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IN RICORDO DI UN PIONIERE DELL’ONCOLOGIA
VAndrea Sironi Presidente AIRC
orrei iniziare questo breve editoriale ricordando la figura di uno dei padri fondatori di AIRC, il professor Beppe Della Porta, scomparso lo scorso agosto. A Beppe Della Porta si deve, insieme a Umberto Veronesi, la nascita di AIRC nel 1965 e, nel 1998, la creazione di IFOM, l’Istituto di oncologia molecolare di Fondazione AIRC. A Beppe Della Porta è inoltre intitolato un premio che, ogni 2 anni, AIRC assegna a un giovane ricercatore che si sia distinto per la rilevanza e l’innovatività dei propri studi in ambito oncologico condotti in Italia. Il contributo che Beppe Della Porta ha dato ad AIRC e in generale alla ricerca sul cancro nel nostro Paese è stato inestimabile. Desidero esprimere, in questo momento di tristezza legato alla sua scomparsa, il sentimento di riconoscenza di tutta Fondazione AIRC nei confronti di un grande scienziato e del pioniere dell’oncologia sperimentale nella nostra nazione. In questo numero della nostra rivista ci occupiamo di tumori tipicamente maschili, come il cancro alla prostata. Abbiamo infatti deciso di onorare Movember, l’evento annuale di sensibilizzazione sui tumori maschili, dedicando il numero di dicembre di Fondamentale a queste malattie. L’articolo principale è un’intervista alla ricercatrice AIRC Francesca Demichelis, che lavora all’Università di Trento ed è da anni in prima linea negli studi sul cancro della prostata, mentre un ulteriore approfondimento è riservato a fare il punto sui progressi della ricerca in questo campo. L’impegno di Fondazione AIRC per l’individuazione di terapie sempre più efficaci e di metodi di diagnosi precoce sempre più precisi per il tumore della prostata è dimostrato dai 2,4 milioni di euro che abbiamo destinato a questo ambito di studio per il 2024. Vorrei infine ricordare che lo scorso settembre IFOM ha ospitato la conferenza scientifica internazionale organizzata per il World Cancer Research Day. All’evento hanno partecipato la regina Letizia di Spagna e illustri rappresentanti delle principali organizzazioni internazionali impegnate contro il cancro, tra cui la direttrice scientifica di AIRC Anna Mondino e la direttrice scientifica della corrispondente associazione spagnola, Marta Puyol. Un’iniziativa che rientra nella strategia di AIRC volta a sviluppare collaborazioni con le altre realtà impegnate nella nostra stessa missione, per continuare ad affrontare il cancro con sempre maggiore efficacia.
Vita da ricercatrice
Francesca Demichelis
ALLA RICERCA DEL MISTERO DELLE FORME
AGGRESSIVE DI CANCRO ALLA PROSTATA
In questo articolo: — TUMORE DELLA PROSTATA — BIOPSIA LIQUIDA
Il percorso di Francesca Demichelis
l’ha portata da Trento a Londra, fino al post-dottorato a Harvard e al ritorno in Trentino, dove ha sviluppato il test sperimentale NEMO per individuare i tumori della prostata resistenti alla terapia ormonale a cura di Michela Vuga
Una laurea in fisica, un dottorato in informatica, la voglia – anzi, quasi la necessità – di continuare a imparare, la “scoperta” della genomica che l’appassiona e la spinge verso la ricerca oncologica. È il ritratto di Francesca Demichelis, professore ordinario presso il Dipartimento di biologia cellulare, computazionale e integrata – DiCIBIO dell’Università di Trento, di cui è prorettrice vicaria e dove dirige il Laboratorio di ricerca Computational and Functional Oncology. Oggi consideriamo normale che una laurea in fisica possa aprire le porte anche alla ricerca oncologica, ma a metà degli anni Novanta, quando Francesca si è laureata, non era affatto scontato. “Forse sono stata tra i primi a imboccare questo tipo di percorso, ma non è poi così strano: i fisici possono fare qualunque cosa, dedicarsi alla finanza così come
alla ricerca spaziale. Perché la fisica ti insegna innanzitutto a destrutturare i problemi e poi anche un po’ ad approssimare: queste due abilità, unite a una forte componente quantitativa che è propria della fisica, danno gli strumenti per continuare a studiare, appunto, qualunque cosa.”
CONTINUARE A IMPARARE
Quando frequentava il liceo classico immaginava per sé un futuro da giornalista, perché voleva fare un lavoro che le desse la possibilità di continuare a imparare e a conoscere persone nuove. A farle intuire che la ricerca poteva rispondere alle sue aspettative furono i fisici Gabriele Viliani e Giancarlo Ruocco, che la seguirono nella tesi di laurea: “L’entusiasmo che avevano era tale che iniziai a pensare che forse la ricerca non era poi così diversa dal giornalismo e che poteva essere la mia strada”. Il passo successivo fu l’esperienza presso quella che oggi è la Fondazione Bruno Kessler di Trento: “Era il 1996 e lavoravo a un progetto di patologia digitale, antesignano per l’epoca: utilizzavamo un microscopio robotizzato e
tecniche di analisi di immagine per creare la versione digitale dei vetrini e quindi analizzare specifiche proteine dei tessuti tumorali. Ora si parla molto di intelligenza artificiale in questi ambiti di studio, ma già allora la si applicava con l’analisi quantitativa delle immagini, insieme a sistemi di classificazione”. Con gli anatomopatologi – che, come vedremo, rappresentano un fil rouge nella sua carriera – sviluppò un sistema di telemicroscopia, una modalità per governare un microscopio robotizzato a distanza per le diagnosi intraoperatorie, fornendo in tempo reale immagini digitali ad alta risoluzione dei tessuti posizionati sui vetrini: “Mi incuriosi-
va capire come facevano, guardando la morfologia dei tessuti, a fare la diagnosi, a decidere le proteine da analizzare. E da lì ho compreso, grazie a persone illuminate come l’anatomopatologo Mattia Barbareschi, che quel tipo di ricerca (che poi era ricerca traslazionale, ma all’epoca questo termine non lo conoscevo) era adatta a me. Perché vicina alla tecnologia e al tempo stesso vicina a temi, diciamo, più concreti della fisica”.
