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pag Parasite
A cura di Andrea Borneto Parasite
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Sud Corea e codice morse.
Regia di Bong Joon-ho. Un film con Song Kang-ho, Sun-kyun Lee, Yeo-jeong Jo, Choi Woo-Sik, Park So-dam, Hyae Jin Chang.
Corea del sud, 2019, durata 132 minuti
Vincitore della Palma d'oro al Festival di Cannes 2019 e 4 premi oscar (miglior film, miglior film internazionale, miglior regia e miglior sceneggiatura originale)
"Il principio della metafora visiva è giusto nella vita onirica o normale; sullo schermo, si impone"
(Estetica delle metafore in L'Essenza del Cinema - scritti sulla setima arte di Jean Epstein)
Non è mai stato un cinema intelletuale ne intelletualoide quello del regista sudcoreano Bong Joon Ho, è piuttosto un cinema di genere e di generi ossia popolare ma mai cialtrone, anzi si è sempre contraddistinto per la sua componente molto politica sempre tesa a rappresentare il conflitto tra classi, prediligendo metafore esplicite di diseguaglianza sociale. Un principio metaforico non confuso e suggerito ma visibile, concreto, addirittura programmatico e consapevole come dichiarato abilmente in una delle prime scene di Parasite: nel momento in cui alla famiglia che vive nello scantinato viene regalato da uno studente universitario una roccia che dovrebbe portare ricchezza materiale alle famiglia, il figlio:"Min! Questo è così metaforico", il padre aggiunge:"Di sicuro è un regalo molto opportuno", mentre la madre:"Il cibo sarebbe meglio". Una commedia familiare pronta a sparigliarsi nel grottesco gioco violento dell'immagine visiva che si impone fredda come un coltello tra i polmoni. Un cinema di metafore materiche, in cui le metafore come la roccia non sono astrazioni ma oggetti materici, armi condundenti così in Parasite come in Madre (2009).
Quest'ultima opera di Bong joon Ho è un presagio rocambolesco, un gioco cinico di inganni ma anche un affinato studio recitativo
e di assegnazione delle parti, un meccanismo pronto presto ad esplodere in un cortocircuito di verità nascoste. Non c'è pietismo verso i reietti ma piuttosto un gioco al massacro dei bassifondi, guerra tra poveri, cattiverie tra emarginati, ovviamente nascosto negli scantinati e negli spazi claustrofobici, cosìcchè i ricchi decorosi abitatori della superficie (comunque feticisti) non vedano il marcio, la violenza e la bruttura di ciò che gli sta sotto: la quarantena della povertà. Il classismo è un filo rosso presente anche nei lavori precendenti del cineasta, soprattutto in Memories of Murder (2003), Madre e Snowpiecer (2013), dove è sempre presente un lavoro di messa in scena del sudicio, del malandato, dello sporco, che in Parasite è coniugato al fetore invisibile di chi non è padrone ne architetto del successo. Il regista sudcoreano attua l'analisi delle condizioni di disparità in una visione multiprospettica, caricandola con sferzante e tagliente amarissima ironia ma soprattutto mettendola in relazione alle dinamiche di uno spettacolo degli orrori. "Guarda che io ti pago un extra per questo!"
I parassiti non lottano per emanciparsi ma solo per avere la cuccia accanto al padrone truffato e accontentarsi di una sussistenza, questa è la vera faccia dell'ambizione borghese, piazzarsi e sentirsi a posto finchè qualche sempliciotto ricco mi sostiene e perciò carcerarsi e deresponsabilizzarsi: mi basto e mi basta. Il linguaggio del Morse è utilizzato con una valenza drammatica, alcuni dei protagonisti affermano la loro esperienza negli scout, lo vediamo principalmente nelle esuberanze del bimbo, il suo uso è quindi giustificato e ne diventa un elemento chiave per la trama: come codice sincopato diviene tramissione sotterfugia e rilevatrice, mezzo di espressione tra due entità distanti, lettere di speranza.
La rivolta è però un'esplosione di rabbia dignitosa dopo un accumulo di sopportazione servile ma destinata ad esaurirsi in un buco buio e puzzolente, dove non prende il wi-fi, dove non c'è speranza e dove tutto è cominciato.