La rivista di divulgazione scientifica più diffusa in Italia
ROBIN FOÀ
Grazie al 5x1000, cure sempre più efficaci per un tipo di leucemia
TUMORE ALL'OVAIO
Un possibile test per la diagnosi precoce
LASCITI TESTAMENTARI
La scelta a favore di AIRC di un'insegnante di musica
NUMERO 2 - APRILE 2024 Numero 2aprile 2024Anno LIIAIRC EditorePoste Italia ne spa Sped. in Abb. Postale D. L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) Art. 1 comma 1 LO/MIISSN 2035-4479
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Sommario
FONDAMENTALE aprile 2024
Un lungo viaggio verso una cura per la leucemia linfoblastica acuta
FONDAMENTALE
Anno LII - Numero 2
Aprile 2024 - AIRC Editore
DIREZIONE E REDAZIONE
Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro ETS
Viale Isonzo, 25 - 20135 Milano tel. 02 7797.1 - airc.it - redazione@airc.it
Codice fiscale 80051890152
Autorizzazione del Tribunale di Milano n° 128 del 22 marzo 1973.
Stampa Rotolito S.p.A.
PREVENZIONE
Tumore all’ovaio: e se la diagnosi precoce diventasse possibile? 26
DIRETTORE RESPONSABILE
Daniele Finocchiaro
COORDINAMENTO EDITORIALE
Anna Franzetti, Simone Del Vecchio
REDAZIONE
Simone Del Vecchio, Jolanda Serena Pisano
PROGETTO GRAFICO E IMPAGINAZIONE kilowatt.bo.it
TESTI
Riccardo Di Deo, Fabio Di Todaro, Antonino Michienzi, Massimo Temporelli, Roberta Villa, Michela Vuga
FOTOGRAFIE
Alberto Gottardo 2023, Getty Images, Marco Onofri 2024.
Fondamentale è stampato su carta certificata e proveniente da foreste gestite in maniera corretta e responsabile secondo rigorosi standard ambientali, sociali ed economici.
RICERCA E CURA 06
RACCOLTA
38 13/ FACCIAMO IL PUNTO Metastasi cerebrali 16/ FACCIAMO IL PUNTO Metastasi ossee 19/ GUIDA ALLE TERAPIE Terapie a bersaglio molecolare 22/ CANCRO NEI GIOVANI Aumento incidenza 24/ DIRITTI DEI PAZIENTI Oblio oncologico 26/ RUBRICHE I traguardi dei nostri ricercatori 28/ TESTIMONIANZE Tumore all’ovaio 30/ IFOM Caratteristiche del cancro 32/ NOTIZIE FLASH ... dal mondo 34/ VITE PER LA RICERCA Rosalind Franklin 36/ ALIMENTAZIONE Dieta sana e sostenibile 38/ TESTIMONIANZE Lasciti testamentari 39/ COLLABORAZIONI Arance Rosse per la Ricerca
FACCIAMO IL PUNTO Metastasi epatiche 06/ VITA DA RICERCATORE Robin
Il testamento di Carla, uno specchio di quel che era stata in vita
FONDI
10/
Foà
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ATTENTI ALLE TRUFFE
AIRC non effettua la raccolta fondi “porta a porta”, con incaricati che vanno di casa in casa.
Nel caso dovesse succedere, stanno tentando di truffarvi. Denunciate subito la truffa chiamando il numero unico per le emergenze 112.
Andrea Sironi Presidente AIRC
AFFRONTIAMO IL CANCRO.
INSIEME
In questo numero di Fondamentale desidero ricordare l’importanza di destinare il 5 per mille a Fondazione AIRC, una semplice decisione che ogni singolo italiano può assumere senza alcun costo ma con conseguenze particolarmente positive per la lotta al cancro. Negli ultimi anni abbiamo deciso di destinare una parte importante dei fondi raccolti grazie al 5 per mille a una sfida cruciale: quella contro le metastasi, che si stimano essere la causa del 90 per cento delle morti per cancro. In questo numero dedichiamo un ampio spazio alla ricerca sul tema, attraverso tre focus sulle sedi più comuni di metastasi e attraverso l’intervista a Robin Foà, ricercatore a capo di uno degli 8 programmi 5 per mille sostenuti da AIRC.
Scegliere di donare il proprio 5 per mille alla nostra Fondazione significa entrare nella grande comunità di AIRC, una comunità di cui fanno parte sostenitori, ricercatori e volontari. Un movimento di persone generose, coraggiose e determinate ad affrontare insieme il cancro per arrivare a una cura. Per questo, dall’inizio di quest’anno, AIRC ha scelto di riconoscersi in un nuovo pay off, “Affrontiamo il cancro. Insieme”. Un messaggio rivolto sia a noi membri della comunità di AIRC, per ricordarci ogni giorno di continuare ad avere fiducia nella strada che stiamo percorrendo verso cure sempre più efficaci, sia a chi di questa comunità ancora non fa parte, ma sta cercando la forza di credere nell’importanza della prevenzione e della ricerca.
Un motivo in più per credere nella nostra missione ce l’ha offerto pochi mesi fa uno studio coordinato dal ricercatore AIRC Maurizio D’Incalci. I promettenti risultati della ricerca di D’Incalci potrebbero consentire in futuro di sviluppare un test per la diagnosi precoce del tumore all’ovaio, uno dei tipi di cancro più difficili da curare, che ogni anno colpisce circa 6.000 persone in Italia. Ne parliamo in un articolo di questo numero, un’occasione per ricordare anche che, tra poche settimane, tornerà la campagna di AIRC per raccogliere fondi a favore della ricerca sui tumori che colpiscono le donne: l’Azalea della Ricerca. Desidero chiudere questo breve editoriale formulando i miei ringraziamenti più sinceri a tutti i volontari, oltre 20.000, che dedicano il proprio tempo e le proprie energie a supportare la nostra Fondazione nelle campagne di raccolta fondi in moltissime piazze di tutto il Paese, e in generale nelle numerose attività che AIRC organizza durante l’anno.
TANTI MODI
Federico Caligaris Cappio
Direttore scientifico AIRC
IL FUTURO: QUESTIONE DI IDEE
Il futuro è una questione di idee. In oncologia le idee devono essere finalizzate sia a capire i meccanismi di sviluppo e crescita dei diversi tipi di tumore, utilizzando tecnologie sempre più sofisticate, sia a preparare le prossime generazioni di ricercatori e di clinici a usare nuovi metodi, sfruttare nuove acquisizioni e interpretare in un nuovo modo i dati disponibili.
La ricerca in oncologia si trova infatti ad affrontare idee emergenti che creano situazioni inedite. Sono particolarmente stimolanti i concetti emersi dal World Oncology Forum, l’incontro di 80 esperti internazionali di oncologia tenutosi ad Ascona nel settembre 2023. I risultati pubblicati sulla rivista Lancet Oncology sottolineano innanzitutto concetti noti, tra cui l’importanza degli interventi di prevenzione, come la vaccinazione contro HPV e epatite B, l’adesione agli screening e la lotta al fumo e a stili di vita notoriamente a rischio. Da un’altra prospettiva mettono l’accento sul fatto che l’intelligenza artificiale (IA) sta cambiando sia gli approcci alla ricerca, sia le modalità di accesso alla diagnosi e alle cure, il che rende essenziale un’adeguata preparazione degli operatori del settore. Diventa necessario capire come usare l’IA per gestire l’enorme mole di dati che la stessa permette di accumulare rapidamente. Nel numero del 1 febbraio 2024 dell'autorevolissima rivista scientifica Nature, un gruppo di esperti e ricercatori dell’istituto francese Gustave Roussy ha portato all’attenzione del mondo scientifico una riflessione su come meglio catalogare i tumori. Convenzionalmente, i tumori sono classificati in base all'organo da cui prendono origine. Tuttavia, il crescente sviluppo della medicina di precisione, favorito dall’analisi dei dati disponibili tramite l’IA, sta orientando la comunità dei ricercatori verso una nuova impostazione, basata sulla profilazione molecolare delle cellule tumorali. Questa classificazione travalica l’organo di origine, perché tumori che nascono in organi diversi possono presentare la medesima anomalia molecolare e dunque beneficiare degli stessi farmaci specifici per quella determinata alterazione. Di conseguenza, più che l’organo di origine, potrebbe (dovrebbe) essere il danno molecolare a guidare le scelte terapeutiche, con la possibilità di utilizzare farmaci indirizzati contro il bersaglio molecolare coinvolto. Questo cambio di prospettiva è prematuro, anche perché la maggior parte dei tumori non ha ancora una caratterizzazione molecolare definita e non a tutte le alterazioni molecolari corrisponde un farmaco specifico. Ma la ricerca è molto attiva e AIRC si fa carico di finanziare i migliori studi volti a capire i meccanismi molecolari che operano nei diversi tumori – premessa indispensabile per arrivare a sviluppare farmaci mirati – e di promuovere collaborazioni tra i diversi centri di ricerca. Ne sono esempio i programmi di ricerca pluriennali AIRC volti a fronteggiare un problema fondamentale per i pazienti, cioè le metastasi, finanziati con i contributi del 5 per mille e trattati in questo numero di Fondamentale.
Purtroppo, ancora oggi non tutti i pazienti possono avere accesso alle indagini molecolari indispensabili per una diagnosi precisa e personalizzata. Anche sotto questo aspetto l’IA potrebbe essere di grande aiuto, favorendo la disseminazione delle migliori possibilità diagnostiche a tutti i centri di oncologia.
Vita da ricercatore
Robin Foà
UN LUNGO VIAGGIO VERSO UNA CURA PER LA LEUCEMIA LINFOBLASTICA ACUTA
In questo articolo:
— PROGRAMMI 5 PER MILLE AIRC
— LEUCEMIA LINFOBLASTICA ACUTA
— METASTASI
Il percorso di Robin Foà è iniziato all’Università di Torino negli anni Settanta, e lo ha portato prima a Londra, poi a New York e infine alla Sapienza a Roma, dove è riuscito a mettere a punto un trattamento a bassissima tossicità per un tipo di leucemia linfoblastica acuta
a cura di
Michela Vuga
All’inizio di questo millennio il tumore del sangue con la prognosi più infausta era la leucemia linfoblastica acuta positiva per il cromosoma Philadelphia. Oggi la storia di questa malattia è cambiata e lo dobbiamo in grandissima parte a Robin Foà, perché è grazie ai protocolli di terapia tutti italiani che lui ha guidato se oggi quasi l’80 per cento dei pazienti sopravvive.
Difficile presentarlo in poche righe: è professore emerito di ematologia alla Sapienza Università di Roma e coordina uno dei programmi AIRC per lo studio delle metastasi sostenuti con i fondi del 5 per mille. In particolare, il suo programma si occupa di indagare la disseminazione in leucemie linfoidi e linfomi.
Foà è sostenuto da AIRC sin dal 1980 e nel corso della sua carriera ha aiutato a formare moltissimi ematologi in ogni angolo del mondo (perché crede nell’importanza di far crescere i giovani), nonché ricoperto innumerevoli
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incarichi in riviste e società scientifiche (è stato presidente dell’EHA – European Hematology Association). Con la moglie
Rita Guarini, biologa, condivide da sempre l’impegno nella ricerca così come la passione per i viaggi e la fotografia. Dietro questa breve biografia c’è una vita assai movimentata e un po' nomade, fatta di eventi totalmente casuali ma anche di tanta determinazione.
UNA VITA IN MOVIMENTO
“Ho fatto il maestro di sci durante gli anni dell’università e dopo la laurea ho lavorato in pediatria a Torino, occupandomi prima di talassemia e poi di leucemie. Non ero però soddisfatto, perché la curiosità mi spingeva verso il mondo della ricerca, ma all’epoca, a metà degli anni Settanta, era difficile fare ricerca d’avanguardia in Italia, soprattutto in campo pediatrico. Così fui io a guardare oltre confine, in Inghilterra. Era peraltro un Paese con cui avevo un legame speciale, visto che mia madre era inglese e io sono nato lì. Finii all’Hammersmith Hospital di Londra, che a quei tempi era uno dei centri più importanti al mondo per l’ematologia. Il come ci sono arrivato è uno dei capitoli della mia vita movimentata.”
SI RICORDA DI ME?
Quand’era ancora studente di medicina, Robin, durante un congresso a Torino, fece da interprete a un famoso ematologo inglese, Gordon Hamilton-Fairley del St Bartholomew’s Hospital di Londra. “Quando lo riaccompagnai in aeroporto, pronunciò la tipica frase di convenienza: se quando ti laurei hai bisogno, ricordati che ci sono. Qualche anno dopo, nell’estate del 1975 e con la laurea in tasca, lo incrociai a un convegno a Londra: stava
uscendo da una cabina telefonica; lo fermai e gli chiesi se si ricordasse di me. Rispose di sì, si ricordava benissimo di me e della mia auto, una Mini grigia con la maniglia rotta! Gli raccontai dei miei progetti, del desiderio di fare un’esperienza a Londra: era disposto ad aiutarmi e alla fine prendemmo accordi per risentirci in autunno.” Robin si confidò anche con un ematologo italiano che lavorava a Londra, Sandro Eridani, che gli consigliò di puntare su Daniel Catovsky dell’Hammersmith Hospital, dove c’era un’unità dedicata esclusivamente alle leucemie.
LA RICERCA TRASLAZIONALE
“Era ottobre e dovevo decidere dove andare: aprendo il giornale lessi che Gordon Hamilton Fairley era rimasto vittima di una bomba dell’IRA mentre portava a spasso il cane, bomba in realtà destinata a un politico inglese. La vita aveva scelto per me: andai da Daniel Catovsky, che divenne il mio maestro. Daniel era un antesignano della ricerca applicata all’ematologia,
UN PODCAST FONDAMENTALE
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profondo per la sua vita, che fa anche nascere la passione per i viaggi e per la fotografia. Masera, infatti, era pure un grande fotografo che aveva vinto dei premi internazionali. “Andai in Africa con una Minox, una macchina fotografica molto piccola usata spesso nei film per fotografare i documenti. Fotografare a distanza gli elefanti nella savana con la Minox era una barzel-
Robin Foà è sostenuto da AIRC fin dal 1980 e nel corso della sua carriera ha aiutato a formare moltissimi ematologi in ogni angolo del mondo
da lui ho imparato molto, compresa l’importanza di formare e crescere giovani ricercatori.” Gli anni vissuti a Londra dal ’76 al ’79 cambiarono tutto e Robin iniziò a occuparsi dei disordini linfoproliferativi, che sono stati poi al centro dei suoi studi. “Lì ho scoperto l’importanza della ricerca traslazionale, cioè della ricerca applicata alla clinica, quella che anche AIRC sostiene.”