In quel contesto Francesca capì anche che le serviva acquisire nuove competenze, come le tecniche di machine learning, quelle che si occupano dello sviluppo di algoritmi e di sistemi di apprendimento automatico
"La fisica insegna sia a destrutturare i problemi sia poi un po’ ad approssimare: con queste qualità si può studiare qualsiasi cosa”
e che sono una parte dell’intelligenza artificiale. Così decise di proseguire con un dottorato in informatica: “Quello per me fu il punto di non ritorno per la carriera da ricercatrice”.
LA FORMAZIONE ALL’ESTERO
“L’Imperial College of Science Technology and Medicine di Londra mi cambiò la vita. Ci andai per l’Erasmus, tra il 1993 e il 1994, e fu il mio primo sguardo sul mondo: fantastico! Londra era così multiculturale, così ricca di stimoli. Alimentò ulteriormente la mia curiosità quando ancora non sapevo che avrei fatto la ricercatrice.”
Un altro periodo decisivo fu quello trascorso a Boston, dal 2005 al 2007, alla Harvard Medical School, dove Francesca si trasferì per un periodo durante il dottorato, al termine del quale le
prorettrice alla ricerca dell’Università di Trento: “Un bellissimo ruolo, perché d’aiuto al rettore nell’individuare – come parte del piano strategico di Ateneo – quali sono le aree di ricerca sulle quali puntare di più per aiutarle a crescere e a progredire”.
IL TUMORE DELLA PROSTATA
Francesca si è dedicata in modo particolare alla ricerca sul tumore della prostata, un interesse nato ad Harvard: “Nella maggior parte dei pazienti, il tumore della prostata si presenta in forma indolente e quindi per lo più con una buona prognosi: cosa c’è di diverso, cosa cambia nelle forme aggressive? Cerco le risposte”. Un risultato importante è stato ottenuto dal gruppo guidato da Francesca con una ricerca sostenuta da AIRC, in collaborazione con il
Il test NEMO potrebbe permettere di diagnosticare il tumore alla prostata resistente alle terapie
ormonali
offrirono un contratto di ricerca postdoc, una grande occasione che colse al volo. “Lavoravo con Mark Rubin, patologo molecolare, e utilizzavamo array ad alta densità, in particolare gli SNP Array, all’epoca fondamentali per studiare lo stato delle sequenze dei cromosomi. Grazie a Mark mi si aprì il mondo della genomica.”
Lì conobbe anche Kirsten Mertz, anatomopatologa che oggi lavora a Basilea, la prima di una serie di colleghe incontrate negli anni successivi e alle quali Francesca è grata per tutto quello che le hanno insegnato. “Andavo da lei con domande di base tipo: mi spieghi il principio della citogenetica? Mi spieghi che cos’è un cariotipo? Cose che non sapevo e che lei, da medico, mi spiegava in maniera strutturata, semplice e precisa.”
Successivamente si trasferì a New York, come Assistant Professor alla Weill Cornell Medicine, dove restò fino al suo rientro in Italia all’Università di Trento nel 2011. Negli ultimi 3 anni Francesca è diventata anche
gruppo di Himisha Beltran del Dana Farber Cancer Institute di Harvard e pubblicata su Cancer Discovery nel marzo 2024, a conclusione di una serie di studi condotti negli ultimi 8 anni: il risultato di tutto questo lavoro è NEMO, dall’inglese Neuroendocrine detection and MOnitoring assay, un test che utilizza la biopsia liquida sul sangue per diagnosticare in modo pratico e accurato il tumore alla prostata neuroendocrino resistente alla castrazione, cioè resistente alla terapia ormonale di ultima generazione. Nel circolo sanguigno di pazienti con metastasi ci sono diverse tracce della presenza di un tumore, tra cui frammenti di DNA di cellule cancerose. NEMO non solo è in grado di intercettarli, ma anche di rilevare lo stato delle cellule malate, così che, mentre si monitora la malattia, si possa capire con un certo anticipo quando il paziente non risponde più ai trattamenti ed è dunque arrivato il momento di cambiare la terapia. Il prossimo passo è valida-
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re NEMO in alcuni studi clinici per riuscire poi a portarlo nella clinica e dunque a utilizzarlo. “Per raggiungere questi risultati il gruppo di ricerca con cui lavoro è di grande importanza e anche lo sguardo, le idee e le discussioni con i giovani in laboratorio si rivelano una spinta chiave.”
IL RUOLO DI AIRC
Fare ricerca non è facile, ci sono alti e bassi. Quando le cose non vanno per il verso giusto, Francesca fa “un passo indietro” e cerca un modo per distaccarsi: sta all’aria aperta a contatto con la natura (il suo luogo-rifugio è l’Alpe di Siusi), fa sport (prevalentemente sci) e guarda alla bellezza (per esempio, entra nell’androne di un palazzo antico per ammirare un giroscale): “Sono tutte situazioni che mi aiutano a superare i momenti difficili. E poi riguardo il percorso che mi ha portato al risultato negativo e ricomincio, perché il lavoro dei ricercatori è così”.
