In tale ottica, nell'ottobre del 1942 era stato siglato un accordo di massima per la consegna di 100 esemplari A.W. 41, per i quali, nel gennaio 1943, furono anche ospitati alcuni equipaggi sovietici presso il centro di addestramento di Errol, in Scozia. L'interesse russo, tuttavia, andò rapidamente scemando ed alla fine la fornitura si limitò alla consegna di soli 14 esemplari, di fatto regalati dalla R.A.F. in segno di amicizia: del destino di tali aeroplani si conosce poco, tranne che un apparecchio si schiantò in Scozia durante l'addestramento, altri due andarono perduti nel volo di trasferimento in Unione Sovietica e che i restanti bimotori vennero limitatamente usati sulle tratte interne con compiti di collegamento e trasporto.
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Le avventure di un S.55 destinato all’immortalità
Luciano Pontolillo
È
Lo Jahù al termine della trasvolata atlantica ammara a Natal, in Brasile. (illustrazione di Elena Stanilevich via Dora Wings)
il pomeriggio del 28 aprile 1927: un rombo di motore rompe il silenzio al largo dell'arcipelago di Fernando di Noronha, in Brasile, e un rosso idrovolante Savoia Marchetti S.55 appare all'orizzonte. Punta verso la terraferma ma improvvisamente, tradito da un'elica, il velivolo è costretto all’ammaraggio.
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Le avventure di un S.55 destinato all’immortalità
Luciano Pontolillo
È
Lo Jahù al termine della trasvolata atlantica ammara a Natal, in Brasile. (illustrazione di Elena Stanilevich via Dora Wings)
il pomeriggio del 28 aprile 1927: un rombo di motore rompe il silenzio al largo dell'arcipelago di Fernando di Noronha, in Brasile, e un rosso idrovolante Savoia Marchetti S.55 appare all'orizzonte. Punta verso la terraferma ma improvvisamente, tradito da un'elica, il velivolo è costretto all’ammaraggio.
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L’S.55 Jahù alla fonda. Dal confronto con le foto dell’Alcione è evidente il completo rifacimento degli scafi, che ora sono simili a quelli disegnati per gli S.55M (Militare). Alcune fonti ritengono che la foto sia stata realizzata prima dell’applicazione sugli scafi delle scritte “Vou ali“ e “Ja volto”, mentre altre riportano che la finitura inizialmente lucida dello Jahù si sarebbe opacizzata con il concludersi della crociera e che le scritte sugli scafi sarebbero altresì scomparse, il che porterebbe a ritenere che l’immagine sia stata scattata già in sudamerica
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AEROFAN | MAG/GIU 2019
Gibilterra, 19 ottobre 1926. Dopo la disavventura occorsa ad Alicante,l’equipaggio dello Jahù eettua rifornimento e, soprattutto, la revisione dei motori Isotta Ā Fraschini in vista della tappa successiva verso le isole Canarie.
ARCHIVIO MUSEO TAM ARCHIVIO MUSEO TAM
Casablanca, 27 dicembre 1925. Le prime luci dell’alba rivelano il disastro avvenuto nella notte: la tempesta che si è abbattuta sul porto ha gravemente danneggiato l’Alcione compromettendo l’impresa dell’Onorevole Casagrande.
S.I.A.I. non soddisfa la richiesta del pilota brasiliano; si giunge infine alla decisione di utilizzare, con opportune modifiche, proprio l'Alcione fermo a Sant'Anna. Vengono sostituiti i motori e gli scafi originali caratteristici del prototipo e dei primi esemplari vengono rinforzati e migliorati, così come vengono rivisti l'impianto del carburante ed altri sistemi di bordo. Tra le modifiche richieste espressamente da de Barros figurano la quasi completa eliminazione dell'impianto radio e l'ulteriore incremento dei serbatoi di carburante per portare l'autonomia a 16 ore, necessarie per supportare la più lunga tratta del raid, di oltre 2.400 chilometri, da Port Praia (Capo Verde) a Fernando de Noronha. Nell'agosto del 1926 avviene il battesimo ufficiale dell'idrovolante, che ora reca l'immatricolazione I-BAUQ ed il numero di costruzione 10509. L'S.55 riporta rispettivamente sugli scafi destro e sinistro le frasi beneauguranti “vou ali” e “ja volto”, una sorta di “vado e torno”, mentre il nome “Jahù” è un omaggio alla città natale di de Barros. Il 13 ottobre l'impresa ha inizio con il trasferimento dell'idrovolante da Sesto Calende a Genova. Il 17 l'aereo decolla per la prima tappa del raid, ma dopo solo cinque ore di volo il funzionamento incerto dei motori costringe de Barros ad ammarare ad Alicante; qui le autorità spagnole, all'oscuro del volo, arrestano l'equipaggio ritenendoli nulla di meno che contrabbandieri. Liberati grazie al deciso intervento dell'ambasciatore brasiliano i quattro si pongono alacremente al lavoro per riparare i motori e riprendere il viaggio. Giunto a Gibilterra, mentre vengono revisionati i propulsori Isotta Fraschini, de Barros prepara il lungo volo verso Puerto de la Luz, distante 1.320 chilometri. Il 25 ottobre, dopo un volo di oltre 7 ore, le isole Canarie vengono regolarmente raggiunte. Ulteriori problemi ai motori richiedono uno scalo intermedio alle isole Fogo durante la successiva tratta verso Port Praia ma, nel porto di Capo Verde, mentre lo Jahù viene tirato in secca per la manutenzione, la mancanza di infrastrutture e attrezzature adatte provoca danni tali agli scafi da costringere ad una sosta che si protrarrà per quasi sei mesi. In questo tempo il navigatore Braga deve tornare in Italia per reperire il materiale necessario alle riparazioni e, soprattutto, un maestro d'ascia in grado di eseguirle. Durante la sosta forzata, un contrasto tra il comandante de Barros e il secondo pilota Chuna provoca inoltre la sostituzione di quest'ultimo con il sottotenente della Sao Paulo State Police Aviation Joao Negrao. Il 28 aprile 1927 l'aereo è nuovamente in condizioni di volo e lo ritroviamo, dopo 13 ore e 30 minuti di volo a 250 metri di quota ed alla velocità di 190 km/h, ammarato in emergenza per il danneggiamento dell'elica e al traino del mercantile italiano “Angelo Tosi”. Il 5 luglio lo Jahù saluta finalmente Rio de Janeiro, raggiunta con scali intermedi a Natal, Recife e Salvador e, il 1 agosto, con l'arrivo al lago Santo Amaro di San Paolo si conclude finalmente l'odissea dell'equipaggio che riceve il meritato trionfo per la riuscita dell'impresa. Le avventure dell'Alcione/Jahù, però, non finiscono qui: esposto inizialmente nel museo dell'Ipiranga, viene successivamente trasferito nel museo della Fondazione Santos Dumont del parco Ibirapuera. Nel 1999, in occasione dei preparativi per i 500 anni della scoperta del Brasile, è necessario rimuovere il velivolo e si decide di tagliarlo a pezzi per portarlo fuori dal museo. Il colonnello della Polizia Militare Octacilio Soares de Lima, venuto a conoscenza della cosa, decide di intervenire per salvare il velivolo e ne organizza smontaggio e trasferimento presso un hangar della Polizia Militare, iniziando una battaglia burocratica per procedere con il restauro. Nel frattempo, a complicare le cose ci si è messa una causa legale intentata dalla famiglia de Barros nel tentativo di recuperare la proprietà dell'S.55, ma senza successo. Alla fine del 2000 finalmente giunge dal Tribunale una prima autorizzazione a procedere con il restauro, integrata nel 2001 dall'autorizzazione rilasciata dall'ente proposto alla tutela del
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periodo dell'anno, caratterizzato da condizioni meteorologiche sfavorevoli. Ulteriore beffa del destino, tra il 22 e il 31 gennaio 1926 gli spagnoli Franco e de Alda a bordo di un idrovolante Dornier Wal riescono a compiere la trasvolata negata all'Alcione. L'idrovolante ritorna mestamente negli stabilimenti della S.I.A.I. Marchetti ma evidentemente il destino ha riservato altre sorprese per l'Alcione; nel 1926 il pilota brasiliano Joao Ribeiro de Barros costituisce un equipaggio composto dal capitano Newton Braga, dal sottotenente Arthur Cunha e dal meccanico Vasco Cinquini con lo scopo di compiere una trasvolata dall'Italia al Brasile. De Barros, dopo aver venduto la sua eredità, si reca a Sesto Calende per acquistare un S.55. Non è chiaro se la Ditta non ha in quel momento velivoli disponibili o se per qualche motivo è restia alla vendita, fatto sta che inizialmente la
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Lo Jahù fotografato negli Anni ‘90 prima di essere sottoposto a restauro conservativo.