I VIAGGI E LA FOTOGRAFIA
Torniamo indietro di qualche anno. Robin si è appena laureato e per un mese va in Kenya, ospite dei missionari della diocesi di Alba: accompagna Piero Masera, medico alle Molinette, per portare aiuto e cure in zone molto povere. Un’esperienza dal significato
letta: io vedevo dei puntini neri. Non poteva assolutamente restituire la meraviglia di quegli infiniti spazi africani, delle stellate incredibili, delle popolazioni che incontravo. Quando poi vidi le foto scattate da Piero, capii che era quello che anch’io volevo riuscire a fare. E così, tornati in Italia, gli chiesi di accompagnarmi a comprare la mia prima macchina fotografica, che sarebbe stata il regalo di laurea dei miei genitori: era una Nikon, la Nikkormat. La conservo ancora gelosamente.” L’amore per la fotografia è cresciuto insieme alla passione per i viaggi, tanto che Robin vi ha dedicato un sito (robinfoa. it) e ha iniziato a pubblicare dei libri fotografici sui luoghi in cui è stato. L’ultimo, il decimo, è sulla Namibia.
Aprile 2024 / Fondamentale / 7 / Vita da ricercatore / Robin Foà
L’amicizia con Piero Masera segnò anche il rientro in Italia dopo i tre anni trascorsi a Londra. Fu lui infatti a proporgli di tornare a Torino su richiesta di Felice Gavosto, professore di medicina che faceva ricerca insieme a Umberto Veronesi. Pur essendo intenzionato a rimanere a Londra, tra mille dubbi, Robin partecipò al concorso per diventare assistente universitario: “Lo vinsi. I posti erano due e l’altro vincitore era Federico Caligaris Cappio, oggi direttore scientifico di AIRC!”.
DA TORINO A ROMA
“A Torino stavo bene, Roma non era affatto nei miei progetti. Lavoravo allora su una molecola che si chiama interleuchina 2, una citochina utilizzata nel trattamento di alcuni tipi di tumore. Dovevamo iniziare la sperimentazione sull’uomo, ma era necessario coinvolgere più pazienti e quindi collaborare con un altro centro di ematologia. All’epoca i più importanti erano a Bologna e a Roma. Con Bologna già pubblicavo dei lavori scientifici, in particolare con Franco Lauria con cui avevo fatto amicizia
sciare riguarda proprio il traguardo ottenuto nel trattamento della leucemia linfoblastica acuta positiva per il cromosoma Philadelphia (in sigla LLA Ph+). “Verso la fine degli anni Novanta, a margine di un congresso, chiacchieravo con Michele Baccarani, massimo esperto di leucemia mieloide cronica. Per questa leucemia si utilizzava già con successo l’imatinib, il primo inibitore delle tirosin-chinasi, una classe di farmaci che ha completamente cambiato la storia della leucemia mieloide cronica. Questa neoplasia ha in comune con la leucemia linfoblastica acuta Philadelphia positiva la stessa lesione genetica. Così con Michele ci venne l’idea di sperimentare l’imatinib anche nella malattia linfoblastica di cui io mi occupavo.” Il primo protocollo clinico multicentrico del gruppo cooperatore italiano GIMEMA partì nel 2000, e prevedeva di utilizzare l’imatinib nella prima fase della terapia, la cosiddetta terapia di induzione, aggiungendo uno steroide ma non la chemioterapia, che allora rappresentava l’unico trattamento insieme al trapianto di cellule staminali, a cui però pochi
L'approccio terapeutico messo a punto dal gruppo di Foà ha permesso di ottenere una remissione completa della LLA Ph+ nel 98 per cento dei pazienti
nel periodo londinese – e che poi mi presentò mia moglie! – e, forse per mantenere un rapporto equilibrato con entrambi i centri, Felice Gavosto contattò Franco Mandelli a Roma. Fu l’inizio di una collaborazione che qualche anno dopo sfociò nella proposta, che accettai, di trasferirmi. Era il 1996 e divenni professore ordinario di ematologia alla Sapienza Università di Roma.”
IL TRATTAMENTO PER LA LLA Ph+ Un altro momento significativo nella vita di Robin che non si può trala-
pazienti potevano sottoporsi. La sperimentazione fu condotta su pazienti over 60 a cui erano spesso offerte soltanto cure palliative: l’inibitore funzionò e portò alla remissione clinica della malattia. La ricerca, sostenuta da AIRC fin dall’inizio, è proseguita nel corso degli anni utilizzando anche altri inibitori di seconda e terza generazione, ottenendo remissioni della malattia tra il 94 e il 100 per cento con una tossicità bassissima. Il passo successivo, introdotto alcuni anni fa, è stato far seguire all’induzione con un inibitore di seconda gene-
COME AIRC USA I FONDI DEL 5 PER MILLE
I risultati di Robin Foà sono stati ottenuti anche grazie ai fondi che tanti sostenitori hanno deciso di destinare ad AIRC attraverso il 5 per mille. A partire dal 2009, infatti, AIRC ha utilizzato i fondi del 5 per mille per avviare dei programmi speciali all'avanguardia focalizzati sulla ricerca di nuove cure e di nuovi strumenti diagnostici. In particolare, oggi sono attivi 8 programmi speciali per lo studio delle metastasi, una sfida cruciale, come raccontato nelle pagine che seguono, di cui Robin Foà è uno dei protagonisti. Lo scopo di questi programmi è comprendere i meccanismi biologici alla base della disseminazione tumorale e sviluppare innovativi approcci preventivi, diagnostici e terapeutici delle metastasi. AIRC utilizza inoltre i fondi del 5 per mille per sostenere centinaia di progetti di ricerca su tutto il territorio italiano. razione (dasatinib) un trattamento immunoterapico di consolidamento con un anticorpo monoclonale bispecifico (blinatumomab), che da un lato colpisce la cellula tumorale e dall’altro attiva il sistema immunitario. Un approccio che ha permesso di ottenere una remissione completa della malattia nel 98 per cento dei pazienti e la cui efficacia è stata confermata di recente da un nuovo studio di follow-up pubblicato sul Journal of Clinical Oncology: a oltre 4 anni dal termine dei trattamenti, la sopravvivenza è del 75-80 per cento. La strategia terapeutica perseguita da Robin e dai suoi collaboratori rappresenta quindi davvero il futuro per la cura di questa leucemia.
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/ Vita da ricercatore / Robin Foà
I PROGRAMMI 5 PER MILLE DI AIRC PER LO STUDIO DELLE METASTASI
UN VIAGGIO MOLECOLARE PER CONOSCERE A FONDO
LE METASTASI DEL TUMORE DEL COLON-RETTO
Coordinatore: Alberto Bardelli
Istituto ospitante: IFOM – Milano
LE TERAPIE IMMUNITARIE PIÙ AVANZATE
CONTRO LE METASTASI DEL FEGATO
Coordinatore: Maria Chiara Bonini
Istituto ospitante: Università Vita-Salute, Ospedale San Raffaele – Milano
RIFLETTORI PUNTATI SULLE “METASTASI”
E SULLA DISSEMINAZIONE DI LEUCEMIE LINFOIDI E LINFOMI
Coordinatore: Robin Foà
Istituto ospitante: Sapienza Università di Roma
EPIGENETICA E IMMUNOTERAPIA
UNITE NELLA SFIDA ALLE METASTASI
Coordinatore: Michele Maio
Istituto ospitante: Azienda ospedaliera universitaria senese – Siena
IMMUNITÀ E MICROAMBIENTE COME CHIAVI
CONTRO LE METASTASI DEI TUMORI
DI COLON E PANCREAS
Coordinatore: Alberto Mantovani
Istituto ospitante: Università Humanitas – Pieve Emanuele
UNO SGUARDO NUOVO SULLE METASTASI, MALATTIA “MECCANICA”
Coordinatore: Stefano Piccolo
Istituto ospitante: Università degli studi di Padova
UN VACCINO TERAPEUTICO PER MIGLIORARE
L’IMMUNOTERAPIA CONTRO MELANOMA
E SARCOMA METASTATICI
Coordinatore: Maria Rescigno
Istituto ospitante: Humanitas Mirasole – Rozzano
L’EVOLUZIONE DELLE NEOPLASIE
MIELOPROLIFERATIVE COME MODELLO
PIÙ GENERALE DI METASTASI
Coordinatore: Alessandro Maria Vannucchi
Istituto ospitante: Università degli studi di Firenze
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/ Vita da ricercatore / Robin Foà
Facciamo il punto
Metastasi epatiche
METASTASI EPATICHE: FOCUS SU CHIRURGIA E MICROAMBIENTE
In questo articolo:
— PROGRAMMI 5 PER MILLE AIRC
— TERAPIA GENICA
— TRATTAMENTI CHIRURGICI
Le metastasi al fegato sono molto diffuse, si stima che siano presenti in oltre il 30 per cento dei casi di morte per cancro. Per riuscire a trattare sempre meglio e sempre più pazienti si punta a sviluppare nuove terapie avanzate
a cura di Fabio Di Todaro
Il fegato si trova al centro del nostro corpo ed è uno degli organi più importanti (e vascolarizzati). Sono questi alcuni dei motivi per cui, assieme ai polmoni e alle ossa, il fegato è una delle sedi più spesso colpite dalle metastasi, cioè colonizzato dalle cellule cancerose provenienti da tumori che si sono sviluppati in altre sedi. Si stima infatti che tra il 30 e il 70 per cento dei pazienti oncologici (a seconda del tumore da cui sono interessati) muoia presentando metastasi al fegato.
Le metastasi epatiche arrivano perlopiù da neoplasie che colpiscono l’apparato digerente (stomaco, colon-retto, esofago, pancreas), ma anche da tumori del rene, del polmone, del seno e dal melanoma. E, una volta insediatesi nella centrale energetica del nostro corpo, hanno un impatto significativo sulla prognosi.
10 / Fondamentale / Aprile 2024 / Facciamo il punto / Metastasi epatiche
Le metastasi epatiche arrivano per lo più da tumori che colpiscono stomaco, colon-retto, pancreas ed esofago
UN PROBLEMA SOPRATTUTTO
PER CHI HA UN TUMORE DEL COLON-RETTO
Uno studio pubblicato nel 2020 sulla rivista Cancer Epidemiology ha stimato che, al momento della diagnosi di tumore, circa il 5 per cento dei casi presentino metastasi al fegato. A questi vanno aggiunti coloro in cui il problema si presenta a distanza di tempo dalla diagnosi. Il rischio è elevato soprattutto per i pazienti affetti da tumore del colon-retto, più del 25 per cento dei quali sviluppa metastasi al fegato. “Le metastasi epatiche sono asintomatiche nella maggior parte dei malati” afferma Luca Viganò, dirigente medico dell’Unità operativa di chirurgia mininvasiva generale e oncologica dell’Humanitas Gavazzeni (Bergamo). “Soltanto un coinvolgimento massivo del fegato può determinare un’insufficienza d’organo. Più frequenti sono invece i sintomi aspecifici da malattia oncologica avanzata, come l’astenia, la perdita di appetito e il calo ponderale o una sintomatologia dovuta al tumore primitivo. Tuttavia non è raro che le metastasi epatiche siano diagnosticate occasionalmente nel corso di un’ecografia eseguita per controllo o per altri disturbi prima della diagnosi del tumore primitivo.”
PERCHÉ IL FEGATO È COSÌ
SENSIBILE ALLE METASTASI?
La posizione anatomica e il ruolo che questo organo svolge nel nostro organismo lo rendono luogo privilegiato per diventare sede di metastasi. Appare ormai chiaro però, come peraltro rilevato nell’origine di tutte le metastasi, che un ruolo chiave è giocato anche dal microambiente. Come riassunto in un articolo pubblicato su Seminars
in Cancer Biology nel 2021, “il sistema immunitario di questo organo è programmato verso l’iporeattività (in gergo tecnico 'tolleranza immunologica'), che viene rafforzata nel momento in cui nell’organo arrivano cellule tumorali”. A ciò occorre aggiungere che, una volta in loco, le cellule tumorali promuovono la formazione di nuovi vasi sanguigni, favorendo la diffusione della malattia all’interno del fegato (e non solo). La presenza di un ambiente povero di ossigeno (il sangue che viaggia in questi vasi è perlopiù ricco di anidride carbonica) e un eventuale stato di infiammazione sono altri elementi che portano l’organo a essere sede elettiva di metastasi.
LA “SFIDA” DELLA CHIRURGIA
Considerando l’alto impatto che le metastasi epatiche hanno sulla sopravvivenza per alcuni dei tumori più frequenti, da quelli del colon-retto a quello al seno, non sorprende che questa sfida sia una delle più durevoli per chirurghi e oncologi. “Il trattamento chirurgico dovrebbe essere sempre considerato nei pazienti affetti da metastasi epatiche provocate da un tumore del colon-retto, mentre è da valutare caso per caso se la sede di origine della malattia è diversa. Vanno tenute in conto nella valutazione l’età e le condizioni generali dei pazienti, la diffusione e dimensione delle metastasi al fegato, la presenza di altre sedi di malattia e la risposta alle terapie sistemiche” precisa Viganò. Una decisione, quindi, che deve essere presa coinvolgendo non solo oncologi, ma anche gastroenterologi, patologi, biologi molecolari, radiologi (anche interventisti), radioterapisti e medici nucleari. “A parità di scelta del trattamento da riservare ai pazienti,
purtroppo l’esito non è sempre quello atteso. Può capitare di vedere casi apparentemente più gravi con ottimi risultati e prognosi favorevole a lungo termine e altri che evolvono in maniera imprevista. Ciò vuol dire che esistono due aspetti ancora da indagare: uno legato alla biologia tumorale e l’altro alla malattia invisibile, ovvero già diffusa anche in altre sedi nel momento in cui interveniamo sulle metastasi epatiche visibili. Uno dei prossimi obiettivi è riuscire a identificare quali sono i pazienti destinati a beneficiare maggiormente del trattamento chirurgico e quali meno.”