E poi c’è AIRC: “È stata più importante di quanto mi aspettassi. Da un lato ha sostenuto finanziariamente le mie ricerche, dall’altro mi sono sentita come inglobata in una famiglia, un coinvolgimento che non mi aspettavo. Posso dire di aver conosciuto davvero la spinta di AIRC ad avvicinare i cittadini alla ricerca per il bene dei cittadini stessi, e a un certo punto ho proprio sentito questa sua missione. E contemporaneamente me ne sono sentita parte”.
Facciamo il punto
Tumore della prostata
QUALITÀ DI VITA E TERAPIE PERSONALIZZATE GLI OBIETTIVI DELLA RICERCA SUL CANCRO ALLA PROSTATA
In questo articolo:
— CARATTERIZZAZIONE MOLECOLARE
— SORVEGLIANZA ATTIVA — PSA
Si tratta del tumore più frequente tra gli uomini in Italia, ma per fortuna è anche uno dei più curabili. Ancora molta strada però c’è da fare per diminuire l’impatto degli effetti collaterali delle cure
a cura della redazione
“Il tumore della prostata è una malattia che oggi si cura e si cura bene, con alte possibilità di guarigione. Ma per una parte di pazienti ci sono conseguenze che compromettono la qualità di vita: riuscire a preservarla, sia durante che dopo le cure, è la nostra sfida.” Ad aiutarci a fare il punto sul tumore della prostata è Giuseppe Procopio, direttore del Programma prostata e dell’Oncologia medica genito-urinaria alla Fondazione IRCCS Istituto nazionale dei tumori di Milano e ricercatore AIRC. Con oltre 41.000 nuovi casi stimati nel 2023, questo è il tumore più frequente nella popolazione maschile. “È una malattia eterogenea nel comportamento. Si passa da forme indolenti, che è meglio non trattare a volte anche per decenni, a forme che invece sono estrema-
mente aggressive: per fortuna queste ultime sono una minoranza, ma necessitano di trattamenti integrati. Tra questi due estremi c’è un’ampia via di mezzo, con forme che evolvono nel corso degli anni.” Grazie ai progressi in ambito diagnostico e clinico, oggi a
UN NUOVO APPROCCIO DIAGNOSTICO
In genere a far sospettare la malattia è un alto valore dell’antigene prostatico (in sigla PSA), un enzima prodotto dalle cellule della prostata che viene dosato con un semplice prelievo del sangue. È importante però ricordare che un PSA elevato talvolta è il segnale della presenza di un tumore, ma può anche essere legato a un’ipertrofia prostatica benigna o a un’infezione e dunque non va preso come unico riferimento diagnostico. “Fino a qualche anno fa se il PSA era elevato si procedeva subito con la biopsia. Oggi invece il passo successivo è eseguire una risonanza magnetica multiparametrica, che permette di individuare le aree sospette e dunque di discernere i casi che devono fare la biopsia dagli altri. Questo è un vantaggio non da poco, perché vuol dire limitare le sovradiagnosi” spiega Procopio. L’avvento della risonanza magnetica multiparametrica ha portato dunque a una modifica sostanziale dell’iter
Un PSA elevato può essere sintomo di tumore, ma anche di molte altre malattie meno impattanti, come un’infezione
5 anni dalla diagnosi è vivo il 91 per cento dei pazienti e più del 60 per cento riesce a sconfiggere definitivamente il tumore.
diagnostico. Un altro cambiamento significativo è rappresentato dall’impiego della PET con nuovi radiofarmaci, sostanze composte da
radionuclidi che emettono radiazioni e da una molecola di trasporto, che somministrati per via endovenosa al paziente permettono di localizzare le cellule tumorali. In particolare la PET con PSMA (acronimo di antigene di membrana specifico della prostata), soprattutto nelle forme avanzate, fa la differenza nel rilevare più precocemente la malattia al di fuori della prostata.
LA PROFILAZIONE MOLECOLARE
La biopsia si utilizza per prelevare un campione di tessuto canceroso su cui effettuare tutti i test necessari a stabilire la tipologia del tumore, compreso il profilo genomico, che dà informazioni fondamentali per decidere come procedere con le cure. La mutazione più nota è quella dei geni BRCA1 e BRCA2, presente nel 5-10 per cento delle neoplasie della prostata, ma se consideriamo tutte le mutazioni note dei geni coinvolti nella riparazione del DNA che aumentano il rischio di questo tumore, come PALB2, CHEK2, SPOP e ATM, ecco che la percentuale sale al 20 per cento. “Non abbiamo ancora farmaci specifici per tutte queste variabili, ma individuare un bersaglio attraverso la caratterizzazione molecolare è comunque molto importante, perché può portare a definire meglio la prognosi. Di conseguenza ci dà indicazioni su come trattare il tumore, se essere più o meno aggressivi: ci aiuta per esempio a capire se la chemioterapia sia necessaria o meno.”