Il team di restauro al lavoro sulla parte centrale dell’ala durante i lavori che hanno visto la rimozione del rivestimento in compensato per il successivo controllo e ripristino della struttura interna.
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L’S.55 Jahù alla fonda. Dal confronto con le foto dell’Alcione è evidente il completo rifacimento degli scafi, che ora sono simili a quelli disegnati per gli S.55M (Militare). Alcune fonti ritengono che la foto sia stata realizzata prima dell’applicazione sugli scafi delle scritte “Vou ali“ e “Ja volto”, mentre altre riportano che la finitura inizialmente lucida dello Jahù si sarebbe opacizzata con il concludersi della crociera e che le scritte sugli scafi sarebbero altresì scomparse, il che porterebbe a ritenere che l’immagine sia stata scattata già in sudamerica
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Gibilterra, 19 ottobre 1926. Dopo la disavventura occorsa ad Alicante,l’equipaggio dello Jahù eettua rifornimento e, soprattutto, la revisione dei motori Isotta Ā Fraschini in vista della tappa successiva verso le isole Canarie.
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Casablanca, 27 dicembre 1925. Le prime luci dell’alba rivelano il disastro avvenuto nella notte: la tempesta che si è abbattuta sul porto ha gravemente danneggiato l’Alcione compromettendo l’impresa dell’Onorevole Casagrande.
S.I.A.I. non soddisfa la richiesta del pilota brasiliano; si giunge infine alla decisione di utilizzare, con opportune modifiche, proprio l'Alcione fermo a Sant'Anna. Vengono sostituiti i motori e gli scafi originali caratteristici del prototipo e dei primi esemplari vengono rinforzati e migliorati, così come vengono rivisti l'impianto del carburante ed altri sistemi di bordo. Tra le modifiche richieste espressamente da de Barros figurano la quasi completa eliminazione dell'impianto radio e l'ulteriore incremento dei serbatoi di carburante per portare l'autonomia a 16 ore, necessarie per supportare la più lunga tratta del raid, di oltre 2.400 chilometri, da Port Praia (Capo Verde) a Fernando de Noronha. Nell'agosto del 1926 avviene il battesimo ufficiale dell'idrovolante, che ora reca l'immatricolazione I-BAUQ ed il numero di costruzione 10509. L'S.55 riporta rispettivamente sugli scafi destro e sinistro le frasi beneauguranti “vou ali” e “ja volto”, una sorta di “vado e torno”, mentre il nome “Jahù” è un omaggio alla città natale di de Barros. Il 13 ottobre l'impresa ha inizio con il trasferimento dell'idrovolante da Sesto Calende a Genova. Il 17 l'aereo decolla per la prima tappa del raid, ma dopo solo cinque ore di volo il funzionamento incerto dei motori costringe de Barros ad ammarare ad Alicante; qui le autorità spagnole, all'oscuro del volo, arrestano l'equipaggio ritenendoli nulla di meno che contrabbandieri. Liberati grazie al deciso intervento dell'ambasciatore brasiliano i quattro si pongono alacremente al lavoro per riparare i motori e riprendere il viaggio. Giunto a Gibilterra, mentre vengono revisionati i propulsori Isotta Fraschini, de Barros prepara il lungo volo verso Puerto de la Luz, distante 1.320 chilometri. Il 25 ottobre, dopo un volo di oltre 7 ore, le isole Canarie vengono regolarmente raggiunte. Ulteriori problemi ai motori richiedono uno scalo intermedio alle isole Fogo durante la successiva tratta verso Port Praia ma, nel porto di Capo Verde, mentre lo Jahù viene tirato in secca per la manutenzione, la mancanza di infrastrutture e attrezzature adatte provoca danni tali agli scafi da costringere ad una sosta che si protrarrà per quasi sei mesi. In questo tempo il navigatore Braga deve tornare in Italia per reperire il materiale necessario alle riparazioni e, soprattutto, un maestro d'ascia in grado di eseguirle. Durante la sosta forzata, un contrasto tra il comandante de Barros e il secondo pilota Chuna provoca inoltre la sostituzione di quest'ultimo con il sottotenente della Sao Paulo State Police Aviation Joao Negrao. Il 28 aprile 1927 l'aereo è nuovamente in condizioni di volo e lo ritroviamo, dopo 13 ore e 30 minuti di volo a 250 metri di quota ed alla velocità di 190 km/h, ammarato in emergenza per il danneggiamento dell'elica e al traino del mercantile italiano “Angelo Tosi”. Il 5 luglio lo Jahù saluta finalmente Rio de Janeiro, raggiunta con scali intermedi a Natal, Recife e Salvador e, il 1 agosto, con l'arrivo al lago Santo Amaro di San Paolo si conclude finalmente l'odissea dell'equipaggio che riceve il meritato trionfo per la riuscita dell'impresa. Le avventure dell'Alcione/Jahù, però, non finiscono qui: esposto inizialmente nel museo dell'Ipiranga, viene successivamente trasferito nel museo della Fondazione Santos Dumont del parco Ibirapuera. Nel 1999, in occasione dei preparativi per i 500 anni della scoperta del Brasile, è necessario rimuovere il velivolo e si decide di tagliarlo a pezzi per portarlo fuori dal museo. Il colonnello della Polizia Militare Octacilio Soares de Lima, venuto a conoscenza della cosa, decide di intervenire per salvare il velivolo e ne organizza smontaggio e trasferimento presso un hangar della Polizia Militare, iniziando una battaglia burocratica per procedere con il restauro. Nel frattempo, a complicare le cose ci si è messa una causa legale intentata dalla famiglia de Barros nel tentativo di recuperare la proprietà dell'S.55, ma senza successo. Alla fine del 2000 finalmente giunge dal Tribunale una prima autorizzazione a procedere con il restauro, integrata nel 2001 dall'autorizzazione rilasciata dall'ente proposto alla tutela del
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periodo dell'anno, caratterizzato da condizioni meteorologiche sfavorevoli. Ulteriore beffa del destino, tra il 22 e il 31 gennaio 1926 gli spagnoli Franco e de Alda a bordo di un idrovolante Dornier Wal riescono a compiere la trasvolata negata all'Alcione. L'idrovolante ritorna mestamente negli stabilimenti della S.I.A.I. Marchetti ma evidentemente il destino ha riservato altre sorprese per l'Alcione; nel 1926 il pilota brasiliano Joao Ribeiro de Barros costituisce un equipaggio composto dal capitano Newton Braga, dal sottotenente Arthur Cunha e dal meccanico Vasco Cinquini con lo scopo di compiere una trasvolata dall'Italia al Brasile. De Barros, dopo aver venduto la sua eredità, si reca a Sesto Calende per acquistare un S.55. Non è chiaro se la Ditta non ha in quel momento velivoli disponibili o se per qualche motivo è restia alla vendita, fatto sta che inizialmente la
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Lo Jahù fotografato negli Anni ‘90 prima di essere sottoposto a restauro conservativo.