QUALE PROSPETTIVA PER IL TRAPIANTO D’ORGANO?
I risultati ottenuti – nei pazienti con tumore del colon-retto metastatico trattati in sala operatoria la sopravvivenza oggi supera il 50 per cento a cinque anni – hanno spinto la comunità scientifica a sfidare i limiti della chirurgia. “L’obiettivo è rendere operabile ciò che non sembrerebbe tale in prima battuta” è quanto messo nero su bianco da un gruppo di specialisti dell’Azienda sanitaria universitaria Friuli Centrale (Udine) in un articolo pubblicato sul Journal of Surgery. Un risultato possibile grazie all’affinamento di terapie sistemiche (chemioterapia, anticorpi monoclonali, terapia radiometabolica) che ora permettono di intervenire su pazienti prima destinati a trattamenti palliativi. In questo senso, il trapianto d’organo rappresenta la frontiera più avanzata. “Questa opzione, oggi parte del trattamento destinato ai tumori primitivi del fegato, inizia a essere considerata anche per le metastasi epatiche provocate da tumori del colon-retto e neuroendocrini” aggiunge
Aprile 2024 / Fondamentale / 11 / Facciamo il punto / Metastasi epatiche
Viganò. “Ci sono però ancora dei limiti significativi: dalla definizione dei pazienti che potrebbero beneficiarne alla carenza di organi.” Su questo fronte c’è da segnalare l’avvio di uno studio clinico di fase 2 nel nostro Paese – tra i
ta da 18 gruppi di ricerca dell’IRCCS ospedale San Raffaele di Milano di fare un passo indietro e caratterizzare il microambiente che si genera nel fegato quando sono presenti metastasi provenienti dal colon-retto e dal pan-
Un programma sostenuto con i fondi 5 per mille destinati ad AIRC studia come modificare il microambiente nel fegato per riattivare il sistema immunitario contro le metastasi
promotori diversi ricercatori sostenuti anche da Fondazione AIRC: Vincenzo Mazzaferro, Filippo Pietrantonio e Valter Torri – che punta a confrontare la sopravvivenza a cinque anni ottenibile con il trapianto con quella determinata dalla chemioterapia.
LE ALTRE FRONTIERE DELLA RICERCA
Non di sola chirurgia è fatto però il futuro dell’approccio alle metastasi epatiche. L’immunoterapia, finora, non ha dato i risultati osservati in altre situazioni. Da qui l’intuizione avu-
creas. Un progetto sostenuto da Fondazione AIRC dal 2019, con i contributi del 5 per mille. “Abbiamo colto la sfida dedicata alle metastasi, che rappresentano ancora un buco nero della ricerca” conclude Chiara Bonini, responsabile dell’Unità di ematologia sperimentale e coordinatrice del progetto. “La tolleranza immunologica che si crea nel fegato ha finora reso difficile poter garantire una risposta terapeutica significativa. L’obiettivo è trovare le chiavi con cui modificare il microambiente e riattivare il sistema immunitario contro le metastasi.”
METASTASI
EPATICHE: UNA
SPERANZA ANCHE
DALLA TERAPIA GENICA?
Una ulteriore risposta alle metastasi epatiche potrebbe arrivare dalla terapia genica. La notizia giunge da uno studio appena pubblicato sulla rivista Cancer Cell da un gruppo di ricercatori dell’IRCCS ospedale San Raffaele di Milano, coordinati da Luigi Naldini. Gli scienziati hanno messo a punto in modelli sperimentali una nuova strategia in grado di ingegnerizzare in vivo alcune cellule immunitarie del fegato. I ricercatori sono riusciti così a prevenire la tossicità sistemica e a modulare il microambiente in modo da attivare la risposta antitumorale, inibendo la crescita di metastasi.
12 / Fondamentale / Aprile 2024 / Facciamo il punto / Metastasi epatiche
Metastasi cerebrali
In questo articolo:
— TERAPIE MIRATE
— RADIOCHIRURGIA
— BIOPSIA LIQUIDA
METASTASI CEREBRALI: LA SFIDA È PORTARE I FARMACI AL CENTRO DEL TUMORE
L’immunoterapia e i farmaci a bersaglio molecolare sono le due strategie su cui lavorano i ricercatori per i casi in cui le cellule tumorali raggiungono il cervello a cura di Fabio Di Todaro
Parlare delle possibilità di cura di un tumore nel momento in cui compaiono delle metastasi cerebrali è ancora difficile. Ciò non toglie, però, che passi in avanti siano stati registrati anche in questo campo. “Considerando i tanti tumori che possono provocare metastasi al cervello, la prognosi cambia in base alla sede della malattia primitiva” afferma Giampaolo Tortora, direttore del Comprehensive Cancer Center della Fondazione Policlinico Gemelli di Roma. “Oggi abbiamo diverse terapie sistemiche, soprattutto per il tumore al polmone, per quello al seno e per il melanoma, efficaci anche sulle metastasi a livello cerebrale. L’ipotesi di cronicizzare la malattia in presenza di queste metastasi non è più irrealistica in determinati casi.”
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Facciamo il punto
I SINTOMI A CUI PRESTARE ATTENZIONE
Le ultime stime dicono che tra il 20 e il 40 per cento dei pazienti oncologici sviluppa metastasi cerebrali nel corso della malattia. Se si prendono in esame le nuove diagnosi annue italiane, si parla di una quota di almeno centomila persone, con una
su 2), il tumore al seno (15-25 per cento), il melanoma (5-20 per cento). Meno di frequente invece la malattia origina da un tumore al rene, al testicolo, alla tiroide o a un organo dell’apparato digerente (esofago, stomaco, colon-retto, pancreas, fegato e vie biliari). A ciò occorre aggiungere che in una certa quota di casi (10-15
I tipi di cancro che più di frequente generano metastasi a livello cerebrale sono
il tumore del polmone, quello del seno e il melanoma
sopravvivenza media inferiore a un anno. Le malattie che più di frequente generano metastasi a livello cerebrale sono il tumore del polmone (oltre 1 caso di metastasi al cervello
per cento) la sede del tumore primitivo è sconosciuta. La persona che ne soffre finisce cioè per rivolgersi a un medico o al pronto soccorso per la comparsa di uno dei sintomi che
caratterizzano la presenza di metastasi cerebrali: mal di testa, deficit neurologici (emiparesi, afasia, emianopsia) o cognitivi. E da lì, attraverso metodiche di imaging e un successivo esame istologico, si arriva alla conferma di una malattia oncologica e si risale a quella di partenza.
UN
APPROCCIO
ARTICOLATO AL TRATTAMENTO
Come detto, in questi casi la prognosi è ancora perlopiù negativa. “Siamo più indietro” ammette Tortora “rispetto a quanto ottenuto nella gestione delle metastasi a carico di altri organi. È altrettanto vero però che, in passato, quando ci si trovava di fronte a un paziente con questo problema la partita era pressoché finita. Se possibile, il massimo che si poteva fare era ricorrere a una radioterapia palliativa.” Da anni ormai invece si ricorre anche alla chirurgia, indicata nel caso di neoplasie secondarie singole e voluminose e con il tumore primitivo sotto controllo. Dopo l’asportazione di una metastasi cerebrale, è in genere in-
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dicato un trattamento radioterapico adiuvante (per ridurre la probabilità di recidive). Ma da semplice opportunità per controllare i sintomi e il dolore, la radioterapia è divenuta in realtà un’opportunità terapeutica a tutti gli effetti per i pazienti con poche metastasi. Ancora più mirato è l’approccio radiochirurgico, in cui l’erogazione di alte dosi di radiazioni con precisione inferiore al millimetro permette alla radioterapia di avvicinarsi quanto più possibile all’efficacia della chirurgia tradizionale. Questo metodo consente inoltre di limitare molto gli effetti collaterali, a partire dal declino neurocognitivo, che per molti anni è stato una costante del trattamento radioterapico. Lo scenario, dunque, si può considerare già mutato.
“È importante identificare i sottogruppi di pazienti con fattori prognostici favorevoli che possono beneficiare di un determinato trattamento, sia in termini di aumento della sopravvivenza, sia di qualità di vita” ragiona l’esperto. “In alcuni casi osserviamo il congelamento o la regressione delle metastasi, mentre nei pazienti con altre malattie o con metastasi diffuse anche ad altri organi l’obiettivo della terapia è la stabilizzazione della malattia cerebrale, controllandone i sintomi e limitando la tossicità.”
NUOVE SOLUZIONI “MIRATE” NEI TUMORI AL SENO E AL POLMONE
La novità più significativa degli ultimi anni è però la scoperta dell’efficacia di alcune terapie target e immunoterapie – utilizzate per trattare tumori come quello al seno, al polmone (non a piccole cellule) e il melanoma – anche sulle metastasi cerebrali. Prendendo come esempio il cancro della mammella, si sa che i sottotipi triplo negativo ed HER2 positivo hanno un rischio più alto di vedere diffondersi la malattia al cervello. Se nel primo caso le soluzioni terapeutiche sono ancora limitate, nel caso dei tumori HER2 positivi (circa il 15 per cento del totale) i farmaci a bersaglio molecolare e gli anticorpi coniugati si stanno rivelando in grado di cronicizzare la malattia anche fino a tre anni. Lo stesso dicasi
per la gestione delle metastasi cerebrali dovute ad alcuni tipi di tumore del polmone non a piccole cellule. “I pazienti con un tumore del polmone ALK positivi e con una mutazione di EGFR che presentano metastasi cerebrali asintomatiche possono essere trattati con la sola terapia mirata fino alla progressione della malattia”
Per personalizzare sempre più le cure, l'ASCO raccomanda di ottenere un profilo molecolare completo del tumore primario e delle metastasi
riassume infatti una review pubblicata sulla rivista Neuro-Oncology Advances nel 2020. Per quanto riguarda le metastasi cerebrali provocate dal melanoma e dal tumore del rene, si è rivelata molto efficace l’immunoterapia. “Nel prossimo futuro, la combinazione appropriata di terapie mirate o di inibitori dei checkpoint immunitari con alcuni tipi di radioterapia costituirà una potenziale soluzione per il trattamento delle metastasi cerebrali, che andrà testata in protocolli di ricerca clinica” conclude Tortora.
IN FUTURO MONITORAGGIO ATTRAVERSO LA BIOPSIA LIQUIDA?
Di pari passo dovrà viaggiare pure la ricerca di base, perché appare sempre più probabile che le metastasi cerebrali abbiano caratteristiche diverse non solo dal tumore primario, ma anche da paziente a paziente. Per questo – nell’ottica di una personalizzazione sempre maggiore dei trattamenti – l’American Society of Clinical Oncology raccomanda “quando possibile di ottenere un profilo molecolare completo: del tumore primario, ma pure delle metastasi cerebrali”. Un aiuto potrebbe arrivare anche da un perfezionamento della biopsia liquida, in modo da poterla utilizzare per analizzare il DNA tumorale rilevabile nel liquido cerebrospinale.
COS’È LA BIOPSIA LIQUIDA
La biopsia liquida serve ad analizzare materiale di origine tumorale (cellule, proteine, DNA o RNA) ottenuto attraverso un prelievo di sangue. Maggiormente utilizzata è la ricerca del DNA tumorale circolante, il cui impiego è entrato nella pratica clinica (per l’analisi del gene EGFR in caso di tumore polmonare non a piccole cellule con metastasi a distanza) dopo la messa a punto di farmaci specifici (al posto della chemioterapia). Tra i vantaggi dell’esame ci sono la rapidità, la ridotta invasività e dunque la possibilità di ripeterlo con frequenza per valutare il decorso della malattia. La biopsia liquida non consente di effettuare una diagnosi di cancro (per cui rimane necessario l’esame istologico), ma può essere utilizzata per l’identificazione di marcatori prognostici o predittivi.
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/ Facciamo il punto / Metastasi cerebrali
Facciamo il punto
Metastasi ossee
CONVIVERE CON LE METASTASI OSSEE SI PUÒ
In questo articolo:
— TUMORE ALLA PROSTATA
— TEAM MULTIDISCIPLINARI
— NEOPLASIE PEDIATRICHE
I tumori della prostata, del polmone, del rene e della mammella sono quelli che più spesso si diffondono allo scheletro. La sfida è controllare il dolore e ridurre il rischio di fratture. Una partita che oggi si riesce a vincere molto più spesso rispetto al passato
a cura di Fabio Di Todaro
Ogni anno, in Italia, almeno 35.000 persone scoprono di avere metastasi ossee. Un problema dalla frequenza crescente, conseguenza dell'aumentata sopravvivenza di tutte le forme di cancro che più spesso si diffondono allo scheletro. “Parliamo di un problema più frequente perché oggi abbiamo l’opportunità di offrire una sopravvivenza più lunga a pazienti che fino a un paio di decenni addietro non avevano purtroppo nemmeno il tempo di arrivare a sviluppare una malattia metastatica ossea” afferma Toni Ibrahim, direttore della Struttura complessa di osteoncologia, sarcomi dell’osso e dei tessuti molli e terapie innovative dell’Istituto ortopedico Rizzoli di Bologna. “Il trattamento delle metastasi ossee è una delle sfide più importanti, per aumentare sia la sopravvivenza sia la qualità della vita delle persone. Ma possiamo dire di aver fatto dei significativi passi in avanti negli ultimi due decenni.”
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QUALI SONO I TUMORI
CHE PROVOCANO METASTASI OSSEE?
La metastasi ossea è un “distaccamento” di una neoplasia che non ha preso origine nell’osso stesso, ma in organi diversi. Secondo i dati di uno studio statunitense pubblicato nel 2018 sulla rivista BMC Cancer, le forme di cancro che più spesso producono metastasi ossee sono il tumore della prostata (18-29 per cento dei casi di metastasi alle ossa), del polmone (10,4-12,9 per cento), del rene (5,8-9,9 per cento) e della mammella (3,4-8,1 per cento). È meno frequente l’insediarsi delle metastasi a livello osseo se il tumore primario coinvolge la tiroide, la vescica o organi dell’apparato digerente (esofago, stomaco, intestino, fegato, vie biliari e pancreas) o di quello genitale femminile (cervice uterina, endometrio, ovaio). L’incidenza è più elevata e precoce nei pazienti che hanno una malattia in fase avanzata.