LE FORME INDOLENTI E LA SORVEGLIANZA ATTIVA
La sorveglianza attiva è un’opzione proposta ai pazienti con tumori cosiddetti a basso rischio: forme indolenti, localizzate, che crescono con grande lentezza e a volte non richiedono alcuna terapia per molto tempo. Consiste in visite urologiche ed esami (come PSA, risonanza e biopsia) effettuati a intervalli regolari, che permettono di intervenire se si scopre che la malattia è peggiorata. “Fino a 15 anni fa, la sorveglianza attiva era praticamente sconosciuta. Oggi
invece sempre più spesso i pazienti sono preparati e mi chiedono se possono ‘tenersi il tumore’” racconta Procopio. “La sorveglianza resta comunque una scelta del paziente. Non tutti accettano di convivere con il proprio tumore, alcuni preferiscono essere operati.” È chiaro a questo punto quanto è importante informare correttamente il paziente sui pro e i contro delle diverse opzioni in modo tale da consentirgli di decidere consapevolmente. Per l’oncologo, il punto cruciale è inquadrare la malattia – quindi una diagnosi corretta – e il singolo paziente: “Tanti approcci particolarmente aggressivi oggi vengono evitati se non ci sono le condizioni per ottenere dei benefici. Per esempio, dobbiamo capire quando la chirurgia può essere utile e quando no. Questo vale in particolare per gli uomini più anziani e fragili, occasioni in cui il medico deve tenere conto della situazione generale, di quella familiare e della qualità di vita”.
TRATTAMENTI INTEGRATI PER LE FORME PIÙ AGGRESSIVE
Chirurgia, chemioterapia, radioterapia e terapie mediche vengono utilizzate e integrate a seconda dei casi per ottenere i maggiori benefici possibili, valutando anche le ricadute sulla qualità di vita del paziente. In particolare, tecniche sempre più sofisticate hanno dato grande impulso al progresso in ambito chirurgico e radioterapico: “La chirurgia robotica ha migliorato i tempi di recupero post-operatori, diminuito il rischio di complicanze e gli effetti collaterali di medio e lungo termine. La riduzione
degli effetti collaterali vale anche per quanto riguarda la radioterapia. Oggi infatti siamo in grado di irradiare in modo ancor più preciso le cellule tumorali, salvaguardando i tessuti circostanti”. Significativi inoltre sono stati i passi avanti nelle terapie mediche, in primis per quanto riguarda la deprivazione androgenica (conosciuta anche come terapia ormonale) che rimane cruciale: lo scopo è ridurre il testosterone presente nell’organismo perché questo ormone stimola la crescita del tumore della prostata. “I farmaci di nuova generazione sono sempre più efficaci: consentono di controllare bene la malattia e i sintomi, con un beneficio che spesso è davvero rapido, notevole
nuovi radiofarmaci, marcati con isotopi radioattivi. Si somministrano per via endovenosa e attraverso il flusso sanguigno vanno a concentrarsi su bersagli specifici presenti sulle cellule tumorali, a cui si legano: in questo modo le emissioni di energia dal radioisotopo danneggiano la cellula tumorale, che poi non è più in grado di replicarsi e muore.
LE SFIDE FUTURE
La sfida più attuale, come dicevamo all’inizio, è arrivare alla guarigione con il minor impatto possibile sulla qualità di vita: “Preservare le funzioni urinarie e quelle genitali è importantissimo per la vita di relazione. Questo è il bisogno principale dei pazienti, non solo la guarigione” sottolinea Procopio. Parallelamente, la ricerca punta a migliorare la profilazione molecolare del tumore e l’integrazione delle cure nella malattia avanzata, con l’obiettivo di massimizzarne i benefici per il paziente. L’altra sfida, che ci riguarda tutti, è la prevenzione a partire dagli stili di vita: non fumare, non essere in sovrappeso, limitare l’alcol, adottare un’alimentazione bilanciata e fare attività fisica. A cui si aggiunge quella che deve diventare un’abitudine dopo i 50 anni: andare periodicamente dall’urologo per un controllo.
La sfida più attuale è arrivare alla guarigione con il
minor impatto possibile sulla qualità di vita
e con minori effetti collaterali.” Un ruolo sempre più rilevante spetta alla medicina di precisione e dunque a trattamenti mirati che si basano sulle caratteristiche genomiche della malattia: è il caso dei farmaci inibitori di PARP, specifici per tumori che presentano una mutazione dei geni BRCA1 o BRCA2, e che possono essere somministrati anche in combinazione con una terapia ormonale di nuova generazione. Per le forme avanzate e metastatiche sono inoltre disponibili
UN PODCAST FONDAMENTALE
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CELLULE CAR-T: UNA TERAPIA BASATA SU “FARMACI VIVENTI”
In questo articolo:
— LEUCEMIA LINFOBLASTICA ACUTA
— IMMUNOTERAPIA
— TUMORE DEL CERVELLO
L’immunoterapia che utilizza questi farmaci ha permesso di aumentare le possibilità di cura per tanti giovani pazienti, e potrebbe essere usata in futuro per trattare molti altri tipi di tumore
Avederla passeggiare ora per i viali dell’Università della Pennsylvania a Philadelphia, Emily Whitehead sembra una ventenne come tante altre. Invece ha fatto, suo malgrado, la storia della medicina. A sei anni è stata, infatti, la prima bambina al mondo trattata con successo con le cellule CAR-T per una gravissima leucemia linfoblastica acuta a cellule B.
Prima di lei, solo tre adulti con leucemia linfocitica cronica avevano ricevuto questa cura, che all’inizio del secolo era ancora sperimentale. In poche parole, la terapia con cellule CAR-T consiste nel prelevare dal sangue del malato un particolare tipo di globuli bianchi, i linfociti T, modificarli geneticamente in laboratorio con un CAR (Chimeric Antigen Receptor: recettore chimerico che permette di riconoscere il tumore) per poi reinfonderle nel circolo sanguigno. Le cellule così modificate hanno la potenzialità di aggredire in maniera specifica le cellule tumorali del paziente.
a cura di Roberta Villa
Detto così sembra facile, ma in realtà è un processo complicato, non del tutto scevro di rischi, che richiede molte accortezze e una tecnologia avanzata. La malattia di Emily era particolarmente aggressiva e resistente alle terapie tradizionali. Nemmeno il trapianto di midollo era stato un’opzione percorribile, lasciando Emily e i suoi genitori senza troppe speranze.