Il team di restauro al lavoro sulla parte centrale dell’ala durante i lavori che hanno visto la rimozione del rivestimento in compensato per il successivo controllo e ripristino della struttura interna.
AEROFAN | MAG/GIU 2019
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avuto il suo epilogo con un meritato e tranquillo riposo, dal Brasile è giunta notizia della chiusura del Museo dell'Aeronautica, con grande incertezza sul destino dello S.55 che, lo ricordiamo, è un pezzo unico al mondo. Ci auguriamo che dopo essere sopravvissuto a fortunali, avarie e tentativi di farlo a pezzi, lo Jahù sappia ancora una volta trarsi d'impaccio e superare l'ennesima prova della sua lunga e intensa vita.
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Lo Jahù durante le fasi del restauro iniziato nel 2001 che si è svolto in un hangar della Polizia Militare a San Paolo.
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Una volta terminato il restauro lo Jahù è stato riassemblato nel Museo dell’Aeronautica di San Paolo.
AEROFAN | MAG/GIU 2019
E veniamo alla disamina dello Jahù in scala 1:72 della Dora Wings. Il modello, gradevolissimo, comprende 186 parti in plastica, 29 parti fotoincise, e 2 motori in resina, oltre al foglio decals molto preciso e completo e alle istruzioni dettagliate. Come detto in apertura dell’articolo, le decals incluse nella scatola permettono la realizzazione di quattro S.55: il Santa Maria I e II di De Pinedo, l’Alcione di Casagrande e lo Jahù. Precisiamo subito, per coloro che volessero realizzare l'Alcione, che gli scafi del kit andranno in buona parte rimodellati in quanto nella realtà erano completamente differenti da quelli del Santa Maria e dello Jahù. Anche nel caso si scelga di realizzare il Santa Maria II, andrà aggiunta la scritta “Post fata resurgo” che si trovava davanti alla cabina di pilotaggio. Dalle fotografie gentilmente fornite da Dora Wings, il risultato finale è decisamente convincente; a prima vista ci sembra che le forme dell'S.55 siano state “catturate” in maniera egregia. Per i cultori della personalizzazione ricordiamo infine che, con poche variazioni, è possibile riprodurre anche il famoso S.55 I-SAAT con il quale Umberto Maddalena condusse le ricerche del dirigibile Italia al Polo Nord, ricerche che si conclusero proprio con l'avvistamento dei sopravvissuti da parte del pilota italiano il 20 giugno 1928. Ora non resta che attendere l'arrivo dell'S.55 nei negozi di modellismo...
DORA WINGS
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DORA WINGS
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ARCHIVIO MUSEO TAM
patrimonio storico brasiliano (CONDEFAT). Il restauro, portato avanti tra mille difficoltà, è costato circa due milioni di dollari dei quali 300.000 destinati al restauro vero e proprio e i rimanenti utilizzati per la costruzione di uno spazio culturale con auditorium multimediale all'interno del Museo dell'Aeronautica di San Paolo. Quando sembrava che la vita avventurosa dello Jahù avesse
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avuto il suo epilogo con un meritato e tranquillo riposo, dal Brasile è giunta notizia della chiusura del Museo dell'Aeronautica, con grande incertezza sul destino dello S.55 che, lo ricordiamo, è un pezzo unico al mondo. Ci auguriamo che dopo essere sopravvissuto a fortunali, avarie e tentativi di farlo a pezzi, lo Jahù sappia ancora una volta trarsi d'impaccio e superare l'ennesima prova della sua lunga e intensa vita.
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Lo Jahù durante le fasi del restauro iniziato nel 2001 che si è svolto in un hangar della Polizia Militare a San Paolo.
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Una volta terminato il restauro lo Jahù è stato riassemblato nel Museo dell’Aeronautica di San Paolo.
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E veniamo alla disamina dello Jahù in scala 1:72 della Dora Wings. Il modello, gradevolissimo, comprende 186 parti in plastica, 29 parti fotoincise, e 2 motori in resina, oltre al foglio decals molto preciso e completo e alle istruzioni dettagliate. Come detto in apertura dell’articolo, le decals incluse nella scatola permettono la realizzazione di quattro S.55: il Santa Maria I e II di De Pinedo, l’Alcione di Casagrande e lo Jahù. Precisiamo subito, per coloro che volessero realizzare l'Alcione, che gli scafi del kit andranno in buona parte rimodellati in quanto nella realtà erano completamente differenti da quelli del Santa Maria e dello Jahù. Anche nel caso si scelga di realizzare il Santa Maria II, andrà aggiunta la scritta “Post fata resurgo” che si trovava davanti alla cabina di pilotaggio. Dalle fotografie gentilmente fornite da Dora Wings, il risultato finale è decisamente convincente; a prima vista ci sembra che le forme dell'S.55 siano state “catturate” in maniera egregia. Per i cultori della personalizzazione ricordiamo infine che, con poche variazioni, è possibile riprodurre anche il famoso S.55 I-SAAT con il quale Umberto Maddalena condusse le ricerche del dirigibile Italia al Polo Nord, ricerche che si conclusero proprio con l'avvistamento dei sopravvissuti da parte del pilota italiano il 20 giugno 1928. Ora non resta che attendere l'arrivo dell'S.55 nei negozi di modellismo...
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patrimonio storico brasiliano (CONDEFAT). Il restauro, portato avanti tra mille difficoltà, è costato circa due milioni di dollari dei quali 300.000 destinati al restauro vero e proprio e i rimanenti utilizzati per la costruzione di uno spazio culturale con auditorium multimediale all'interno del Museo dell'Aeronautica di San Paolo. Quando sembrava che la vita avventurosa dello Jahù avesse
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Mentre era ormai evidente che al momento gli americani non potessero far altro che rincorrere i primati dell'avversario Sergej Korolev, capo del programma spaziale sovietico, decise di inviare nello spazio una donna: l'Unione Sovietica doveva essere la prima potenza al mondo anche in questo campo. La ricerca di una candidata iniziò alla fine del 1961 e, oltre ai requisiti fisici (età fino a 30 anni, altezza fino a 170 centimetri e peso non oltre 70 chili), le candidate avrebbero dovuto essere preferibilmente delle paracadutiste. Questo perché il profilo di missione prevedeva che la cosmonauta avrebbe dovuto eiettarsi durante la discesa della navicella nell'atmosfera terrestre e infine atterrare con il paracadute, e non si voleva
Aero Club di Yaroslavl, 1 giugno 1964. Valentina Tereškova fotografata in occasione di uno dei suoi primi lanci con il paracadute.