COSA SAPPIAMO DELLE METASTASI OSSEE?
Tutte le ossa del corpo possono essere sede di metastasi, ma in genere le più colpite sono quelle della parte cen-
trale del corpo (colonna vertebrale e bacino), seguite dalle costole e dalle ossa della parte superiore di gambe (femore) e braccia (omero). Le metastasi ossee possono essere di due tipi: a prevalenza litica o addensante. “Nel primo caso l’arrivo delle cellule tumorali provoca un aumento del riassorbimento osseo (cioè della disgregazione del tessuto), grazie a una maggiore attivazione di cellule chiamate osteoclasti e deputate al riassorbimento della componente organica e inorganica dell’osso” aggiunge Ibrahim.
avanzata nel lontano 1889 da Stephen Paget sembra essere la più accreditata. La cellula tumorale (il seme) andrebbe ad annidarsi nel microambiente osseo (il terreno) grazie a uno scambio di informazioni di tipo molecolare. Si formerebbero così le cosiddette nicchie metastatiche, nelle quali le cellule possono dormire per poi risvegliarsi e generare tumori metastatici, sia nell’osso sia in altri organi. Si instaura
Le neoplasie che più spesso producono metastasi ossee sono il tumore della prostata e quelli del polmone, del rene e del seno
“Mentre in quelle prevalentemente addensanti si ha un aumento della formazione di nuova matrice ossea, che viene deposta in maniera anomala. Entrambe le situazioni possono provocare fratture a livello degli arti o della colonna vertebrale.” Sintomi a cui prestare attenzione sono il dolore, la comparsa di formicolii, difficoltà a camminare o a muovere le braccia. Le metastasi ossee possono inoltre provocare compressione midollare a livello della schiena (condizione che interferisce con l’attività dei nervi che controllano il movimento, l’intestino e la vescica) e ipercalcemia (dovuta alla liberazione del calcio dall’osso nel circolo sanguigno).
FARI PUNTATI SUL
MICROAMBIENTE TUMORALE
Quello che appare sempre più come una certezza è il lavoro che la cellula tumorale compie nel microambiente osseo. “Il rapporto tra queste due componenti inizia prima rispetto a quando rileviamo la metastasi” specifica Ibrahim. Il tessuto osseo rappresenta un terreno fertile per la crescita di alcune cellule tumorali. Perché ciò accada non è del tutto chiaro. Ma la teoria del “seed and soil” (seme e terreno)
una sorta di “circolo vizioso” con le altre cellule dell’osso (osteoclasti e osteoblasti), che contribuisce a distruggere il tessuto o a farlo crescere in maniera anomala. È tuttora meno chiaro il meccanismo che consente alle cellule tumorali di replicarsi nell'ambiente osseo nelle fasi iniziali della colonizzazione, ovvero prima di raggiungere una massa critica che consenta loro di manipolare in modo significativo le cellule ossee.
COME SI TRATTANO LE METASTASI OSSEE?
Il trattamento delle metastasi ossee ha in genere lo scopo di rallentare o bloccare la crescita delle cellule metastatiche e di ridurre i sintomi, con benefici sulla qualità della vita, ma anche sulla prognosi del paziente. Eliminarle del tutto rimane però molto difficile. La scelta del percorso di cura dipende da diversi fattori. Tra questi il tipo di tumore primario e le sue caratteristiche patologiche e molecolari, il numero e la sede delle ossa interessate, il livello di rischio di complicanze delle varie lesioni e quelle eventualmente già presenti (fratture precedenti), lo stato di salute generale del paziente. Oltre all’oncologo, il trattamento chiama
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in causa altri specialisti che possono intervenire sia a livello locale (come il chirurgo ortopedico e il neurochirurgo, il radioterapista e il radiologo interventista) sia sistemico (il medico nucleare, che propone trattamenti sistemici con sostanze radioattive mi-
rate all’osso). È altrettanto importante il coinvolgimento dello specialista delle cure palliative e del dolore (per combattere il dolore e altri sintomi sistemici, come la stanchezza e l'inappetenza) e il fisiatra (per assicurare ausili e dispositivi che permettano il movi-
È importante mantenere le ossa in buona salute anche in assenza di metastasi per abbassare il rischio di complicanze
mento senza aumentare il rischio di complicanze).
TEAM MULTIDISCIPLINARI
PER GESTIRE I PAZIENTI CON
METASTASI OSSEE
“Oggi ai pazienti spieghiamo quanto importante sia mantenere le ossa in buona salute anche in assenza di malattia metastatica: sia nella prevenzione primaria sia in quella secondaria, che diventa ancora più importante nella gestione dei tumori al seno e alla prostata in terapia endocrina” puntualizza Toni Ibrahim, che presiede la Società italiana di osteoncologia. “Quanto più le ossa sono sane, infatti, tanto minori sono le probabilità di avere complicanze, come le fratture da osteoporosi indotte dai trattamenti oncologici stessi.”
Non di sole terapie mediche è comunque costituito l’approccio odierno alle metastasi ossee. “Di fronte abbiamo pazienti con un'aspettativa di vita di diversi anni, ragion per cui occorre prendersi cura anche della loro qualità di vita” conclude Toni Ibrahim. “Il controllo del dolore e la possibilità di essere socialmente attivi rappresentano delle priorità nella gestione della malattia metastatica ossea. Con la Società italiana di osteoncologia, siamo al lavoro per creare dei team multidisciplinari in tutte le Regioni, cui partecipino specialisti delle cure palliative, fisiatri, psicologi e nutrizionisti. Non è necessario che una équipe di questo tipo esista in ogni città, è sufficiente ce ne sia una per Regione, purché la gestione di questi pazienti sia sempre centralizzata.”
Sebbene molto meno di frequente, anche i tumori pediatrici solidi possono generare metastasi ossee. È il caso soprattutto del neuroblastoma, del rabdomiosarcoma, del tumore di Wilms, del sarcoma di Ewing e del condrosarcoma. Più rare, ma gravate da una prognosi peggiore, sono invece le metastasi ossee da osteosarcoma. “Parliamo di un’entità clinica ben definita e pur-
troppo quasi sempre gravata da una prognosi infausta” specifica Ibrahim. L’unica possibilità di cronicizzare la malattia (sopravvivenza a cinque anni inferiore al 30 per cento) è rappresentata da una buona resezione chirurgica sia del tumore primitivo sia delle macrometastasi. Chemio e immunoterapia purtroppo sono di norma poco efficaci.
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ALLE OSSA: UN PROBLEMA
RIGUARDA ANCHE I BAMBINI
METASTASI
CHE
Guida alle terapie
Terapie a bersaglio molecolare
In questo articolo:
— ANTICORPI CONIUGATI
— EFFETTI COLLATERALI
— TERAPIA CONIUGATA
TERAPIE A BERSAGLIO MOLECOLARE PER UNA CURA SEMPRE
PIÙ PERSONALIZZATA
La ricerca di base ci ha permesso di avere una conoscenza sempre maggiore dei meccanismi di sviluppo e crescita dei tumori. Negli ultimi anni, queste conoscenze hanno permesso di sviluppare terapie mirate, in determinati casi molto efficaci, che colpiscono alcuni di quei meccanismi a cura di
Roberta
Villa
Il primo a teorizzare un “proiettile magico”, in grado di raggiungere le cellule tumorali risparmiando quelle sane, fu l’immunologo e microbiologo tedesco Paul Ehrlich, alla fine dell’Ottocento. Il percorso per arrivare a terapie sempre più mirate e meno tossiche per l’organismo è stato però lungo. Un risultato raggiunto attraverso decenni di ricerche scientifiche, talvolta senza che quegli studi sembrassero avere un’immediata ricaduta pratica. Passo a passo, grazie alla sete di conoscenza di generazioni di scienziati, sono state messe in luce, a un livello crescente di dettaglio, le peculiarità di diversi tumori, così da individuare, per molti di essi, un tallone di Achille dove colpirli.
“La maggiore conoscenza di cui disponiamo oggi grazie alla ricerca permette di classificare i tumori in maniera più accurata, prevedere con maggiore attendibilità il
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loro andamento, ma soprattutto sviluppare e poi scegliere per ciascuno i trattamenti mirati più efficaci” spiega Robin Foà, ematologo e ricercatore sostenuto da AIRC, di cui abbiamo raccontato la storia nell’articolo di apertura di questo numero.
Fino a qualche tempo fa, le terapie
– da adattare eventualmente all’età e condizioni del paziente – erano scelte solo in base all’organo in cui si sviluppava il tumore e all’aspetto delle sue cellule al microscopio. Si sapeva per esempio che un tumore del pancreas derivato dalle cellule che producono i succhi pancreatici
Oggi, più della localizzazione della malattia, contano spesso le mutazioni molecolari che la caratterizzano
(adenocarcinoma) è in genere molto più aggressivo di uno proveniente da quelle che producono gli ormoni (tumore neuroendocrino) e che un tumore del polmone a piccole cellule (o microcitoma) avrebbe risposto alla chemioterapia diversamente da un adenocarcinoma. Ma all’interno di queste macrocategorie i protocolli erano gli stessi per tutti.
UNA RIVOLUZIONE COPERNICANA
Oggi, invece, più della localizzazione della malattia, sia essa al seno, al colon o al polmone, contano spesso le mutazioni che la caratterizzano. Gli stessi medicinali possono rivelarsi utili per trattare tumori sviluppatisi in sedi diverse, ma che presentano lo stesso bersaglio molecolare. Viceversa, due pazienti che hanno un cancro nello stesso organo, e che quindi un tempo avrebbero ricevuto lo stesso tipo di cura, possono oggi essere trattati in modo molto differente, affinché ciascuno abbia la maggiore e migliore aspettativa di vita. Da qui deriva un vero e proprio cambio di paradigma nella cura del cancro, almeno nei casi in cui le sue caratteristiche molecolari siano note e possano diventare il bersaglio del trattamento.
Nel 2020, la Food and Drug Administration statunitense ha per la prima volta autorizzato un medicinale antineoplastico, selpercatinib, da usare in presenza di una mutazione del gene RET, indipendentemente dalla sede in cui il cancro si è sviluppato. Si parla in questo caso di “indicazione agnostica”, la stessa che ha portato nel 2021 l’Agenzia italiana del farmaco ad autorizzare il farmaco larotrectinib per tutti i tumori con una fusione dei geni NTRK, indipendentemente da dove sono localizzati. Per questo, l’analisi genetica per la ricerca delle mutazioni più frequenti dovrebbe essere garantita ogni volta vi sia la concreta possibilità di adottare una cura più efficace che blocchi la malattia. Talvolta, poi, un esame più approfondito del genoma del cancro consente anche di individuare mutazioni rare in quella sede, ma per cui esistono trattamenti sviluppati per tumori che più frequentemente si sviluppano in altri organi.
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CACCIA AL BERSAGLIO
Si possono considerare terapie mirate anche quelle di tipo ormonale, utilizzate per esempio nei tumori al seno che hanno recettori per gli estrogeni, o l’immunoterapia, che potenzia la difesa dell’organismo contro il tumore.
Più in generale però per terapie a bersaglio molecolare si intendono quelle in grado di bloccare in maniera specifica un’attività indispensabile per la crescita o la sopravvivenza delle cellule tumorali, senza interferire in maniera significativa con i tessuti sani. Verso strutture che si trovano fuori dalle cellule (come il fattore che fa proliferare i vasi sanguigni, VEGF), o sulla loro superficie esterna, si possono adottare anticorpi monoclonali (medicinali caratterizzati dal suffisso -ab); quando l’attenzione si sposta su processi molecolari interni alla cellula, si può invece intervenire con piccole molecole, che in genere si possono prendere per bocca e i cui nomi finiscono di solito con il suffisso -ib.
Per chi ha un tumore alimentato da un meccanismo già noto, la disponibilità di una terapia mirata a bersaglio molecolare capace di colpirlo può rappresentare una vera svolta, che cambia radicalmente in meglio la storia della malattia.
IL RUOLO DELL’EMATOLOGIA
In questo settore, come in molti altri filoni dell’oncologia, lo studio delle leucemie ha fatto da apristrada, anche per la maggior facilità di ottenere materiale da studiare con un semplice prelievo di sangue o midollo osseo, invece di dover dipendere dalla quantità e qualità del tessuto prelevato con maggiori difficoltà attraverso un intervento chirurgico o una biopsia.
“La prima dimostrazione di efficacia di una terapia a bersaglio molecolare è stata infatti quella ottenuta dopo aver scoperto il meccanismo alla base della leucemia acuta promielocitica, che un tempo aveva un’altissima letalità a causa di gravi manifestazioni emorragiche” spiega Foà. “Già da molti anni riusciamo invece a curarla bene con l’acido retinoico associato alla chemioterapia.
Più recentemente, con l’aggiunta di un derivato dell’arsenico, moltissimi pazienti possono essere trattati – se il tumore viene diagnosticato tempestivamente – senza chemioterapia.” Per arrivare a questo risultato è stata fondamentale la ricerca italiana, che ha avuto un ruolo importante anche nello sviluppo clinico della prima piccola molecola a bersaglio molecolare, imatinib, capostipite di una vasta famiglia di medicinali detti inibitori delle tirosin-chinasi.
“L’inizio di questa straordinaria storia risale addirittura al 1960, quando venne individuata la prima anomalia citogenetica dimostrata in un tumore umano, il cosiddetto ‘cromosoma Philadelphia’, nelle cellule di un paziente con leucemia mieloide cronica” racconta l’ematologo. “De -
ti tumori solidi è KRAS, ma i tentativi di bloccarlo o neutralizzarlo sono stati fino a poco tempo fa infruttuosi, tanto che qualcuno pensava che non fosse possibile trovare un farmaco mirato contro questo gene. I pessimisti si sbagliavano: da pochi mesi è stato autorizzato sotorasib per il tumore del polmone non a piccole cellule in fase avanzata che presenta una specifica mutazione, la più frequente, di questo gene, KRAS (G12C). Sempre per il tumore del polmone non a piccole cellule c’è anche lorlatinib, un farmaco appena autorizzato anche in Italia come prima linea nei casi avanzati mai trattati prima. Perché funzioni, occorre che nel tumore
Molti ricercatori sono al lavoro per capire come rendere permanenti in tutti i tumori i brillanti risultati ottenuti con le terapie a bersaglio molecolare
cenni di ricerca, a partire da questa osservazione, portarono allo sviluppo di una nuova generazione di medicinali grazie ai quali oggi questi pazienti, che un tempo avevano una prognosi di pochi anni, hanno invece un’aspettativa di vita non molto diversa da quella dei coetanei sani, quasi sempre senza dover ricorrere a chemioterapia o trapianto di midollo.”