Al Children's Hospital di Philadelphia, però, Stephan Grupp e i suoi colleghi stavano per iniziare, per la prima volta in ambito pediatrico, uno studio con questo approccio innovativo, messo a punto dal gruppo di ricerca di Carl H. June, e decisero di tentarlo con la piccola Emily. Nonostante una prima reazione avversa, che ora conosciamo come la “tempesta di citochine” possibile in alcuni casi, che i medici riconobbero e capirono come controllare, il trattamento alla fine funzionò perfettamente: a distanza di dodici anni Emily rimane libera da malattia, ed è considerata guarita.
“L’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama prese la storia di Emily e la terapia con le cellule CAR-T a modello della medicina personalizzata e di precisione” racconta Franco Locatelli, direttore del Dipartimento di
CD19, espressa selettivamente dai linfociti B normali e da quelli leucemici, detti linfoblasti. Poiché la stessa molecola caratterizza anche altri tumori ematologici a cellule B, le indicazioni della terapia sono state via via estese, oltre che alle leucemie linfoblastiche acute a cellule B pediatriche e adulte, anche al linfoma non-Hodgkin, sempre a cellule B, soprattutto quello a grandi cellule. La terapia viene usata anche per il mieloma multiplo, in cui però il bersaglio non è CD19, ma una molecola chiamata BCMA (B-Cell Maturation Antigen).
“Oggi come oggi in Europa, e, quindi, anche in Italia, sono disponibili in commercio sei prodotti per gli adulti e uno per i bambini, che stanno dando ottimi risultati” riprende Locatelli. “Ma non ci dobbiamo fermare qui. Prima di tutto occorre superare il limite che finora ha impedito di applicare questo approccio alle leucemie acute a cellule di tipo T. In questi casi, le cellule malate sono simili a quelle usate nel trattamento, per cui tendono a uccidersi tra loro con un comportamento che definiamo ‘fratricida’. Grazie all’idea di un collega che lavora a Singapore, Dino
A distanza di dodici anni dal trattamento con le cellule CAR-T, Emily Whitehead non ha più segni di malattia, e può quindi considerarsi guarita
oncoematologia, terapia cellulare, terapie geniche e trapianto emopoietico dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma e presidente del Consiglio superiore di sanità. “A me piace aggiungere che si tratta di una terapia di precisione basata su farmaci viventi, perché viventi sono le cellule che infondiamo.”
NON SOLO LEUCEMIE A CELLULE B
Nel caso di Emily e delle migliaia di adulti e bambini poi trattati in tutto il mondo, il recettore CAR con cui sono state modificate le loro cellule aveva come bersaglio la proteina
Campana, abbiamo apportato alle cellule ulteriori modifiche che impediscono questa reazione. Lo studio condotto da noi e dai colleghi di Singapore su 17 pazienti con leucemia linfoblastica acuta di tipo T, recidivante o refrattaria alle cure, ha dato esiti positivi ed è stato recentemente pubblicato su Nature Medicine.” La ricerca ora va avanti, raccogliendo un maggior numero di pazienti grazie al coinvolgimento di altri centri europei a Parigi, Berlino e Utrecht, i cui pazienti riceveranno cellule CAR-T prodotte dal gruppo di Locatelli.
IL GRANDE SALTO VERSO I TUMORI SOLIDI
Un’altra frontiera è rappresentata dai tumori solidi, che rispetto alle leucemie presentano almeno due ostacoli in più: da un lato la difficoltà delle cellule CAR-T nel raggiungere e infiltrare la massa cancerosa in numeri sufficienti a garantirne il rigetto, dall’altro la presenza di un microambiente tumorale ostile capace di inibire l’attività dei linfociti che, invece di contribuire a eliminare le cellule malate, diventa complice della neoplasia. La ricerca è impegnata a capire come superare questi ostacoli.
“Tra i tumori solidi in età pediatrica, dopo quelli del sistema nervoso centrale, il più frequente e difficile da curare è il neuroblastoma, che origina di solito dalla ghiandola surrenale” spiega il professore. “Quando la diagnosi avviene in fase avanzata la probabilità di guarigione è del 50 per cento e, in caso di ricadute o refrattarietà alle cure, la sopravvivenza libera da malattia a tre anni non supera il 10-15 per cento. Una prospettiva inaccettabile.” Il gruppo dell’Ospedale Bambino Gesù ha quindi pensato alla terapia con CAR-T, e indirizzato le cellule contro la molecola GD2, espressa sulla superficie delle cellule di neuroblastoma. “I risultati pubblicati lo scorso anno sul New England Journal of Medicine e poi estesi a una casistica più larga dimostrano un’ampia possibilità di ottenere remissione nei piccoli pazienti resistenti alle cure tradizionali o con malattia recidivante, e una probabilità di sopravvivenza libera da malattia a 3 anni che sale fino al 50 per cento. Se poi i piccoli sono trattati precocemente, la probabilità di ottenere una risposta clinica supera l’80 per cento e a 5 anni dal trattamento il 60 per cento dei bimbi è vivo e libero da malattia.”