La Tereškova durante la fase addestrativa propedeutica alla sua missione del 16 giugno 1963.
ARCHIVIO SERVADEI
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scopo una delle ragazze più resistenti secondo il parere dei medici, ovvero la Solov'ëva o la Ponomarëva. Queste diventarono invece le riserve di Valentina; ogni cosmonauta sovietico aveva una riserva e, nel caso del primo volo di una donna nello spazio, vista la complessità del corpo femminile, si decise di assicurare alla Tereškova ben due sostitute. Valentina Vladimirovna Tereškova era nata a Bol'šoe Maslennikovo, nei pressi di Jaroslavl' sul fiume Volga, in una famiglia bielorussa il 6 marzo 1937. Il padre era un carrista caduto durante la guerra russo-finnica e per questo motivo Valentina ebbe un'infanzia difficile. Da giovane per sette anni svolse la professione di sarta e stiratrice all'interno di un'azienda produttrice di filo da cucito, frequentando nel contempo i corsi serali per diventare tecnica, diploma che conseguì nel 1960.
4
Pur mantenendo un alto grado di segretezza sulla missione, Valentina Tereškova fu oggetto di numerose sessioni fotografiche a scopo propagandistico durante il suo addestramento.
successivamente in un'azienda produttrice di filo da cucito, era la candidata ideale. Nonostante ciò i medici che visitarono le ragazze si dichiararono orientati a dare la priorità ad altre candidate, ad esempio Irina Solov'ëva, campionessa sportiva e paracadutista con oltre 700 lanci al suo attivo. Ma l'ultima parola fu di Chruščëv, e infine fu scelta Valentina. Alcuni ritengono che Korolev avesse pianificato un'ulteriore missione svolta da una cosmonauta che avrebbe previsto un'uscita nello spazio aperto e, per questo motivo, si sarebbe riservato di scegliere a tale
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perdere tempo prezioso con l'addestramento relativo a questo aspetto della missione. Alle selezioni si presentarono circa cinquanta candidate, infine ridotte a cinque; tra le finaliste, oltre a Žanna Ёrkina, Tat'jana Kuznecova, Valentina Ponomarëva e Irina Solov'ëva, c'era Valentina Vladimirovna Tereškova. Valentina praticava il paracadutismo dal 1959 presso l'aeroclub di Jaroslav e, al momento della selezione, aveva già effettuato circa 90 lanci. Per non creare malumori nel gruppo, Korolev promise alle cinque finaliste che prima o poi tutte loro sarebbero partite, mentre in realtà il programma spaziale sovietico prevedeva che una sola donna sarebbe andata nello Spazio. Nikita Chruščëv, cui spettava l'approvazione finale nella scelta della candidata, voleva ovviamente che la prima cosmonauta fosse una “ragazza del popolo”. Sotto questo punto di vista Valentina, nata in un villaggio, orfana di padre morto durante la Seconda Guerra Mondiale, operaia in una fabbrica di pneumatici e
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AEROFAN | MAG/GIU MAR/APR2019 2019
Valentina e Sergej Korolev, direttore del programma spaziale sovietico.
ARCHIVIO MERIGO
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Valentina Tereškova mentre viene sottoposta ad un controllo dei suoi parametri vitali durante l’addestramento.
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Mentre era ormai evidente che al momento gli americani non potessero far altro che rincorrere i primati dell'avversario Sergej Korolev, capo del programma spaziale sovietico, decise di inviare nello spazio una donna: l'Unione Sovietica doveva essere la prima potenza al mondo anche in questo campo. La ricerca di una candidata iniziò alla fine del 1961 e, oltre ai requisiti fisici (età fino a 30 anni, altezza fino a 170 centimetri e peso non oltre 70 chili), le candidate avrebbero dovuto essere preferibilmente delle paracadutiste. Questo perché il profilo di missione prevedeva che la cosmonauta avrebbe dovuto eiettarsi durante la discesa della navicella nell'atmosfera terrestre e infine atterrare con il paracadute, e non si voleva
Aero Club di Yaroslavl, 1 giugno 1964. Valentina Tereškova fotografata in occasione di uno dei suoi primi lanci con il paracadute.
La Tereškova durante la fase addestrativa propedeutica alla sua missione del 16 giugno 1963.
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scopo una delle ragazze più resistenti secondo il parere dei medici, ovvero la Solov'ëva o la Ponomarëva. Queste diventarono invece le riserve di Valentina; ogni cosmonauta sovietico aveva una riserva e, nel caso del primo volo di una donna nello spazio, vista la complessità del corpo femminile, si decise di assicurare alla Tereškova ben due sostitute. Valentina Vladimirovna Tereškova era nata a Bol'šoe Maslennikovo, nei pressi di Jaroslavl' sul fiume Volga, in una famiglia bielorussa il 6 marzo 1937. Il padre era un carrista caduto durante la guerra russo-finnica e per questo motivo Valentina ebbe un'infanzia difficile. Da giovane per sette anni svolse la professione di sarta e stiratrice all'interno di un'azienda produttrice di filo da cucito, frequentando nel contempo i corsi serali per diventare tecnica, diploma che conseguì nel 1960.
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Pur mantenendo un alto grado di segretezza sulla missione, Valentina Tereškova fu oggetto di numerose sessioni fotografiche a scopo propagandistico durante il suo addestramento.
successivamente in un'azienda produttrice di filo da cucito, era la candidata ideale. Nonostante ciò i medici che visitarono le ragazze si dichiararono orientati a dare la priorità ad altre candidate, ad esempio Irina Solov'ëva, campionessa sportiva e paracadutista con oltre 700 lanci al suo attivo. Ma l'ultima parola fu di Chruščëv, e infine fu scelta Valentina. Alcuni ritengono che Korolev avesse pianificato un'ulteriore missione svolta da una cosmonauta che avrebbe previsto un'uscita nello spazio aperto e, per questo motivo, si sarebbe riservato di scegliere a tale
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perdere tempo prezioso con l'addestramento relativo a questo aspetto della missione. Alle selezioni si presentarono circa cinquanta candidate, infine ridotte a cinque; tra le finaliste, oltre a Žanna Ёrkina, Tat'jana Kuznecova, Valentina Ponomarëva e Irina Solov'ëva, c'era Valentina Vladimirovna Tereškova. Valentina praticava il paracadutismo dal 1959 presso l'aeroclub di Jaroslav e, al momento della selezione, aveva già effettuato circa 90 lanci. Per non creare malumori nel gruppo, Korolev promise alle cinque finaliste che prima o poi tutte loro sarebbero partite, mentre in realtà il programma spaziale sovietico prevedeva che una sola donna sarebbe andata nello Spazio. Nikita Chruščëv, cui spettava l'approvazione finale nella scelta della candidata, voleva ovviamente che la prima cosmonauta fosse una “ragazza del popolo”. Sotto questo punto di vista Valentina, nata in un villaggio, orfana di padre morto durante la Seconda Guerra Mondiale, operaia in una fabbrica di pneumatici e
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Valentina e Sergej Korolev, direttore del programma spaziale sovietico.
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Valentina Tereškova mentre viene sottoposta ad un controllo dei suoi parametri vitali durante l’addestramento.