Come abbiamo raccontato nell’intervista a Robin Foà a pagina 6, questa cura innovativa e molto meno tossica della chemioterapia è stata poi sperimentata anche nei casi di leucemia linfoblastica acuta in cui si osservava la stessa alterazione, cioè il cromosoma Philadelphia, con ottimi risultati.
I SUCCESSI SUI TUMORI SOLIDI Non è sempre così facile: il gene più spesso mutato e responsabile di mol-
si trovi una mutazione del gene ALK, cosa che si verifica solo in poco più del 5 per cento delle persone con tumore del polmone non a piccole cellule, che a loro volta rappresentano l’80 per cento circa di tutti i casi. I risultati ottenuti con questo approccio terapeutico sono spesso sorprendenti, ma purtroppo non sempre equivalgono a una guarigione. La remissione della malattia ha una durata variabile nel tempo, dopodiché spesso si può verificare una recidiva del tumore, divenuto resistente alle stesse cure che inizialmente l’avevano messo sotto controllo. Per questo molti ricercatori hanno spostato i loro sforzi sulle ragioni e le modalità con cui le cellule tumorali imparano ad aggirare i farmaci, e soprattutto su come contrastare questo fenomeno, per rendere permanenti in tutti i tumori i brillanti risultati ottenuti con le terapie a bersaglio molecolare.
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Cancro nei giovani
Aumento incidenza
I TUMORI TRA I GIOVANI SONO IN AUMENTO?
In questo articolo:
— PREVENZIONE
— TUMORI NEL MONDO
— REGISTRI TUMORI
Uno studio internazionale molto discusso negli ultimi mesi ha registrato un aumento dei casi di tumore nelle persone con meno di 50 anni. Un dato però forse meno allarmante di quanto possa sembrare
a cura di Michela Vuga
Secondo uno studio internazionale pubblicato sulla rivista scientifica BMJ Oncology qualche mese fa, nel mondo i casi di tumore diagnosticati prima dei 50 anni sarebbero aumentati, negli ultimi trent’anni, addirittura del 79 per cento. Quanto dobbiamo preoccuparci? E l’allarme riguarda anche l’Italia? “Chiariamo subito che in Italia i dati dei registri di popolazione mostrano che sotto i 50 anni i nuovi casi diagnosticati ogni anno sono sostanzialmente stabili o con minime variazioni” sottolinea Luigino Dal Maso, del CRO – Centro di riferimento oncologico di Aviano e ricercatore AIRC. Come leggere allora il dato internazionale che tanto allarme ha creato? Contestualizzandolo, perché l’enorme aumento dei casi segnalato è in gran parte spiegato dall’aumento della popolazione mondiale.
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UN PODCAST FONDAMENTALE
Questo articolo è disponibile in versione podcast. Scopri dove ascoltarlo inquadrando il QR Code.
NUMERI ASSOLUTI E TASSI STANDARDIZZATI
Lo studio ha indagato l’incidenza di 29 tipi di tumore a livello globale nella fascia di età 15-49 anni, elaborando i dati epidemiologici del Global Burden of Disease, che analizza a livello mondiale l’impatto delle diverse malattie e i fattori di rischio. Il punto è che gran parte delle conclusioni dello studio sono basate su numeri assoluti, ovvero non tengono conto del fatto che dal 1990 al 2019 la popolazione mondiale nella fascia di età 15-49 anni è cresciuta del 45 per cento. “Se la popolazione aumenta quasi della metà, ovviamente anche il numero totale di tumori aumenta” spiega Dal Maso. “È chiaro che l’incremento in termini assoluti è importante per le persone e la società, specie nei Paesi in cui la popolazione giovane aumenta più rapidamente. Tuttavia, per effettuare confronti tra nazioni e periodi storici diversi, è importante non guardare solo ai numeri assoluti ma anche ai tassi di incidenza, che tengono conto di come varia il numero e la distribuzione di età della popolazione.” Questo significa confrontare il numero di nuove diagnosi di cancro a parità di persone. Nello specifico, di solito il tasso standardizzato si calcola misurando il numero di nuovi casi riscontrati in un anno ogni 100.000 persone. Dunque, quel 79 per cento di aumento di neoplasie tra i giovani denunciato dallo studio andrebbe riletto tenendo conto dei tassi standardizzati, che sono peraltro riportati in parte nello studio: “In estrema sintesi, se si guarda ai tassi di incidenza standardizzati per età che gli stessi autori hanno calcolato, e si tiene cioè conto dell’aumento e dell’invecchiamento
della popolazione, un incremento dell’incidenza dei tumori in tutto il mondo c’è ma è più contenuto. Interessante notare che negli ultimi 20 anni considerati non si osservano variazioni rilevanti per tutti i tumori né per gli uomini nella fascia di età 15-49 anni, stabili a circa 65 casi ogni 100.000 maschi, né per le donne nella stessa fascia d’età, costanti attorno a 90 per 100.000”.
Quindi da un lato è giusto preoccuparci perché a livello globale l’aumento della popolazione si traduce in un aumento assoluto anche delle malattie oncologiche che i sistemi sanitari si troveranno ad affrontare. Dall’altro, se si considerano i tassi standardizzati, emerge un altro quadro più articolato, forse meno preoccupante ma che deve comunque ricordarci l’importanza della prevenzione primaria e di quella secondaria attraverso gli screening.
LA SITUAZIONE ITALIANA
Per capire qual è la situazione in Italia Dal Maso ha verificato i dati di alcuni registri tumori italiani: “Per esempio, se guardiamo ai casi osser-
nelle donne. L’aumento nelle donne sotto i 50 anni di età riguarda in particolare le nuove diagnosi di tumori della mammella, della tiroide e i melanomi, mentre le diagnosi di tumori che tante preoccupazioni hanno suscitato di recente, quali quello del colon-retto (5 per cento di tutti i casi in questa età), risultano in calo dell’1 per cento l’anno in entrambi i sessi negli ultimi 10 anni, come in calo sono le nuove diagnosi di tumori del pancreas nei giovani”.
LA SALUTE È UNO STILE DI VITA
Ma allora cosa dobbiamo fare per arginare l’aumento di casi tra gli under 50? La risposta non è facile ma va in ogni caso ricordato che almeno il 40 per cento dei tumori in tutte le fasce di età si potrebbe evitare mantenendo fin da giovani uno stile di vita sano. Se però guardiamo alla realtà italiana, non si sta facendo abbastanza per prevenire l’esposizione dei giovani ai fattori di rischio modificabili: oltre il 20 per cento dei
La prevenzione dei tumori nelle giovani generazioni passa da abitudini e comportamenti salutari e dall'adesione agli screening per la diagnosi precoce
vati in Veneto e Friuli Venezia Giulia, emerge che l’incidenza per tutti i tumori nella fascia di età 0-49 nelle femmine è passata da circa 140 casi per 100.000 donne registrati nel 2000 ai 170 del 2019; mentre nei maschi i casi sono costanti negli ultimi venti anni, intorno agli 80-85 per 100.000. Andamenti simili, ovvero tassi costanti negli uomini e in leggero aumento nelle donne, si osservano anche nell’area di Napoli, mentre in Emilia Romagna il numero di nuovi casi è stabile sia negli uomini sia
bambini e degli adolescenti italiani è in sovrappeso o obeso, la percentuale di ragazzi che inizia a fumare è rimasta invariata negli ultimi anni, e non ci sono dati incoraggianti per quanto riguarda l’abitudine alla sedentarietà e il consumo di alcol. Fondamentale sarebbe quindi promuovere sempre di più iniziative che fin da bambini aiutino a comprendere l’importanza sia di mantenere abitudini di vita salutari, sia di aderire ai programmi di vaccinazioni che prevengono i tumori e agli screening.
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Diritti dei pazienti
Oblio oncologico
OBLIO ONCOLOGICO: IL DIRITTO A ESSERE GUARITI
In questo articolo:
— TUMORI PEDIATRICI
— DISCRIMINAZIONI
— ASPETTATIVA DI VITA
È entrata in vigore lo scorso gennaio la nuova legge sull’oblio oncologico, che sancisce il diritto per le persone guarite da un tumore a non essere discriminate per la loro passata malattia
“L'
a cura di
Michela Vuga
oblio oncologico è il diritto a cancellare le cicatrici sociali del cancro.” In questa frase è racchiuso il più profondo significato della legge sull’oblio oncologico (la numero 193/23, entrata in vigore il 2 gennaio 2024), che stabilisce il diritto delle persone guarite dal cancro a non fornire informazioni e a non subire indagini in merito alla propria pregressa neoplasia. A pronunciarla è Francesco Perrone, presidente AIOM – Associazione italiana di oncologia medica, direttore della Struttura complessa sperimentazioni cliniche dell’Istituto nazionale tumori Pascale di Napoli e ricercatore AIRC, che aggiunge: “È importante sottolineare che il valore della legge sull’oblio oncologico non è solo di tipo amministrativo, ma va oltre. D’ora in poi chi è guarito da un tumore non sarà più messo nella condizione di dover dichiarare di aver avuto la malattia, rivivendo così un passato che dal punto di vista psicologico pesa enormemente, perché equivale a un non guarire mai. Al contrario, questa legge aiuterà molti ex pazienti a liberarsi dalla sensazione di essere ancora malati”.
24 / Fondamentale / Aprile 2024 / Diritti dei pazienti / Oblio oncologico
I DIRITTI RICONOSCIUTI
L’articolo 3 della Costituzione italiana stabilisce l’eguaglianza di tutti i cittadini. La legge sull’oblio oncologico si rifà a questo articolo, e nasce su spinta dell’Unione europea, che, nell’ambito delle iniziative per la lotta contro il cancro, due anni fa chiese agli Stati membri di garantire entro il 2025 il diritto all’oblio a tutti i cittadini. L’Italia è il settimo Paese a emanare una legge ad hoc dopo Francia, Belgio, Lussemburgo, Olanda, Portogallo e Romania. La norma tutela dalle possibili discriminazioni e stabilisce il diritto per i pazienti guariti da un tumore ad avere lo stesso trattamento di coloro che non si sono mai ammalati di cancro in situazioni per lo più comuni a tutti i cittadini: la richiesta di un mutuo o di un prestito a una banca, la stipula di un’assicurazione, la partecipazione a un concorso pubblico o privato, o ancora la richiesta di adottare un bambino. “Sono casi in cui è necessario compilare dei moduli dove si pongono domande sulle malattie di cui si soffre o si è sofferto in passato, a volte anche in modo molto diretto. Per esempio: 'lei è mai stato affetto da una malattia neoplastica?'” spiega
Perrone. “Fino a oggi, dichiarando di aver avuto un tumore, il rifiuto, per esempio nella richiesta di mutuo, era praticamente certo, ma grazie a questa legge, per cui c’è stato un forte impegno di AIOM e di Fondazione AIOM, chi è guarito dal cancro non deve riferire nulla e queste discriminazioni saranno superate.”
GUARIRE DAL CANCRO
Ma quando si può dire che una persona è guarita dal cancro? Quando l’aspettativa di vita è diventata analoga a quella della popolazione generale: la legge, rispettando i criteri scientifici, stabilisce che si è considerati guariti trascorsi dieci anni dalla fine delle cure, ridotti a cinque per chi si è ammalato prima dei 21 anni. Come si è arrivati a stabilire queste soglie? “Bisogna valutare quanto tempo deve passare, senza necessità di cure, per raggiungere l’aspettativa di vita di chi non si è mai ammalato” spiega Perrone. “Questo chiaramente cambia da cancro a cancro, ma per favorire la stesura di questa legge è stata fatta una stima media di quello che può essere il tempo che deve trascorrere, fissandolo a dieci anni.” Diversa la situazione per chi si è ammalato prima dei 21
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3,6 milioni che hanno avuto l’esperienza di un tumore. Per alcune neoplasie, come per esempio alcune forme che colpiscono la tiroide e buona parte di quelle del testicolo, la guarigione si può dichiarare in tempi più brevi, anche prima dei cinque anni. Per questo la stessa legge sull’oblio oncologico dà mandato al Ministero della salute di emanare entro tre mesi un decreto per indicare le malattie oncologiche per le quali basta un intervallo più breve per dichiarare la guarigione (al momento in cui chiudiamo Fondamentale il decreto non è stato ancora varato, NdR). Il decreto porterà dunque a breve a un aumento
La legge sull'oblio oncologico approvata a dicembre 2023 in un certo senso "ufficializza" la possibilità di guarire da un tumore
anni: “I tumori che insorgono in età giovanile sono tipicamente neoplasie che, quando guariscono, guariscono in tempi più brevi. E, di conseguenza, anche l’aspettativa di vita diventa uguale a quella di chi non ha avuto il cancro, con una guarigione attesa in tempi più rapidi. Per questo è stata decisa una soglia di cinque anni”.
UNA LEGGE PER PIÙ DI UN MILIONE DI ITALIANI
Oggi si stima che gli italiani guariti dal cancro siano circa 1 milione, sui
del numero di cittadini che potranno beneficiare di questa legge.
UN CAMBIO DI PARADIGMA
Fino a pochi anni fa, parlare di guarigione da un cancro, o solo chiedere a un oncologo se era possibile guarire, era a dir poco un azzardo. Oggi le cose sono cambiate, la legge 193/23 è un traguardo importante che in un certo senso “ufficializza” la possibilità di guarire da un tumore. E contribuirà di certo a cambiare la percezione della malattia oncologica.
Aprile 2024 / Fondamentale / 25 / Diritti dei pazienti / Oblio oncologico
I TRAGUARDI DEI NOSTRI RICERCATORI
In questo articolo:
— TUMORE ALL’OVAIO — SCREENING — PAP TEST
a cura di Jolanda Serena Pisano
TUMORE ALL’OVAIO: E SE LA DIAGNOSI PRECOCE
DIVENTASSE POSSIBILE?