L’IMPORTANZA DELL’“OFFICINA”
Sulla scorta di questo successo i medici dell’ospedale romano stanno per dare il via a uno studio multicentrico internazionale che coinvolgerà molti Paesi europei e non solo. I piccoli pazienti saranno tutti trattati con cellule CAR-T prodotte dall'officina farmaceutica del Bambino Gesù, così da garantire lo stesso livello di qualità
AIRC sostiene diversi team di ricercatori in tutta Italia impegnati nell'ottimizzazione delle cellule CAR-T
nella produzione del farmaco, fattore importante per la valutazione accurata e il confronto dei risultati clinici. Per ricevere questo trattamento al Bambino Gesù arrivano famiglie da tutto il mondo. Una bambina è arrivata dal Giappone e a distanza di parecchi mesi è ancora libera dalla malattia. Come mai non è stata trattata in un Paese avanzato come il suo?
“Un aspetto che troppo spesso si sottovaluta è la complessità richiesta nella produzione di queste cellule, che richiede laboratori specializzati e una lunga serie di requisiti specifici necessari per ottenere la dovuta autorizzazione da parte di agenzie regolatorie (in Italia l’Agenzia italiana del farmaco, AIFA) e di autorità sanitarie nazionali” spiega Locatelli. “Per ottenere i permessi e produrre le cellule occorrono tempo e denaro, senza sottovalutare l’esperienza degli operatori. Serviranno altre officine come la nostra sul territorio italiano. È bene che abbiano caratteristiche e dimensioni tali da garantire qualità alta nella produzione delle cellule e ridurre i costi, che sono molto elevati. Sarebbe importante che queste officine nascessero in contesti accademici, se possibile in collaborazione con l’industria, così da rendere queste cure più sostenibili. Un traguardo importante considerato che la terapia con le cellule CAR-T potrebbe essere utile per altre malattie, aumentando il numero di pazienti che potrebbero trarne beneficio.”
UNO SGUARDO OTTIMISTA VERSO IL FUTURO
Occorre ora identificare nuovi bersagli per altre malattie del sangue, come per la leucemia mieloide acuta, per cui tra pochi mesi inizierà un primo studio clinico, e per quei pochi linfomi di Hodgkin che non rispondono alle altre cure farmacologiche. AIRC sostiene, anche grazie ai fondi del 5 per mille, molti progetti con
l'obiettivo di applicare le CAR-T alla cura di diversi tipi di tumori solidi (per esempio del colon-retto e del pancreas) e metastatici. Questi progetti sono mirati per esempio all'ottimizzazione delle cellule dal punto di vista del metabolismo, della migrazione, della capacità effettrice e della sopravvivenza una volta che vengono trasferite nel paziente.
Tra i filoni di indagine cui si stanno dedicando diversi team di ricercatori AIRC in tutta Italia, uno è quello che cerca di aumentare e prolungare
LA SFIDA
DEI TUMORI AL CERVELLO
Al Simposio internazionale di neuroncologia pediatrica della scorsa estate a Philadelphia, in Pennsylvania, sono arrivate buone notizie anche per i tumori cerebrali pediatrici. Queste malattie sono purtroppo ancora difficili da curare, ma anche in questo campo, le cellule CAR-T potrebbero segnare una svolta. Gli studi presentati al convegno, seppur promettenti, sono stati condotti per dimostrare la sicurezza del trattamento (i cosiddetti studi di fase 1) e non l’efficacia, che verrà direttamente valutata in studi futuri.
È importante sottolineare che solo uno dei 21 bambini con gliomi diffusi della linea mediana trattati con cellule CAR-T dirette verso la proteina B7-H3 da Nicholas Vitanza al Seattle Children’s Hospital, nello stato di Washington, ha avuto una reazione
l’efficacia delle cellule CAR-T, inducendole a liberare sostanze come l’interleuchina 18 al momento dell’incontro con il bersaglio. Si parla in questo caso di “armored CAR-T cells”. Infine, si sta esplorando la possibilità di utilizzare cellule del sistema immunitario diverse dai linfociti, soprattutto le cellule cosiddette natural killer. Si sta, quindi, lavorando a cellule CAR-NK che potrebbero essere già disponibili pronte all’uso sul mercato, senza dover essere create di volta in volta a partire dai linfociti del paziente. Inoltre, potrebbero rivelarsi anche più sicure, riducendo al minimo il rischio di quella “tempesta citochinica” che avrebbe potuto impedire a Emily Whitehead di essere qui a raccontare la sua storia.
avversa. Alcuni hanno invece beneficiato della terapia e ottenuto una sopravvivenza superiore all’attesa. La ricerca a Seattle comunque continua, anche con cellule CAR-T modificate per attaccare non uno, ma quattro bersagli specifici del tumore cerebrale. Studi simili con cellule dirette contro il bersaglio GD2 già utilizzate al Bambino Gesù contro il neuroblastoma e rivolti ai gliomi diffusi della linea mediana si stanno conducendo anche all’Università di Stanford, in California. I risultati sono promettenti. Uno dei nove ragazzi trattati ha avuto una completa scomparsa della malattia. A due anni e mezzo della terapia sta bene ed è iscritto all’università. Intanto, la ricerca prosegue. All’Università di San Francisco si sta cercando il modo di regolare l’attività delle cellule CAR-T per far sì che si attivino solo quando si trovano nel sistema nervoso centrale, per migliorare il profilo di sicurezza della terapia e prolungarne l’efficacia.
Notizie flash ... DAL MONDO
a cura della redazione
UN RNA “PONTE” PER MODIFICARE IL GENOMA?