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Anche l'atterraggio risultò particolarmente critico a causa del fatto che, una volta espulsa dalla capsula, Valentina si accorse di sorvolare un lago; questo era un pericolo per il paracadute, inoltre la cosmonauta non era sicura che le forze le sarebbero bastate per rimanere a galla dopo quel volo logorante (i cosmonauti non erano dotati di salvagente). Fortunatamente, alla fine Valentina superò il lago e riuscì a toccare terra nelle vicinanze di Novosibirsk: dal momento del lancio erano trascorsi due giorni, 22 ore e 41 minuti, la cosmonauta aveva compiuto 48 giri intorno alla terra e percorso quasi due milioni di chilometri. Seguirono i filmati ufficiali del rientro e grandi festeggiamenti ebbero luogo in tutto il Paese. In realtà i filmati che mostrano il momento dell'atterraggio della navicella
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12
Dopo la riuscita della missione Vostok 6, le fotografie che ritraevano insieme la Tereškova e Gagarin diventarono all’ordine del giorno.
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Valentina Tereškova con la figlia Alyona, nata nel 1964.
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Valentina Tereškova in visita alla manifattura tessile "Krasniy Perekop" dove lavorava come tessitrice prima di diventare cosmonauta.
vennero registrati soltanto il giorno seguente il ritorno della Tereškova sulla Terra, in quanto le pessime condizioni della ragazza al momento del rientro ne consigliarono l'immediato ricovero in ospedale. Pochi giorni dopo a Mosca, Nikita Chruščëv conferì a Valentina il titolo onorifico di Pilota Cosmonauta dell'Unione Sovietica. La popolarità della Tereškova negli anni successivi la sua impresa spaziale fu grande e nel novembre del 1963 il suo matrimonio con Andrijan Grigor'evič Nikolaev, il cosmonauta che aveva partecipato alla missione Vostok 3, venne celebrato a Mosca e seguito con molta enfasi dai media sovietici.
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AEROFAN | MAG/GIU 2019
I “primi due”, pluridecorati cosmonauti dell’Unione Sovietica Jurij Gagarin e Valentina Tereškova.
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16 giugno 2018. Vladimir Putin incontra al Cremlino Valentina Tereškova in occasione del 55° anniversario del suo volo nello spazio.
Il segretario del Partito Comunista dell'Unione Sovietica Nikita Chruščëv insieme ai cosmonauti Jurij Gagarin, Pavel Popovich e Valentina Tereškova.
Dopo i suoi studi presso l'accademia per ingegneri dell'aeronautica militare sovietica Žukovskij, la Tereškova si dedicò alla carriera politica: a maggio del 1966 venne eletta a far parte del Soviet Supremo dell'URSS e due anni più tardi divenne presidente del comitato donne dell'Unione Sovietica. Nel 1971 divenne membro del Comitato Centrale del PCUS. A partire dal 1974 fece parte del Presidium del Soviet Supremo e dal 1976 in poi fu vicepresidente della Commissione per l'educazione, la scienza e la cultura dell'Unione Sovietica. Nel 1994 venne nominata dal governo russo direttrice del "Centro russo per collaborazione internazionale culturale e scientifica". Nel 2007, in un'intervista, la Tereškova rivelò per la prima volta i drammatici retroscena del suo volo orbitale. Il 7 febbraio 2014 ha partecipato alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi invernali di Sochi 2014 portando, insieme ad altre 7 personalità russe, la bandiera olimpica. Grande appassionata di automobili sportive, durante il viaggio in Italia che ebbe luogo nel 1967, Valentina Tereškova chiese di poter visitare l'Alfa Romeo di Arese, ricevendo prontamente in risposta l'invito dell’allora presidente Giuseppe Luraghi che le mise a disposizione una "GT Junior" in occasione della visita. Valentina, oltre ad essere la prima donna cosmonauta della storia, può vantare il primato di essere anche l'unica donna ad aver compiuto un volo in solitaria nello spazio.
AEROFAN | MAG/GIU 2019
DISEGNI DI PIETRO MAZZARDI
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Una sorridente Valentina Tereškova comunica l’avvenuta entrata in orbita della Vostok 6. Il volo fu così impegnativo che più volte da terra temettero di doverlo interrompere prima del tempo, ma la Tereškova nonostante tutto non si scoraggiò mai e non chiese il rientro anticipato.
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Anche l'atterraggio risultò particolarmente critico a causa del fatto che, una volta espulsa dalla capsula, Valentina si accorse di sorvolare un lago; questo era un pericolo per il paracadute, inoltre la cosmonauta non era sicura che le forze le sarebbero bastate per rimanere a galla dopo quel volo logorante (i cosmonauti non erano dotati di salvagente). Fortunatamente, alla fine Valentina superò il lago e riuscì a toccare terra nelle vicinanze di Novosibirsk: dal momento del lancio erano trascorsi due giorni, 22 ore e 41 minuti, la cosmonauta aveva compiuto 48 giri intorno alla terra e percorso quasi due milioni di chilometri. Seguirono i filmati ufficiali del rientro e grandi festeggiamenti ebbero luogo in tutto il Paese. In realtà i filmati che mostrano il momento dell'atterraggio della navicella
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Dopo la riuscita della missione Vostok 6, le fotografie che ritraevano insieme la Tereškova e Gagarin diventarono all’ordine del giorno.
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Valentina Tereškova con la figlia Alyona, nata nel 1964.
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Valentina Tereškova in visita alla manifattura tessile "Krasniy Perekop" dove lavorava come tessitrice prima di diventare cosmonauta.
vennero registrati soltanto il giorno seguente il ritorno della Tereškova sulla Terra, in quanto le pessime condizioni della ragazza al momento del rientro ne consigliarono l'immediato ricovero in ospedale. Pochi giorni dopo a Mosca, Nikita Chruščëv conferì a Valentina il titolo onorifico di Pilota Cosmonauta dell'Unione Sovietica. La popolarità della Tereškova negli anni successivi la sua impresa spaziale fu grande e nel novembre del 1963 il suo matrimonio con Andrijan Grigor'evič Nikolaev, il cosmonauta che aveva partecipato alla missione Vostok 3, venne celebrato a Mosca e seguito con molta enfasi dai media sovietici.
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I “primi due”, pluridecorati cosmonauti dell’Unione Sovietica Jurij Gagarin e Valentina Tereškova.
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16 giugno 2018. Vladimir Putin incontra al Cremlino Valentina Tereškova in occasione del 55° anniversario del suo volo nello spazio.
Il segretario del Partito Comunista dell'Unione Sovietica Nikita Chruščëv insieme ai cosmonauti Jurij Gagarin, Pavel Popovich e Valentina Tereškova.
Dopo i suoi studi presso l'accademia per ingegneri dell'aeronautica militare sovietica Žukovskij, la Tereškova si dedicò alla carriera politica: a maggio del 1966 venne eletta a far parte del Soviet Supremo dell'URSS e due anni più tardi divenne presidente del comitato donne dell'Unione Sovietica. Nel 1971 divenne membro del Comitato Centrale del PCUS. A partire dal 1974 fece parte del Presidium del Soviet Supremo e dal 1976 in poi fu vicepresidente della Commissione per l'educazione, la scienza e la cultura dell'Unione Sovietica. Nel 1994 venne nominata dal governo russo direttrice del "Centro russo per collaborazione internazionale culturale e scientifica". Nel 2007, in un'intervista, la Tereškova rivelò per la prima volta i drammatici retroscena del suo volo orbitale. Il 7 febbraio 2014 ha partecipato alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi invernali di Sochi 2014 portando, insieme ad altre 7 personalità russe, la bandiera olimpica. Grande appassionata di automobili sportive, durante il viaggio in Italia che ebbe luogo nel 1967, Valentina Tereškova chiese di poter visitare l'Alfa Romeo di Arese, ricevendo prontamente in risposta l'invito dell’allora presidente Giuseppe Luraghi che le mise a disposizione una "GT Junior" in occasione della visita. Valentina, oltre ad essere la prima donna cosmonauta della storia, può vantare il primato di essere anche l'unica donna ad aver compiuto un volo in solitaria nello spazio.