Uno studio sostenuto anche da AIRC potrebbe portare a realizzare un semplice test per la diagnosi precoce del cancro all’ovaio, un tumore oggi difficile da curare proprio perché scoperto molto spesso in fase avanzata
Il tumore ovarico è una delle più grandi sfide della ricerca. Nonostante le numerose indagini che mirano a trovare come prevenire, individuare e trattare meglio questa neoplasia, le scoperte che fanno la differenza nel cancro all’ovaio procedono ancora a piccoli passi. Uno dei motivi è che i tumori ovarici sono associati a numerose mutazioni genetiche che possono variare all’interno dello stesso tumore e a distanza di tempo, per cui è difficile trovare un bersaglio terapeutico chiave per contrastarle. E, anche se spesso inizialmente le cellule cancerose rispondono alle terapie, anche fino a portare alla guarigione della malattia, in caso di recidiva in genere sviluppano una resistenza al trattamento. Così, in media la sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi di tumore all’ovaio è solo del 43 per cento, contro, per esempio, il 79 per cento per il tumore all’utero. Numeri di grande impatto, anche perché ogni anno in Ita-
lia si registrano circa 6.000 nuove diagnosi di questo tipo di cancro, che quindi risulta essere uno dei 10 tumori più diffusi tra le donne nel nostro Paese. In realtà, un modo per rendere questa malattia più facile da curare esiste: diagnosticarla precocemente. In questi casi la sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi supera il 90 per cento. Il problema è che in quasi 8 donne su 10 la neoplasia è individuata quando è già in fase avanzata, a causa di 3 principali fattori: la rapidità del tumore nel diffondersi ai tessuti vicini, i sintomi della malattia, molto generici o assenti, e la mancanza di strategie di screening valide e specifiche per una diagnosi precoce. I classici controlli ginecologici, quali esame della pelvi e Pap test, e altri esami a oggi sviluppati non sono efficaci per identificare questo tumore nelle sue fasi iniziali.
Ma i risultati di uno studio sostenuto dalla Fondazione Alessandra Bono e da AIRC, pubblicati
26 / Fondamentale / Aprile 2024 / Rubriche / I traguardi dei nostri ricercatori
Rubriche
nel dicembre del 2023 sulla rivista Science Translational Medicine, potrebbero rappresentare una svolta. Il gruppo di ricerca è riuscito a rilevare tracce di DNA tumorale proveniente dal cancro ovarico in campioni raccolti molti anni prima della diagnosi, quando la malattia era verosimilmente nelle prime fasi del suo sviluppo. I campioni erano stati prelevati per effettuare il Pap test, cioè l'esame comunemente usato per la diagnosi precoce di un altro tipo di cancro, quello del collo dell’utero.
“In uno studio precedente ci eravamo chiesti quali caratteristiche del tumore dell’ovaio si potessero riscontrare anche nelle cellule tumorali del cancro in stadio iniziale. In quell’occasione, avevamo osservato una peculiarità del tumore dell’ovaio: la presenza di instabilità genomiche, cioè di alterazioni nella struttura dei cromosomi che non sono presenti nelle cellule sane” spiega Maurizio D’Incalci, professore di farmacologia presso la Humanitas University e responsabile del Laboratorio di farmacologia antitumorale all’IRCCS Istituto clinico Humanitas. Insieme a Sergio Marchini, responsabile dell’Unità di genomica traslazionale dello stesso istituto, D’Incalci ha ideato e coordinato lo studio per capire se rilevare le anomalie del genoma caratteristiche del cancro all’ovaio potesse aiutare a individuare precocemente questi tumori.
Il gruppo di ricerca, in collaborazione con numerosi centri italiani, ha selezionato 113 pazienti con tumore ovarico che si erano sottoposte a Pap test nei 10 anni precedenti la diagnosi. “Abbiamo
estratto il DNA dai tamponi dei loro Pap test, e in base alle analisi è emerso che con questa tecnica sarebbe stato possibile rilevare alterazioni molecolari nel 75 per cento dei casi di tumore all’ovaio anni prima della diagnosi.” In una paziente, l’analisi ha identificato cellule tumorali in un campione risalente a ben 9 anni prima rispetto alla manifestazione della malattia.
Ora i ricercatori dovevano però verificare se ci fosse la possibilità di risultati falsi positivi, ossia di rilevare queste alterazioni anche in donne senza un tumore all’ovaio. Il gruppo ha dunque effettuato la stessa indagine retrospettiva sui campioni raccolti da 77 soggetti che successivamente non avevano sviluppato questo tipo di cancro. Il confronto tra i campioni ha dato un risultato molto netto, rilevando meno del 4 per cento di falsi positivi.
Basandosi su questi risultati, quindi, potrebbe essere possibile realizzare un test non invasivo e implementabile su larga scala. “Ci sono le premesse per credere che questo test possa aprire una via completamente nuova e schiudere la possibilità di diagnosticare precocemente il tumore all’ovaio” commenta Maurizio D’Incalci, sottolineando però che servono ulteriori studi, più ampi e prospettici, per poterne verificare l’efficacia e l’applicabilità. “Sarà necessario coinvolgere un gran numero di donne per avere dati talmente solidi da proporre un’applicazione generalizzata di questo test.” Il gruppo di ricercatori prosegue quindi i promettenti studi, resi possibili anche grazie al sostegno di AIRC.
Aprile 2024 / Fondamentale / 27 / Rubriche / I traguardi dei nostri ricercatori
IL CANCRO, UNA DELLE MILLE IMPERFEZIONI DELLA VITA
Pina ha ricevuto una diagnosi di tumore ovarico 20 anni fa. Una situazione particolarmente complessa. “Ma anche grazie alla ricerca sono ancora qui, e con una buona qualità di vita”
“C
ome immagino il futuro? Bello. Faticoso, da guadagnarsi con le unghie, ma bello. Sono consapevole che ogni giorno per me è regalato e forse questa consapevolezza di ‘vivere in proroga’ mi fa assaporare tutto con più felicità.”
Giuseppina – per gli amici Pina – ha 62 anni e da 20 convive con un tumore all’ovaio.
È l’estate del 2003 quando comincia a perdere i capelli. Si rivolge a centri specialistici che non rilevano nessuna causa organica. I medici ipotizzano il problema sia dovuto alla depressione, tuttavia Pina è convinta che non sia così, ma che il suo malessere derivi da qualcos'altro. Pochi mesi dopo, di ritorno da un viaggio all’estero, accusa un nuovo sintomo: ha una gamba molto gonfia. Inizialmente si pensa a una malattia infettiva, ma ancora una volta gli esami danno esito negativo. Lei vuole vederci chiaro e riesce a far approfondire il suo caso con un prelievo di un linfonodo all’inguine. A quel punto la sorpresa: gli esami rilevano una metastasi.
“Dopo un consulto con il mio ginecologo, io e mio marito non ci abbiamo pensato un attimo: senza esitazioni ci siamo rivolti a Francesco Raspagliesi, all’Istituto nazionale dei tumori di Milano.” La diagnosi è chiara: tumore ovari-
Testimonianze
all’ovaio 28 / Fondamentale / Aprile 2024
Tumore
a cura di Antonino Michienzi
/ Testimonianze / Tumore all’ovaio
co al IV stadio. Significa che la malattia, oltre che nell’organo primitivo, si è diffusa ad altre parti del corpo.
“Il professor Raspagliesi è stato chiaro: il mio era un caso particolarmente difficile; mi ha prospettato subito una chemioterapia, nella speranza che il trattamento riducesse l’invasività del tumore e si potesse compiere, di lì a pochi mesi, un intervento demolitivo” racconta Pina. “È stata una doccia fredda; in quel momento l'ho odiato per avermi presentato la verità in maniera così diretta. Ma fece benissimo, tanto che oggi gli sono infinitamente grata.”
Pina a quel tempo ha 42 anni e un bimbo di 6. “La mia paura più grande era per mio figlio: chi lo avrebbe cresciuto se fosse andata male? Io sapevo esattamente cosa significa crescere senza madre.”
Il tumore all’ovaio ha infatti segnato non solo la storia di Pina, ma quella di tutta la sua famiglia. Sua madre si ammalò della stessa malattia quando aveva la sua stessa età e, nonostante gli sforzi, i tentativi di rivolgersi agli specialisti migliori, i viaggi all’estero per sottoporsi a cure all’avanguardia, non si riuscì neanche ad arrivare a una diagnosi corretta. “Si pensò all’intestino, perché quando fu operata il tumore si era diffuso pure a quell’organo. In realtà anche lei aveva un tumore ovarico.”
Lo si comprenderà dopo, quando si scoprirà che Pina è portatrice di mutazioni a carico dei geni BRCA, che aumentano drasticamente il rischio di tumore ovarico e al seno. Lo sono anche le sue sorelle; la più piccola si è ammalata come lei di tumore ovarico, ma purtroppo le terapie non sono state altrettanto efficaci.
“Da quando si è ammalata mia mamma a oggi la ricerca ha fatto passi da gigante. Però resta ancora molto da fare. Come me, anche mia sorella aveva una mutazione a un gene BRCA; tuttavia, i trattamenti che per me si sono rivelati una panacea per lei non hanno sortito effetti. Oggi possiamo immaginare che il suo tumore fosse caratterizzato da ulteriori mutazioni che inibivano l’azione di quei farmaci. Per questo la ricerca non può fermarsi e deve andare sempre più a fondo per trovare la chiave giusta per ogni serratura. Perché ogni tumore è diverso dall’altro.”
Lo sa bene, Pina, e lo sta vedendo quo-
tidianamente con i suoi occhi. Non solo per la sua esperienza da malata oncologica, ma anche per l’attività che svolge per il Comitato etico territoriale Lazio Area 3, che ha sede al Policlinico Gemelli di Roma. Dopo aver frequentato un percorso finalizzato a creare pazienti consapevoli, oggi è membro del team che ha il compito di valutare preliminarmente le sperimentazioni, allo scopo di tutelare i diritti e la sicurezza dei malati. “È una grande responsabilità e sono onorata di assolvere a questo compito” commenta. “Valutiamo nuove sperimentazioni, ma anche utilizzi di farmaci innovativi, non ancora in commercio, per pazienti che non hanno altre chance terapeutiche.”
Per lei, che da ragazza aveva iniziato a studiare medicina e aveva dovuto interrompere il percorso di studi a causa della morte della madre, è una grande soddisfazione. E un po’ un cerchio che si chiude.
Pina non è guarita dal cancro. Dopo la chemioterapia e l’intervento demolitivo eseguiti nel 2004 a Milano, è andata incontro a otto recidive. Da Milano, ha proseguito il suo percorso di cura a Roma, al Policlinico Gemelli. Qui si è presa cura di lei Domenica Lorusso, ricercatrice AIRC. Un’altra persona per cui Pina prova immensa gratitudine. “In questi anni mi sono affidata completamente a lei, che spesso ha fatto scelte coraggiose nel mio percorso terapeutico. Scelte che solo chi ha una grande competenza può fare, e oggi posso dire che si sono rivelate azzeccate: sono passati 20 anni e io sono ancora qui e con una buona qualità di vita,
nonostante le recidive.”
Ognuna è stata una scalata. “Però ogni volta ero convinta che sarei potuta riuscire a superare anche quella. Non perché sia forte; sono una persona perfettamente normale” dice. “Forse, semplicemente, la vita precedente – quella che ho vissuto dopo la morte di mia madre – mi ha allenato facendomi capire che nella vita c’è anche la malattia, che non ci si deve aspettare che le cose siano perfette al 100 per cento, che si possono passare momenti brutti. Ma che, nonostante tutto ciò, la vita va avanti, la si può vivere con dignità ed è possibile sempre trovarvi momenti belli e felici.”
L’AZALEA DELLA RICERCA
Le volontarie e i volontari AIRC saranno presenti in migliaia di piazze in tutta Italia domenica 12 maggio, in occasione della Festa della mamma.
Con un contributo minimo di 18 euro distribuiranno l’Azalea della Ricerca, per raccogliere risorse fondamentali destinate alla ricerca sui tumori che colpiscono le donne.
Per informazioni da fine aprile visita il sito azaleadellaricerca.it
/ Testimonianze / Tumore all’ovaio
Caratteristiche del cancro
UN TUMORE È UNA COMUNITÀ: CONOSCERLO PER AFFRONTARLO
In questo articolo:
— TUMORE AL SENO
— METASTASI
— RECIDIVE
I tumori non sono monoliti, ma comunità composte da diverse famiglie di cellule che si scambiano sostanze reciprocamente utili. Quanto più le comunità cooperano tra loro, tante più chance hanno di affermarsi
Ea cura di Antonino Michienzi
siste un proverbio diffuso con diverse varianti in tutto il mondo e che suona più o meno così: “Se vuoi andare veloce vai da solo; se vuoi andare lontano vai insieme a qualcuno”. Una miriade di specie ha seguito questa indicazione, facendo della cooperazione il punto di forza per superare le sfide poste dall’ambiente e prosperare. Questa massima sembra essere rispettata anche dal cancro, che, a dispetto di quanto si tende a immaginare, non è un’entità monolitica, ma è formata da diverse famiglie di cellule che possono cooperare, scambiandosi informazioni e sostanze reciprocamente utili. Questa collaborazione si rivela particolarmente vincente nei momenti più difficili, vale a dire quando il tumore è ancora costituito da poche unità di cellule, quindi nelle fasi iniziali della malattia oppure quando si formano le metastasi. È quanto ha scoperto in uno studio pubblicato su Science Advances il gruppo di ricerca coordinato da Kristina Havas all’IFOM, l’Istituto di oncologia molecolare di AIRC.
30 / Fondamentale / Aprile 2024 / IFOM / Caratteristiche del cancro
IFOM
“Dagli insetti ai batteri, il mondo è pieno di comunità diverse. A volte competono, ma spesso tra loro c’è collaborazione. Ci siamo chiesti se questa sinergia esista anche nei tumori, come funzioni e se possa aiutare a superare i momenti più difficili” spiega Havas.
I ricercatori hanno cercato di rispondere a questa domanda partendo da campioni di cancro al seno triplo negativo esaminati come una comunità, composta da differenti famiglie di cellule.