Un “ponte” per collegare due regioni distanti del DNA, con l’obiettivo di apportare modifiche ai genomi più grandi di quanto sia attualmente possibile con CRISPR. La correzione del genoma continua a far registrare progressi con una velocità mai rilevata prima. In questo senso, il bridge editing sembra essere l’ultima frontiera. La tecnologia, descritta in una sequenza di 3 studi pubblicati sulle riviste Nature e Nature Communications, si basa sulle proprietà degli enzimi ricombinasi, in grado di effettuare uno scambio tra regioni del DNA coordinando il naturale processo della ricombinazione genetica. Un gruppo di ricercatori dell’Università della California ha scoperto la prima ricombinasi che utilizza l’RNA come ponte tra la sequenza donatrice e quella bersaglio. A differenza dell’RNA guida di CRISPR, però, in questo caso si tratta di un acido nucleico che usa entrambe le estremità per riconoscere una coppia di sequenze di DNA. L’RNA, nel dettaglio, si piega in due anelli. Uno viene legato alla sequenza di DNA da
Il bridge editing promette
di poter diventare più potente di CRISPR/Cas9
inserire e l’altro a quella su cui effettuare l’inserimento. Entrambi gli anelli sono programmabili in modo indipendente, così da combinare qualsiasi coppia di sequenze genetiche. Quella che avviene è una ricombinazione senza rotture indesiderate della doppia elica. L’approccio appare particolarmente adatto a generare modifiche su larga scala, come inserzioni, escissioni o inversioni di sequenza. Questo, precisano i ricercatori, è il primo esempio di molecola guida bispecifica, che può essere utilizzata per aggiungere, eliminare o invertire sequenze di DNA di qualsiasi lunghezza. “Il bridge editing offre un livello di controllo senza precedenti per la manipolazione dei genomi” afferma Patrick Hsu, co-fondatore del Centro di biologia computazionale a Berkeley e coordinatore dello studio. Secondo l’esperto, una simile tecnologia potrebbe offrire molte più opportunità rispetto a CRISPR, che al momento permette la sostituzione di singoli geni difettosi (in Europa è attualmente disponibile una sola terapia genica a base di questa tecnologia, per la cura della beta-talassemia). “Ciò che vorremmo fare è andare oltre l’inserimento di singoli geni per essere in grado invece di fare ingegneria genomica su scala cromosomica” aggiunge Hsu. Finora il bridge editing è stato messo alla prova con successo nei batteri Escherichia coli. I prossimi passi prevedono la verifica di queste risposte nelle cellule umane.
MELANOMA: DALL’IMMUNOTERAPIA SPERANZE
ANCHE PER IL TRATTAMENTO DEI PAZIENTI PEDIATRICI
Gli inibitori del checkpoint immunitario PD-1 sembrano avere la medesima efficacia che hanno per i pazienti adulti se somministrati ai pazienti con melanoma che hanno meno di 19 anni. Il dato emerge da uno studio pubblicato sullo European journal of cancer. I ricercatori hanno analizzato i dati di 99 pazienti pediatrici con un melanoma operato al terzo stadio (localmente avanzata o metastatica) provenienti da ospedali europei, australiani e del Sud America. Di questi, 81 erano stati trattati con un inibitore di PD-1, con o senza la chemioterapia associata, o con la combinazione dabrafenib/trametinib, in diverse fasi della malattia. Per esempio, tra i 43 pazienti che hanno ricevuto l’inibitore di PD-1 in prima linea, cioè come primo trattamento, la sopravvivenza è stata del 25 per cento a 3 anni dalla terapia. Inoltre, tra i 38 pazienti trattati con immunoterapia adiuvante, ovvero prescritta dopo un altro trattamento per rinforzarne l’efficacia, l’81,1 per cento era vivo a 3 anni dalla terapia, e il 70,6 per cento non è andato incontro a ulteriori recidive. In tutti i casi si tratta di percentuali comparabili a quelle normalmente registrate in pazienti adulti dalle caratteristiche similari. I ricercatori sottolineano comunque i limiti di questo studio, che non prevedeva un gruppo di controllo con cui confrontare i risultati ottenuti.
COSA SUCCEDE AI DIVERSI CEPPI DI PAPILLOMAVIRUS DOPO LA VACCINAZIONE ANTI-HPV?
Lo dicono ormai diverse proiezioni: la combinazione tra l’adesione massiccia alla vaccinazione contro l’HPV e quella allo screening è destinata a portare verso lo zero il numero dei decessi provocati dal tumore della cervice uterina. Occorre comunque tenere gli occhi aperti per valutare l’eventuale diffusione di altri ceppi virali, rispetto a quelli a maggior potere oncogeno (6, 11, 16, 18, 31, 33, 45, 52 e 58) da cui è possibile difendersi tramite vaccinazione e screening diagnostico. La riflessione emerge da uno studio finlandese pubblicato sulla rivista Cell Host & Microbe, in cui persone vaccinate e non contro l’HPV sono state sottoposte a un Pap test 4 e 8 anni dopo l’immunizzazione. Come previsto, la diffusione dei ceppi oncogeni è risultata drasticamente ridotta nelle persone vaccinate. Nello stesso campione, però, è stata registrata una varietà di ceppi di HPV significativamente superiore rispetto a quanto avvenuto nel gruppo di controllo. Secondo i ricercatori, quanto osservato è segno con ogni probabilità della capacità del virus, alla pari di altre entità biologiche, di adattarsi al nuovo ambiente. Si tratta di risultati che non mettono in alcun modo in discussione le linee guida sulla vaccinazione contro l’HPV. Conoscere meglio le dinamiche evolutive dei Papillomavirus associate ai vaccini, attraverso lo studio di dati come questi ottenuti proprio grazie alla campagna vaccinale, potrebbe rivelarsi utile per rendere sempre più efficaci gli screening in futuro.