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Una sorridente Valentina Tereškova comunica l’avvenuta entrata in orbita della Vostok 6. Il volo fu così impegnativo che più volte da terra temettero di doverlo interrompere prima del tempo, ma la Tereškova nonostante tutto non si scoraggiò mai e non chiese il rientro anticipato.
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Fabio Dominici
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i raccontiamo l'ultima fatica del gruppo storico Piloti Virtuali Italiani, la rievocazione di una missione militare molto particolare che ebbe luogo nell'inverno del 1966 e vide protagonisti i C-119 dell'Aeronautica Militare.
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PAOLO GIANVANNI
Una missione della 46a Aerobrigata
Le attività di volo virtuale in seno all'Associazione PVI coprono tutti gli aspetti del volo reale e non può quindi mancare qualcosa relativo alla storia dell'aviazione. A tal proposito periodicamente l'associazione organizza delle rievocazioni storiche, a volte in collaborazione con i musei di aviazione italiani e quindi in pubblico, a volte esclusivamente all'interno dell'associazione. Per il volo di cui andiamo a parlare, come fonte storica abbiamo utilizzato il volume “C-119 Un'epoca nel trasporto aereo”, di Farina, Gianvanni e Mancino, che narra la storia e l'impiego del C-119 in seno alla 46a Aerobrigata di Pisa. All'interno di questo interessantissimo libro abbiamo trovato un capitolo dedicato alle missioni eseguite negli Anni '60 che videro i C-119 italiani operare in quel del circolo polare artico. Proprio in quel decennio fu affidato alla 46a A.B. il compito di trasportare il Gruppo Tattico Alpino “Susa” nell'ambito dei teatri operativi della Forza Mobile NATO. La prima missione si svolse nel 1963 nell'ambito della manovra Northern Trail; la “Susa” venne trasferita in volo da Cameri a Bardufoss dove rimase per la durata dell'evento, nel f rattempo i C-119 rimasero in Norvegia supportando le operazioni NATO dalla base di Trondheim. Nel 1965 seguirono altre importanti missioni analoghe che videro i C-119 in Germania per la Artillery Exercise e in Turchia per la Eastern Express. Nel luglio 1966 la 46a dovette trasportare la “Susa” in Inghilterra per l'operazione Barbara 66 e in autunno nuovamente al circolo polare artico, in occasione della grande esercitazione NATO Winter Express che coinvolse le forze armate di diversi paesi dell'alleanza. In pratica i nostri furono chiamati ad operare un nuovo rischieramento tattico nella zona norvegese del circolo polare artico. Compito della 46a fu quello di trasportare, armi e bagagli, i reparti di Alpini chiamati a partecipare. La prima tappa vide il trasferimento, la prima sera, dei C-119 da Pisa a Cameri, dove vennero caricati gli alpini ed i relativi equipaggiamenti. Era ancora notte quando i “vagoni volanti” decollarono distanziati di 30 minuti per la prima tratta che dopo cinque ore li avrebbe portati a Bruxelles: Qui, subito dopo il rifornimento, gli aerei ripartirono verso l'aeroporto norvegese di Gardermoen, ad Oslo, dove i grossi bimotori giunsero dopo altre cinque ore di volo. Ci fu una sosta di due giorni al termine della quale nuovi equipaggi presero in consegna le macchine per l'ultima tratta verso Bardufoss. Le ultime quattro ore trascorsero sorvolando i fiordi per giungere alla destinazione finale, un aeroporto circondato da rilievi e con una copertura spesso molto bassa, anche 300 piedi. Fortunatamente la struttura disponeva già allora di un sistema GCA (Ground Controlled Approach) che permetteva atterraggi con una certa sicurezza anche in condizioni proibitive. Un paio d'ore per scaricare uomini e materiali e si ripartì per Gardermoen dove gli equipaggi precedenti ripresero in consegna i C-119 per riportarli in Italia. A fine missione i C-119 ritornarono a Bardufoss per ricaricare gli alpini e rientrare in patria; il decollo fu la parte più delicata della missione poiché, stante il carico e la pericolosa orografia del terreno, un problema ad un motore quasi certamente sarebbe risultato fatale. Fortunatamente tutto andò per il meglio e la 46° Aerobrigata potè aggiungere un altro successo al suo palmares. Questa la storia vera, passiamo adesso alla nostra missione simulata. Per quanto riguarda la documentazione tecnica del velivolo e soprattutto le tecniche di pilotaggio, abbiamo fatto riferimento al manuale dell'epoca redatto dall'U.S. Navy per la conduzione dei propri C-119F, unico documento valido che siamo riusciti a reperire sul Web. Una volta ottenuta la documentazione è stato necessario cercare un modello virtuale del Vagone Volante, fondamentale per poter ripercorrere la missione sui nostri simulatori.
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Aviolancio di paracadutisti della Brigata “Folgore” da parte dei C-119 dell’Aeronautica Militare.
C-119 della 46a Aerobrigata basati a Pisa-San Giusto.
C-119 dell’Aeronautica Militare fotografati a Bardufoss, in Norvegia, durante l’esercitazione Winter Express del 1966.
Fabio Dominici
V
i raccontiamo l'ultima fatica del gruppo storico Piloti Virtuali Italiani, la rievocazione di una missione militare molto particolare che ebbe luogo nell'inverno del 1966 e vide protagonisti i C-119 dell'Aeronautica Militare.