“Spesso per rispondere a domande complesse bisogna creare sistemi molto semplici” spiega la ricercatrice. Negli esperimenti, il team ha analizzato le caratteristiche di queste comunità, gli scambi di sostanze tra le diverse famiglie, la velocità di crescita in diverse condizioni, la distribuzione nello spazio, la capacità di insediarsi in nuovi ambienti.
È emerso che i tumori in cui le diverse famiglie di cellule interagiscono in maniera funzionale hanno una maggiore capacità di crescita, sia in provetta sia quando vengono impiantati in modelli animali, una condizione, questa, simile a quella che si verifica nel caso delle metastasi, in cui le cellule si trovano costrette a confrontarsi e colonizzare un nuovo ambiente.
A rendere funzionale queste comunità di cellule è soprattutto uno scambio di metaboliti. “È un processo che avviene anche nelle comunità di batteri: i diversi individui si scambiano prodotti metabolici. Quello che rappresenta lo scarto per uno può essere riutilizzato da un altro. Lo stesso sembra succedere nel caso del cancro” dice Havas.
A oggi non sappiamo esattamente quali siano i metaboliti funzionali al tumore né quali siano gli utilizzi che ne fanno le cellule. Tuttavia, compiere questo tipo di studi è fondamentale. “Lo studio della genetica dei tumori ci ha fatto fare importanti progressi e ci ha portato a un punto quanto mai avanzato nella comprensione del cancro. Ci stiamo però rendendo conto che non basta: per fare nuovi progressi è necessario adottare anche altri approcci. In questo scenario, può rivelarsi utile un approccio ecologico, che studi il tumore come una co-
munità e cerchi di capire in che modo le diverse componenti interagiscano tra loro e con l’ambiente.” Questo tipo di ricerca, per esempio, potrebbe far comprendere quali sono le condizioni che consentono a un tumore di avere successo. È ormai noto che nel corso della nostra vita migliaia di cellule “impazziscono” acquisendo caratteristiche tumorali. Tuttavia, soltanto una piccolissima parte riesce a svilupparsi e progredire fino a diventare un vero e proprio tumore, acquisendo caratteristiche di malignità. Di certo è decisivo il ruolo del sistema immunitario, che ferma la gran parte delle cellule sulla strada della trasformazione tumorale. Ma potrebbe es-
nuova teoria. Se immaginiamo il tumore come un insieme di comunità, è possibile ipotizzare che in alcuni casi le terapie ne alterino l’equilibrio eliminando qualche elemento funzionale. “È verosimile allora che i gruppi di cellule rimasti crescano a un velocità bassissima, perché sono comunità troppo piccole o perché sono comunità non funzionali” spiega Havas.
Al momento è un’ipotesi che deve essere confermata in ulteriori ricerche. Tuttavia, “sfruttando la comprensione delle complesse interazioni all’interno del cancro al seno e svelando
I tumori in cui le famiglie di cellule interagiscono in modo funzionale hanno maggiori capacità di crescita
serci altro. Come suggerisce il nuovo studio, è probabile che ad affermarsi siano solo quei tumori che riescono a formare comunità funzionali. Lo stesso potrebbe avvenire con le metastasi: “Le cellule fanno un gran viaggio e si ritrovano in un tessuto profondamente diverso da quello originario. È possibile che essere comunità funzionali si riveli un aiuto in questi nuovi luoghi ostili, in cui, per esempio, i nutrienti potrebbero non essere sufficienti”.
La ricerca potrebbe inoltre spiegare un fenomeno tipico del tumore al seno, cioè la presenza di cellule tumorali capaci di entrare in uno stato di quiescenza e risvegliarsi dopo molti anni, dando di nuovo origine alla malattia.
Nel cancro al seno, la recidiva del tumore è la principale causa di morte. Le recidive si verificano spesso a distanza dalla sede originaria e possono emergere fino a 20 anni dopo la terapia. Si ritiene che ad alimentarle siano proprio le popolazioni di cellule dormienti, ma a oggi non è chiaro cosa spinga le cellule ad “addormentarsi” né cosa, decenni dopo, le risvegli dal letargo. Il nuovo studio apre la strada a una
i segreti della dormienza tumorale, speriamo di fare significativi passi in avanti verso la riduzione della mortalità correlata a questo tumore” conclude la ricercatrice.
COS’È IFOM
IFOM, l'Istituto di oncologia molecolare di Fondazione
AIRC, è un centro di ricerca di eccellenza internazionale dedicato allo studio della formazione e dello sviluppo dei tumori a livello molecolare, nell’ottica di un rapido trasferimento dei risultati scientifici dal laboratorio alla cura del paziente. Fondato nel 1998 a Milano da Fondazione
AIRC per la ricerca sul cancro, che da allora ne sostiene lo sviluppo, IFOM oggi può contare su 269 ricercatori di 25 diverse nazionalità, e si pone l’obiettivo di conoscere meglio il cancro per poterlo rendere sempre più curabile.
Aprile 2024 / Fondamentale / 31 / IFOM / Caratteristiche del cancro
... DAL MONDO
cura di
UN VIRUS NEL GLIOBLASTOMA PER RIATTIVARE IL SISTEMA IMMUNITARIO
Dove non arrivano i farmaci, l’auspicio è quello di intervenire modificando il microambiente per rendere il tumore più aggredibile da parte del sistema immunitario. Un concetto che si sta cercando di applicare anche al glioblastoma multiforme, la più aggressiva forma di cancro al cervello (sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi inferiore al 10 per cento). In uno studio di fase 1 pubblicato su Nature, un gruppo di ricercatori del Brigham and Women’s Hospital (Boston) ha testato la sicurezza di un herpesvirus ingegnerizzato con cui infettare le cellule tumorali (preservando quelle sane) per stimolare l’intervento delle cellule del sistema immunitario. L’approccio si è rivelato sicuro e discretamente efficace. Dopo il trattamento, i ricercatori hanno osservato un aumento nella diversità delle cellule T presenti nel sito della malattia e una maggiore sopravvivenza.
I risultati dello studio hanno mostrato una risposta del sistema immunitario a
TROMBOSI ED EMBOLIA
Si stima che 1 caso su 5 di trombosi venosa profonda – sugli oltre 120.000 che si contano ogni anno in Italia – riguardi un paziente oncologico. Che il problema sia presente alla diagnosi di un tumore o compaia dopo, il tromboembolismo venoso predice una prognosi peggiore per tutte le forme di cancro. A ribadire il messaggio, uno studio danese condotto tra il 1995 e il 2020 su quasi 900.000 pazienti, i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista The Lancet Regional Health – Europe. I ricercatori hanno confrontato i tassi di sopravvivenza a 5 anni tra pazienti oncologici (soprattutto over 70) che presentavano anche tromboembolismo venoso e pazienti con la stessa malattia ma che non avevano questa problematica vascolare. Come previsto, la percentuale di sopravvivenza è risultata più alta nel secondo gruppo. Dallo studio danese è emerso che le forme di cancro più spesso associate al tromboembolismo venoso erano quelle del polmone, del colon-retto, del pancreas e dell’ovaio. La comparsa della problematica vascolare – fin dal momento della diagnosi o successivamente – è risultata associata anche a un maggior rischio di sviluppare metastasi.
32 / Fondamentale / Aprile 2024 / Notizie flash Notizie flash
POLMONARE RIDUCONO LE CHANCE DI GUARIRE DA UN CANCRO
Fabio Di Todaro
SE L’INSULINA È TROPPO
ALTA AUMENTA IL RISCHIO DI AMMALARSI DI TUMORE DEL PANCREAS
Alti livelli di insulina inducono la trasformazione delle cellule sane del pancreas in cellule tumorali. Il messaggio emerge da uno studio pubblicato sulla rivista Cell Metabolism da un gruppo di ricercatori della British Columbia University (Vancouver). Il lavoro conferma che soggetti obesi o con diabete di tipo 2 hanno anche un aumentato rischio di sviluppare un cancro del pancreas. Gli scienziati canadesi hanno lavorato su modelli murini con diversi livelli di espressione sia del gene mutato KRAS sia dei recettori per l’insulina sulle cellule acinose del pancreas. L’iperinsulinemia è stata considerata direttamente responsabile dell’insorgenza e della progressione dell’adenocarcinoma duttale pancreatico. Più nello specifico, i ricercatori hanno dimostrato che maggiori sono i livelli di insulina nel sangue (condizione comune all’obesità e al diabete di tipo 2) più significativo è lo stimolo trasmesso alle cellule acinose del pancreas. Questo stato di attivazione permanente determinerebbe un aumento dell’infiammazione, che a sua volta incrementerebbe il rischio di sviluppare la malattia neoplastica.
Maggiori i livelli di insulina, maggiore l'infiammazione e più alto il rischio di cancro
LA PREVENZIONE RIDUCE IL RISCHIO
DI (RI)AMMALARSI
DI CANCRO R
ispetto alla popolazione generale, le persone che hanno avuto alcune forme di cancro convivono con un rischio più elevato di sviluppare un secondo tumore a distanza di anni dal primo. È questa la conclusione di uno studio condotto in Danimarca e pubblicato sulla rivista The Lancet Oncology. I ricercatori del Danish Cancer Institute (Copenaghen) hanno osservato in maniera retrospettiva la frequenza di nuove diagnosi oncologiche in un gruppo di adulti che avevano fatto i conti con un tumore tra il 1997 e il 2014. L’incidenza di seconde neoplasie è cresciuta nel tempo: dal 6,3 (dopo 5 anni dalla scoperta della prima malattia) al 13,5 per cento (dopo tre lustri). Il problema si è manifestato con maggiore frequenza in chi aveva avuto un tumore della cavità orale, della vescica e delle vie urinarie. È noto che una predisposizione ereditaria e le cure oncologiche possano aumentare le probabilità che un ex paziente oncologico sviluppi una nuova malattia a distanza di tempo dalla prima. La novità che emerge da questo studio chiama in causa gli stili di vita: tra i sopravviventi, i fumatori, le persone esposte a infezioni virali e i maggiori consumatori di bevande alcoliche e carni rosse o lavorate presentavano un rischio maggiore di sviluppare una nuova malattia, determinata con ogni probabilità dall’esposizione ai fattori di rischio indicati.
Aprile 2024 / Fondamentale / 33 / Notizie flash
Vite per la ricerca
Rosalind Franklin
UNA FOTOGRAFIA MERAVIGLIOSA
In questo articolo:
— DNA
— STORIA DELLA MEDICINA
— SCOPERTE RIVOLUZIONARIE
Una delle più importanti scoperte nella storia della biologia e della medicina, la struttura del DNA, la dobbiamo a Rosalind Franklin, scienziata inglese che ci ha lasciato purtroppo prima che potesse esserle aggiudicato il premio Nobel, e di cui oggi raccontiamo la storia
Dedichiamo l’apertura di questo articolo a una fotografia che, insieme alla foto della Terra dalla Luna e al più recente scatto che ha immortalato un buco nero, entra di diritto tra le più importanti fotografie della storia della scienza.
Si chiama fotografia 51 ed è stata scattata dalla nostra protagonista, la scienziata inglese Rosalind Franklin. Questa foto non ha come soggetto mondi lontani ed enormi, ma una struttura microscopica, di dimensioni comprese tra i 2 e 2,5 nanometri, pochi milionesimi di millimetro, eppure importantissima per capire come funziona la vita.
Si, perché Rosalind Franklin è stata la scienziata che ci ha regalato la prima foto del DNA, permettendo alla comunità scientifica di comprendere come funziona questa straordinaria molecola.
a cura di Massimo Temporelli
Il DNA è racchiuso dentro ogni cellula vivente e al suo interno si nascondono i segreti della vita. Ma all’inizio degli anni Cinquanta, quando la nostra protagonista lavorava nel laboratorio del King’s College di Londra, sulla sua struttura si sapeva ancora pochissimo.
In realtà, già dal 1869 il chimico Friedrich Miescher aveva capito che la molecola del DNA era composta da zucche-
34 / Fondamentale / Aprile 2024 / Vite per la ricerca / Rosalind Franklin
ro, acido fosforico e diverse basi che contengono azoto, ma solo nel 1943 Oswald Avery, insieme ai suoi colleghi Colin MacLeod e Maclyn McCarty, aveva dimostrato che il DNA era alla base del passaggio dell’informazione
genetica da una cellula a un’altra. Nonostante queste conquiste importantissime, nessuno aveva ancora scoperto come era fatto, come funzionava, come avveniva la sua duplicazione. Per questo, dopo la Seconda guerra
Rosalind Franklin ha scattato la prima fotografia del DNA, permettendoci di capire come funziona questa molecola
mondiale, le ricerche sulla struttura del DNA erano diventate uno dei temi più importanti per la comunità scientifica: capire la forma e il funzionamento di questa molecola avrebbe potuto portare ad avanzamenti di grande valore in molte discipline, dalla chimica alla biologia, fino alla farmaceutica e alla medicina, compresa ovviamente la cura del cancro.
Tre laboratori in particolare ci stavano lavorando approfonditamente: a Cambridge, James Watson e Francis Crick erano impegnati a livello teorico nella ricostruzione di un modello della molecola del DNA; negli Stati Uniti, al California Institute of Technology, il grande Linus Pauling (che negli anni successivi avrebbe vinto non 1 ma 2 premi Nobel) sembrava il candidato con le maggiori probabilità di trovare una soluzione al problema; e infine al King’s College di Londra c’erano la nostra Rosalind Franklin e Maurice Wilkins, che lavoravano attraverso la sofisticata e innovativa tecnica dei raggi X a una ricerca sperimentale, nel tentativo di fotografare la struttura della molecola.
Come probabilmente sapete, James Watson, Francis Crick e Maurice Wilkins avrebbero vinto il Nobel nel 1962 proprio per la scoperta della struttura del DNA, ma è giusto sottolineare che Rosalind Franklin ebbe
un ruolo determinante nel raggiungere questo risultato. Infatti, la nostra protagonista e il giovane ricercatore Raymond Gosling, dopo innumerevoli esperimenti e altrettanti fallimenti, arrivarono a scattare una fotografia perfettamente nitida del DNA, alla fine della primavera del 1952. Franklin e Gosling ottennero questo incredibile risultato utilizzando i raggi X e un lunghissimo tempo di esposizione (circa 100 ore). Solo così riuscirono a immortalare una singola fibra di DNA cristallizzata. Quello scatto oggi è noto come “foto numero 51”, proprio perché fu la migliore di una serie di numerosi scatti eseguiti dai due ricercatori. Come abbiamo detto in apertura, questa incredibile immagine è una delle più importanti conquiste per la nostra specie: infatti, dobbiamo ringraziare lo scatto numero 51 se siamo riusciti a comprendere che il DNA ha la forma di una doppia elica, iniziando poi quello straordinario viaggio scientifico che ha cambiato per sempre la storia della biologia e della medicina.