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PAOLO GIANVANNI
Una missione della 46a Aerobrigata
Le attività di volo virtuale in seno all'Associazione PVI coprono tutti gli aspetti del volo reale e non può quindi mancare qualcosa relativo alla storia dell'aviazione. A tal proposito periodicamente l'associazione organizza delle rievocazioni storiche, a volte in collaborazione con i musei di aviazione italiani e quindi in pubblico, a volte esclusivamente all'interno dell'associazione. Per il volo di cui andiamo a parlare, come fonte storica abbiamo utilizzato il volume “C-119 Un'epoca nel trasporto aereo”, di Farina, Gianvanni e Mancino, che narra la storia e l'impiego del C-119 in seno alla 46a Aerobrigata di Pisa. All'interno di questo interessantissimo libro abbiamo trovato un capitolo dedicato alle missioni eseguite negli Anni '60 che videro i C-119 italiani operare in quel del circolo polare artico. Proprio in quel decennio fu affidato alla 46a A.B. il compito di trasportare il Gruppo Tattico Alpino “Susa” nell'ambito dei teatri operativi della Forza Mobile NATO. La prima missione si svolse nel 1963 nell'ambito della manovra Northern Trail; la “Susa” venne trasferita in volo da Cameri a Bardufoss dove rimase per la durata dell'evento, nel f rattempo i C-119 rimasero in Norvegia supportando le operazioni NATO dalla base di Trondheim. Nel 1965 seguirono altre importanti missioni analoghe che videro i C-119 in Germania per la Artillery Exercise e in Turchia per la Eastern Express. Nel luglio 1966 la 46a dovette trasportare la “Susa” in Inghilterra per l'operazione Barbara 66 e in autunno nuovamente al circolo polare artico, in occasione della grande esercitazione NATO Winter Express che coinvolse le forze armate di diversi paesi dell'alleanza. In pratica i nostri furono chiamati ad operare un nuovo rischieramento tattico nella zona norvegese del circolo polare artico. Compito della 46a fu quello di trasportare, armi e bagagli, i reparti di Alpini chiamati a partecipare. La prima tappa vide il trasferimento, la prima sera, dei C-119 da Pisa a Cameri, dove vennero caricati gli alpini ed i relativi equipaggiamenti. Era ancora notte quando i “vagoni volanti” decollarono distanziati di 30 minuti per la prima tratta che dopo cinque ore li avrebbe portati a Bruxelles: Qui, subito dopo il rifornimento, gli aerei ripartirono verso l'aeroporto norvegese di Gardermoen, ad Oslo, dove i grossi bimotori giunsero dopo altre cinque ore di volo. Ci fu una sosta di due giorni al termine della quale nuovi equipaggi presero in consegna le macchine per l'ultima tratta verso Bardufoss. Le ultime quattro ore trascorsero sorvolando i fiordi per giungere alla destinazione finale, un aeroporto circondato da rilievi e con una copertura spesso molto bassa, anche 300 piedi. Fortunatamente la struttura disponeva già allora di un sistema GCA (Ground Controlled Approach) che permetteva atterraggi con una certa sicurezza anche in condizioni proibitive. Un paio d'ore per scaricare uomini e materiali e si ripartì per Gardermoen dove gli equipaggi precedenti ripresero in consegna i C-119 per riportarli in Italia. A fine missione i C-119 ritornarono a Bardufoss per ricaricare gli alpini e rientrare in patria; il decollo fu la parte più delicata della missione poiché, stante il carico e la pericolosa orografia del terreno, un problema ad un motore quasi certamente sarebbe risultato fatale. Fortunatamente tutto andò per il meglio e la 46° Aerobrigata potè aggiungere un altro successo al suo palmares. Questa la storia vera, passiamo adesso alla nostra missione simulata. Per quanto riguarda la documentazione tecnica del velivolo e soprattutto le tecniche di pilotaggio, abbiamo fatto riferimento al manuale dell'epoca redatto dall'U.S. Navy per la conduzione dei propri C-119F, unico documento valido che siamo riusciti a reperire sul Web. Una volta ottenuta la documentazione è stato necessario cercare un modello virtuale del Vagone Volante, fondamentale per poter ripercorrere la missione sui nostri simulatori.
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Aviolancio di paracadutisti della Brigata “Folgore” da parte dei C-119 dell’Aeronautica Militare.
C-119 della 46a Aerobrigata basati a Pisa-San Giusto.
C-119 dell’Aeronautica Militare fotografati a Bardufoss, in Norvegia, durante l’esercitazione Winter Express del 1966.
FAIRCHILD C-119 FLYING BOXCAR
ARCHIVIO U.S. AIR FORCE
I
l Fairchild C-119, designato R4Q dalla US Navy, era un aereo da trasporto militare americano sviluppato a partire dal Fairchild C-82 Packet costruito tra il 1945 e il 1948. Il primo prototipo, denominato XC-82B, volò per la prima volta nel novembre del 1947, e nel dicembre del 1949 iniziarono le consegne ai reparti. Nel 1951, Henry J. Kaiser ottenne un contratto per l'assemblaggio di ulteriori 71 C-119 presso la fabbrica automobilistica Kaiser-Frazer, situata nell'ex stabilimento B-24 dell'aeroporto Willow Run di Belleville, nel Michigan. Questi C-119F montavano motori Wright R-3350-85 Duplex Cyclone al posto dei radiali Pratt & Whitney R-4360 Wasp Major installati sugli aeroplani Fairchild. La maggior parte dei velivoli costruiti da Kaiser furono assegnati allo US Marine Corps e, negli Anni '70, furono trasferiti alle forze aeree del Vietnam del Sud.
Fairchild C-119J Flying Boxcar conservato presso il National Museum of the United States Air Force
C-119G dell’Aeronautica Militare preservato presso la 46a Aerobrigata di Pisa
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AEROFAN | MAG/GIU 2019
Quando nel 1955 la produzione dei C-119 cessò, ne risultavano costruiti oltre 1.100. La sua capacità di trasporto merci e la forma squadrata della fusoliera gli valsero il soprannome “Flying Boxcar”. L'Aeronautica Militare, grazie al Mutual Defence Assistance Program, ricevette 40 nuovi velivoli C-119G, cinque ulteriori C-119G operati per conto delle Nazioni Unite nel dicembre 1960 e cinque C-119J dal surplus dei velivoli USAF/ANG. Il C-119G era lungo 26,39 metri, con un'apertura alare di 33,32 e un'altezza di 8,08 metri. Poteva trasportare un massimo di 67 soldati oppure 13.600 chili di carico utile e i suoi due motori radiali Wright R-3350-85 da 3.500 CV ciascuno gli consentivano di raggiungere una velocità massima superiore ai 450 km/h, con un'autonomia di oltre 3.600 chilometri e una tangenza massima di oltre 9.100 metri.
ARCHIVIO CALIARO
LUCIANO PONTOLILLO
C-119G dell’Aeronautica Militare in corso di revisione presso gli stabilimenti SIAI Marchetti di Vergiate
FAIRCHILD C-119 FLYING BOXCAR
ARCHIVIO U.S. AIR FORCE
I
l Fairchild C-119, designato R4Q dalla US Navy, era un aereo da trasporto militare americano sviluppato a partire dal Fairchild C-82 Packet costruito tra il 1945 e il 1948. Il primo prototipo, denominato XC-82B, volò per la prima volta nel novembre del 1947, e nel dicembre del 1949 iniziarono le consegne ai reparti. Nel 1951, Henry J. Kaiser ottenne un contratto per l'assemblaggio di ulteriori 71 C-119 presso la fabbrica automobilistica Kaiser-Frazer, situata nell'ex stabilimento B-24 dell'aeroporto Willow Run di Belleville, nel Michigan. Questi C-119F montavano motori Wright R-3350-85 Duplex Cyclone al posto dei radiali Pratt & Whitney R-4360 Wasp Major installati sugli aeroplani Fairchild. La maggior parte dei velivoli costruiti da Kaiser furono assegnati allo US Marine Corps e, negli Anni '70, furono trasferiti alle forze aeree del Vietnam del Sud.
Fairchild C-119J Flying Boxcar conservato presso il National Museum of the United States Air Force
C-119G dell’Aeronautica Militare preservato presso la 46a Aerobrigata di Pisa
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AEROFAN | MAG/GIU 2019
Quando nel 1955 la produzione dei C-119 cessò, ne risultavano costruiti oltre 1.100. La sua capacità di trasporto merci e la forma squadrata della fusoliera gli valsero il soprannome “Flying Boxcar”. L'Aeronautica Militare, grazie al Mutual Defence Assistance Program, ricevette 40 nuovi velivoli C-119G, cinque ulteriori C-119G operati per conto delle Nazioni Unite nel dicembre 1960 e cinque C-119J dal surplus dei velivoli USAF/ANG. Il C-119G era lungo 26,39 metri, con un'apertura alare di 33,32 e un'altezza di 8,08 metri. Poteva trasportare un massimo di 67 soldati oppure 13.600 chili di carico utile e i suoi due motori radiali Wright R-3350-85 da 3.500 CV ciascuno gli consentivano di raggiungere una velocità massima superiore ai 450 km/h, con un'autonomia di oltre 3.600 chilometri e una tangenza massima di oltre 9.100 metri.
ARCHIVIO CALIARO
LUCIANO PONTOLILLO
C-119G dell’Aeronautica Militare in corso di revisione presso gli stabilimenti SIAI Marchetti di Vergiate
Thunder City, Città del Capo, Sudafrica, 2002. Un English Electric Lightning (BAC Lightning) T.5 fotografato in compagnia di una Jaguar XK-E. Il Lightning è stato un velivolo da caccia supersonico, unico velivolo da caccia britannico capace di raggiungere Mach 2 e primo aereo al mondo in grado di volare in supercruise, ovvero di superare Mach 1 senza bisogno del postbruciatore. Famoso per le sue doti di arrampicata, è entrato in servizio nella RAF nel 1959 ed è stato ritirato nel 1988. La versione da addestramento “T” aveva i seggiolini di allievo e istruttore a ancati.
1 luglio 1973. Un quadrimotore da trasporto Antonov An-12, versione militare dell’AN-10, nome in codice NATO “Cub”, in preparazione per un volo. L’aeroplano può considerarsi pariclasse del Lockheed C-130 Hercules.
FIAT/Aeritalia G.91Y del 13° Gruppo, 32° Stormo. Sciolto nel 1943, il 32° Stormo venne ricostituito il 10 settembre 1967 sull’aeroporto di Brindisi con il ruolo di Caccia Bombardieri e Ricognitori (CBR), inizialmente su Fiat G.91R e in seguito su G.91Y.
Svezia, 1975. Una coppia di Saab JA 37 Viggen (Folgore) appartenenti alla Svenska Flygvapnet con la mimetizzazione geometrica caratteristica di questo aeroplano. Il progetto del caccia, iniziato nel 1961, subì rallentamenti e addirittura sospensioni nel programma di sviluppo a causa dei costi notevoli fino a quando, nel 1968, venne emesso un ordine per le prime 100 macchine. Nel 1975 volò la versione intercettore, denominato “Jaktviggen”, entrato in servizio nel 1979.
78
ARCHIVIO AERONAUTICA MILITARE
9 febbraio 1969. Primo volo del Boeing 747-100, sull'area Puget Sound dello Stato di Washington. Il quadrireattore, pilotato dal collaudatore Jack Waddell, è scortato da un aereo della caccia F-86 Sabre.
Thunder City, Città del Capo, Sudafrica, 2002. Un English Electric Lightning (BAC Lightning) T.5 fotografato in compagnia di una Jaguar XK-E. Il Lightning è stato un velivolo da caccia supersonico, unico velivolo da caccia britannico capace di raggiungere Mach 2 e primo aereo al mondo in grado di volare in supercruise, ovvero di superare Mach 1 senza bisogno del postbruciatore. Famoso per le sue doti di arrampicata, è entrato in servizio nella RAF nel 1959 ed è stato ritirato nel 1988. La versione da addestramento “T” aveva i seggiolini di allievo e istruttore a ancati.
1 luglio 1973. Un quadrimotore da trasporto Antonov An-12, versione militare dell’AN-10, nome in codice NATO “Cub”, in preparazione per un volo. L’aeroplano può considerarsi pariclasse del Lockheed C-130 Hercules.
FIAT/Aeritalia G.91Y del 13° Gruppo, 32° Stormo. Sciolto nel 1943, il 32° Stormo venne ricostituito il 10 settembre 1967 sull’aeroporto di Brindisi con il ruolo di Caccia Bombardieri e Ricognitori (CBR), inizialmente su Fiat G.91R e in seguito su G.91Y.
Svezia, 1975. Una coppia di Saab JA 37 Viggen (Folgore) appartenenti alla Svenska Flygvapnet con la mimetizzazione geometrica caratteristica di questo aeroplano. Il progetto del caccia, iniziato nel 1961, subì rallentamenti e addirittura sospensioni nel programma di sviluppo a causa dei costi notevoli fino a quando, nel 1968, venne emesso un ordine per le prime 100 macchine. Nel 1975 volò la versione intercettore, denominato “Jaktviggen”, entrato in servizio nel 1979.
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ARCHIVIO AERONAUTICA MILITARE
9 febbraio 1969. Primo volo del Boeing 747-100, sull'area Puget Sound dello Stato di Washington. Il quadrireattore, pilotato dal collaudatore Jack Waddell, è scortato da un aereo della caccia F-86 Sabre.
Numero 3 | Maggio/Giugno 2019 Direttore Responsabile Luciano Pontolillo Consulente Storico Giorgio Apostolo Coordinamento Editoriale Roberta Di Grande Comitato di Redazione Moreno Aguiari, Luigino Caliaro, Massimo Dominelli. Hanno collaborato a questo numero Moreno Aguiari, Domenico Binda, Gian Gabriele Caccia, Fabio Dominici, Evgenij Evtushenko, Paolo Gianvanni, Daniele Mattiuzzo, Fabio Morlacchi, Silvano Nicastro, Luca Parrillo, Maurizio Piazzai, Bart Rosselle, Jean Van Hecke, Philippe Van Huick, Chicco Zanaboni. Si ringraziano Corel s.r.l., Dora Wings, Force Aérienne Belge, Red Devils, U.S. National Archives. Prezzo di copertina 12€ (arretrati 18€) Abbonamento 12 mesi (Italia) “Legno e Tela”: 59€ | “Acciaio”: 69€ “Alluminio”: 89€ | “Titanio”: 109€ Commercializzazione e Pubblicità Luckyplane S.n.c. tel. 351.976.7171 | aerofan@luckyplane.it Redazione e Amministrazione viale F. Petrarca 37/a 20078 San Colombano al Lambro (MI) Tel. 339.78.10.154 Concessionaria per la distribuzione SO.DI.P. “Angelo Patuzzi” S.p.a. via Bettola 18 | 20092 Cinisello Balsamo (MI) Tel. 02.660301 Stampa Grafiche Wanda S.r.l. | Quinto Vicentino (VI)
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© 2019 Luckyplane S.n.c. - tutti i diritti riservati Periodico bimestrale ISSN 2611-996X registrazione Tribunale di Lodi n. 5/2018 del 20/09/2018 registrazione R.O.C. n. 32035 del 27/09/2018 Servizio Clienti | Abbonamenti Tel. 351.976.7171 - Email: aerofan@luckyplane.it
Le gallerie fotografiche, gli approfondimenti e i contenuti esclusivi del numero 3
Riproduzione vietata è vietato riprodurre testi e illustrazioni con qualsiasi mezzo senza l’autorizzazione scritta dell’Editore. La Direzione si riserva di apportare modifiche ai testi per esigenze editoriali. Le opinioni espresse negli articoli non corrispondono necessariamente a quelle della Luckyplane S.n.c. Ove necessario, si è provveduto con la richiesta di autorizzazione all’uso del materiale iconografico da parte degli aventi diritto. Nel caso in cui questi siano risultati irreperibili, l’Editore resta a disposizione per regolare eventuali spettanze.
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La prima cosmonauta della Storia
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L’incidente aereo del “Grande Torino”
Una missione della 46a Aerobrigata
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