Rosalind Franklin arrivò a questo risultato grazie al suo incredibile talento sperimentale e alla sua ineguagliabile abilità nel costruire strumenti per l’indagine scientifica sempre più accurati. Abilità che la nostra protagonista aveva affinato nei laboratori più importanti del mondo.
Questa ricercatrice avrebbe meritato la fama e i più illustri riconoscimenti scientifici, probabilmente anche il Nobel, se non fosse purtroppo scomparsa giovanilissima, pochi anni dopo lo scatto di quella straordinaria fotografia. Infatti, a causa di un tumore alle ovaie, Rosalind Franklin morì nel 1958, quando ancora non aveva compiuto 40 anni.
Per fortuna, negli ultimi anni la sua figura e il suo ruolo di ricercatrice nella storia della scienza sono stati rivalutati e, in fondo, anche noi, qui, siamo lieti di ricordare il suo nome, celebrare i suoi studi e il suo talento, tutti elementi che hanno donato così tanto valore alla nostra specie e che oggi permettono alla scienza e alla ricerca di regalarci sempre più strumenti per prenderci cura delle nostre fragilità.
Aprile 2024 / Fondamentale / 35 / Vite per la ricerca / Rosalind Franklin
Dieta sana e sostenibile
QUANTO COSTA MANGIARE SANO?
a cura di Riccardo Di Deo
Scegliere frutta e verdura di stagione, consumare più legumi e cucinare in autonomia sono tutte azioni che aiutano a spendere meno mangiando sano. Investire nella corretta alimentazione fin da bambini è un investimento per il futuro
L'accessibilità a una dieta sana e sostenibile è una delle principali sfide del sistema alimentare globale, in linea con l'Agenda 2030 e gli Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDG). Pertanto, molti ricercatori sono al lavoro per definire modelli alimentari che coniughino adeguatezza nutrizionale, accettabilità culturale, sostenibilità ambientale e accessibilità economica.
In merito ai costi di una dieta sana, una recente analisi condotta dalla FAO ha evidenziato che quasi 3,1 miliardi di persone nel mondo non possono permettersi di seguire un’alimentazione nutrizionalmente adeguata. In particolare, oltre 1,7 milioni di individui in Italia (il 2,9 per cento della popolazione) non hanno accesso a una dieta salutare, una quota più alta rispetto alla gran parte dei Paesi europei.
Inoltre, un terzo circa degli adulti residenti in Italia è esposto a fattori di rischio modificabili per lo sviluppo di un cancro. Nello specifico, il 33 per
cento circa delle persone è in sovrappeso e il 10 per cento obeso, il 31 per cento è sedentario e il 24 per cento fuma. I numeri più preoccupanti riguardano i bambini in età scolare: il 39 per cento circa è in sovrappeso e, di questi, il 17 per cento è obeso. Anche in quest’ultimo caso, si tratta di numeri tra i più alti in Europa, dovuti principalmente a un’insufficiente attività fisica e a un’alimentazione che si è allontanata dai principi della dieta mediterranea. A confermare quest’ultimo dato è uno studio pubblicato nel 2014 sull’International Journal of Environmental Protection and Policy, che ha mostrato come l’adesione alla dieta mediterranea tradizionale sia diminuita del 56 per cento dal 1961 al 2007 nei Paesi europei mediterranei. Un vero peccato se si considera che questo modello alimentare è in grado di coniugare perfettamente salute e sostenibilità. Centinaia di studi hanno dimostrato che questo tipo di alimentazione svolge un ruolo chiave nella prevenzione di patologie
36 / Fondamentale / Aprile 2024 / Alimentazione / Dieta sana e sostenibile
Alimentazione
croniche come le malattie cardiovascolari, il diabete, l'obesità e alcuni tipi di tumori, e al contempo genera impatti positivi sul piano economico e ambientale. Seguire la dieta mediterranea permetterebbe di ridurre da un lato la spesa sanitaria, grazie agli effetti positivi sulla salute, e dall’altro la nostra spesa quotidiana, visto che gli alimenti di origine vegetale e stagionali sono generalmente più economici rispetto a quelli di origine animale e fuori stagione.
Un recente studio condotto in Italia e pubblicato sulla rivista Frontiers in Nutrition ha confermato che una dieta sana e sostenibile consentirebbe di risparmiare 741 € all’anno pro capite rispetto al regime alimentare attuale, considerando il suo impatto sull’ambiente, sulla salute e sui costi socio-economici.
Quali sono, dunque, le strategie per seguire una dieta sana senza gravare sul proprio portafoglio?
Il Ministero della salute ha elaborato un breve opuscolo dal titolo Dieta sana = Dieta costosa? No, che, tra i consi-
gli per mangiare sano senza spendere troppo, suggerisce anzitutto di variare la propria alimentazione. Per esempio, l’opuscolo propone di alternare alla carne fonti di proteine più economiche, come i legumi. Consumare frutta e verdura di stagione permette di mangiare alimenti più gustosi riducendo i costi. Quando possibile, è utile preparare in autonomia i pasti e cucinare una serie di piatti nel tempo libero, per poi consumarli nei giorni successivi o congelarli e utilizzarli comodamente al bisogno. È consigliabile inoltre confrontare i prezzi di diversi prodotti prima di acquistarli, tenendo conto del rapporto tra prezzo e quantità e approfittando anche delle offerte.
L’opuscolo ricorda, infine, di prestare attenzione alla quantità degli alimenti che si acquistano, pianificando la spesa in base alle reali esigenze di consumo e riducendo lo spreco all’interno delle mura domestiche, imparando a riutilizzare gli avanzi con fantasia e conservando gli alimenti in modo corretto.
Variare la propria dieta è uno dei consigli fondamentali per chi vuole mangiare sano senza spendere molto
PASTA AL PESTO DI FOGLIE DI RAVANELLI
Tempo di preparazione: 25 minuti
Ingredienti per 2 persone
• Foglie di circa 200 g di ravanelli
• 30 g di mandorle
• Circa 15 foglie di basilico
• 1 spicchio d’aglio
• ½ tazzina di olio extravergine d’oliva
• 160 g di pasta integrale a piacere
Procedimento
Riempite d'acqua una pentola e procedete con la cottura della pasta.
GRAZIE!
Il 27 gennaio centinaia di migliaia di persone sono venute a trovarci in oltre 1.700 piazze per le Arance della Salute e in oltre 1.300 scuole nell’ambito dell’iniziativa Cancro io ti boccio. Lì hanno trovato 15.000 volontari e volontarie, e tantissimi studenti e insegnanti, pronti a distribuire reticelle di Arance della Salute e vasetti di miele e marmellata, anche grazie al prezioso lavoro di coordinamento dei nostri Uffici regionali. Uno sforzo enorme che ci ha permesso di raccogliere 4 milioni di euro. Ci teniamo a ringraziare tutti coloro che hanno partecipato, per essersi uniti a noi nell’affrontare il cancro, insieme.
Mentre la pasta cuoce, lavate bene le foglie dei ravanelli, prestando attenzione a eliminare i residui di terra. Versate tutti gli ingredienti in un mixer: le foglie di ravanelli, le foglie di basilico anche esse lavate, le mandorle, l’aglio, l’olio extravergine d’oliva e un pizzico di sale.
Azionate il mixer e ottenete così il pesto. Ultimata la cottura della pasta, condite con il pesto e servitela a tavola.
Si consiglia di preparare più pesto e utilizzarlo per condire un piatto unico, in abbinamento a dei cereali (orzo, farro, avena ecc.), legumi e verdure, che sarà così pronto per essere portato al lavoro il giorno successivo.
Aprile 2024 / Fondamentale / 37 / Alimentazione / Dieta sana e sostenibile
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"Avere l’incarico di esecutore testamentario è un grande impegno. Ci si sente investiti di una grande responsabilità, anche morale, per far sì che le volontà del testatore vengano esaudite nel migliore dei modi.” Un esecutore testamentario è la persona di fiducia nominata nel testamento per gestire e distribuire i beni secondo le disposizioni espresse.
Monica, che lavora come commercialista, ha vissuto questa esperienza in prima persona come esecutrice delle ultime volontà di Carla, una sua storica cliente, ed è così che ce la descrive.
“Carla suonava il pianoforte ed era insegnante di musica. Per 60 anni ha trasmesso la passione per la musica a decine di bambini, a partire dalla scuola materna e seguendoli poi fino a quando diventavano grandi” racconta. “Era una donna amabile. Si faceva così voler bene che negli ultimi anni della sua vita, in cui aveva problemi di deambulazione, erano le mamme dei suoi allievi ad andare a prenderla per portarla a scuola o a fare la spesa.”
Quasi 10 anni fa Carla aveva affidato il suo testamento a Monica. “Suo marito era amico fraterno di mio pa-
IL TESTAMENTO DI CARLA, UNO SPECCHIO DI QUEL CHE ERA STATA IN VITA
Carla ha deciso di disporre un lascito che sosterrà IFOM, l’istituto di oncologia molecolare di AIRC. Ripercorriamo la sua storia attraverso le parole di Monica, suo esecutore testamentario
a cura di Antonino Michienzi
dre ed era cliente del nostro studio. Alla sua morte abbiamo continuato a seguire Carla” spiega. Negli anni il rapporto di fiducia si è consolidato. “Quando nel 2022 è mancata, abbiamo fatto il meglio per esaudire le sue volontà nel modo che ci è sembrato più fedele al suo modo d’essere” racconta l’esecutrice.
Carla aveva indicato le diverse destinazioni per i suoi beni; tra queste c’è anche la ricerca scientifica, sostenuta grazie alla vendita della sua abitazione.
Insieme ad AIRC, Monica ha scelto di destinare la donazione a IFOM, l’Istituto di oncologia molecolare cui AIRC ha dato vita nel 1998 e che, da allora, è diventato un’eccellenza della ricerca oncologica in Italia e non solo. All’interno di IFOM, quasi 300 ricercatori italiani e internazionali studiano i meccanismi alla base dello sviluppo del cancro, con tecnologie all’avanguardia e con un approccio multidisciplinare, che coinvolge biologi, fisici, matematici, medici, bioinformatici e ingegneri.
L’Istituto potrà continuare a svolgere la sua attività anche grazie a Carla, che verrà onorata con una targa che ricorderà la sua generosità. Il testamento di Carla, oltre che alla
ricerca e ad altre cause benefiche, ha voluto essere lo specchio di quel che lei era stata in vita. “Ha voluto ricordare le persone che le erano state vicino: a coloro che avevano avuto cura di lei ha voluto esprimere la sua gratitudine con un piccolo dono” conclude Monica.
Puoi scegliere, come Carla, di fare testamento a favore di Fondazione AIRC e intitolarlo alla tua memoria o alla memoria di una persona cara. Per ogni domanda specifica puoi contattare Anna Sarri.
02 779 73 19
anna.sarri@airc.it VUOI
38 / Fondamentale / Aprile 2024 / Testimonianze / Lasciti testamentari Testimonianze Lasciti testamentari
DISPORRE
LASCITO TESTAMENTARIO A FAVORE DI AIRC? CONTATTACI!
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Arance Rosse per la Ricerca
ARANCE ROSSE PER LA RICERCA: LA GRANDE DISTRIBUZIONE
E LA DISTRIBUZIONE ORGANIZZATA
A SOSTEGNO DI AIRC
Quasi 60 aziende della Grande distribuzione e della Distribuzione organizzata, a partire dal 2 febbraio e in occasione del World Cancer Day il 4 febbraio, hanno aderito all’iniziativa Arance Rosse per la Ricerca AIRC. L’obiettivo era sensibilizzare i consumatori sull’importanza di un’alimentazione sana ed equilibrata e sostenere i migliori progetti di ricerca oncologica in Italia. Per ogni confezione di arance rosse distribuita in due settimane, gli oltre 10.000 supermercati e ipermercati aderenti hanno donato 0,50 € a Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro, per garantire continuità al lavoro dei 6.000 scienziati AIRC impegnati a trovare soluzioni sempre più efficaci per prevenire, diagnosticare
precocemente e curare il cancro. Un impegno corale, che ha permesso di distribuire circa un milione di reticelle per un totale di oltre 550.000 € raccolti. Un risultato che dimostra il ruolo attivo delle aziende del settore nella promozione della salute e del benessere dei consumatori. Fondazione AIRC rivolge un ringraziamento speciale alle aziende che hanno aderito alla campagna: ALDI; Apulia Distribuzione (Carrefour); Bennet; Carrefour; Consorzio Coralis; Consorzio Coop Nordovest (Coop Liguria, Novacoop e Coop Lombardia); Consorzio Europa (Sigma); Coop Sardegna; CRAI (AMA CRAI, CRAI Sardegna, CRAI Tirreno, CRAI Codè); Despar (Aspiag, Centro 3A, Ergon, Fiorino, Maiora, SCS);
Etruria Retail (Carrefour); Gruppi Finiper Canova (Iper La grande i e Unes); Gruppo Gabrielli; Gruppo Rossetto; Gruppo VéGé (GDA; GFE; GRD; Gruppo Arena; Fratelli Morgese; Migross; Multicedi; Supertosano); Lidl Italia; MD; PAM Panorama; Penny Italia; Selex Gruppo Commerciale (Arca, Alfi, Cadoro, CDS, Cedi Marche, Cedi Gros, Dimar, Italmark, L’abbondanza, Maxi Di, GMF, Megamark, Rialto, Superemme, Super Elite, Unicomm); Realco (Sigma); Sogegross (Basko, Doro, Ekom); Supercentro (Sisa); Supermercati Visotto. L’elenco completo è consultabile sul sito arancedellasalute.it
Si ringrazia Filiera Agricola Italiana per la partecipazione con Carrefour e Consorzio Coralis.
Aprile 2024 / Fondamentale / 39 / Collaborazioni / Arance Rosse per la Ricerca
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