Indagini sui fattori di rischio
Talco
NON C’È DA ALLARMARSI SUL TALCO
In questo articolo: — IARC — TALCO
— CLASSIFICAZIONI SOSTANZE CANCEROGENE
La IARC ha inserito il talco nella categoria 2A dei probabili cancerogeni per l’uomo. Non è però il caso di preoccuparsi
Nel luglio 2024 la IARC, l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro che fa capo all’Organizzazione mondiale della sanità, ha inserito il talco nella categoria 2A, quella che raccoglie le sostanze cosiddette probabilmente cancerogene per l’essere umano. In particolare, le evidenze esaminate dagli esperti della IARC riguardano il rischio di sviluppare una neoplasia dell’ovaio.
Significa che qualsiasi tipo di esposizione al talco aumenta la probabilità di incorrere in tumori ovarici? No. Vediamo di fare chiarezza.
a cura di Cristina Da Rold
Anzitutto è importante precisare che, quando le Agenzie internazionali – non c’è solo la IARC, ma anche altre realtà, come ECHA – classificano le sostanze rispetto alla loro potenziale cancerogenicità, parlano di peri-
colo, non di effettivo rischio. “Una sostanza è potenzialmente pericolosa in relazione al suo uso: anche l’acqua è pericolosa per la salute, se la inaliamo a livello polmonare, ma non significa che bere acqua sia pericoloso tout court per noi” spiega Marina Marinovich, tossicologa presso il Dipartimento di scienze farmacologiche e biomolecolari dell’Università degli studi di Milano. Pericolo quindi in questo caso non coincide con rischio.
Aver classificato il talco tra le sostanze potenzialmente cancerogene significa dunque questo: non si può escludere che un consumo prolungato, costante, di talco nelle zone genitali sia correlato a una maggiore incidenza di cancro ovarico, anche se sulla base dei dati a disposizione, ottenuti prevalentemente su modelli animali, questo legame appare comunque molto debole.
La valutazione è stata condotta da 29 esperti di 13 Paesi, che hanno analizzato le evidenze scientifiche emerse nella letteratura degli ultimi anni rispetto specificamente all’uso prolungato nel tempo di talco nelle aree genitali e alla possibile correlazione con il cancro ovarico.
Quel “non è escluso” è il punto cruciale. Il talco non è stato inserito nella categoria 1 della IARC, cui appartengono le sostanze che la letteratura medica ha chiarito essere cancerogene per gli esseri umani senza se e senza ma, come per esempio il fumo e l’amianto. Una sostanza viene inserita dagli esperti dell'organizzazione in categoria 1 solo se ci
sono stati abbastanza esperimenti condotti sulla nostra specie che evidenziano un nesso chiaro fra esposizione alla sostanza e insorgenza del cancro, e sui meccanismi alla base dell’insorgenza. Quest’ultima condizione è particolarmente importante per eliminare i risultati provenienti da correlazioni cosiddette spurie, cioè i casi in cui si osserva un nesso statistico ma non si è in grado di individuarne l’esatto motivo.
Le sostanze inserite in categoria 2, al contrario, non sono state sufficientemente testate sugli esseri umani per far sì che la comunità scientifica si possa esprimere in modo definitivo. I risultati scientifici presi in considerazione dagli esperti della IARC derivano da esperimenti condotti sugli animali. Il talco è stato inserito nella categoria 2A perché esistono evidenze sufficienti (ma non ancora esaustive) provenienti da modelli animali che indicano una possibile correlazione fra consumo di talco frequente nelle aree genitali e i tu-
lavoro ha concluso che non è stato possibile stabilire un’associazione causale. In particolare, sono stati riscontrati tassi più elevati di cancro dell’ovaio negli studi sulle donne che lavoravano nell’industria della carta e della cellulosa, dove l’esposizione al talco è elevata. Tuttavia, non si poteva escludere un effetto confondente dovuto alla coesposizione all’amianto e ad altri fattori, e i tassi più elevati si basavano su un numero esiguo di tumori ovarici in quegli studi occupazionali.
“Gli studi sugli animali sono condotti in modo diverso rispetto agli esperimenti sugli esseri umani. Nell’animale si induce uno stress molto elevato sull’organismo per evidenziare gli effetti di una sostanza, mentre sull’uomo per ovvie ragioni questo non si può certo fare” spiega Marinovich.
Queste classificazioni sono pensate per chi quelle sostanze le produce, non al fine di dire alle persone che cosa è meglio che facciano nella loro vita quotidiana
mori che si sviluppano nelle cellule dell'ovaio.
Negli anni sono stati condotti numerosi studi sul cancro negli esseri umani che hanno mostrato un aumento dell’incidenza di cancro ovarico tra le donne che hanno segnalato l’uso di talco per il corpo nella regione perineale. Il più grande studio epidemiologico – che raccoglie cioè dati sui comportamenti e sulle diagnosi nelle stesse persone per molti anni – è stato pubblicato sulla rivista JAMA nel 2020 e ha monitorato 250.000 donne per 11 anni. È emersa una blanda associazione significativa fra esposizione e tumore, ma al tempo stesso il gruppo di
“Dobbiamo sempre ricordarci che le classificazioni nelle categorie ‘probabilmente cancerogeno’ sono pensate per gli addetti ai lavori, per chi quelle sostanze le produce, non al fine di dire alle persone che cosa è meglio che facciano – in questo caso usare o no il talco” conclude la tossicologa Marina Marinovich. “La logica inoltre è sempre di utilizzare il principio di precauzione massima verso chi manipola queste sostanze e che dunque vi è esposto in modo massiccio, fuori dal comune. Bisogna stare attenti a semplificare e a dare alla popolazione dei messaggi esagerati. Per chi fa uso quotidiano del talco non c’è alcuna allerta.”
di rischio / Talco
UN POSSIBILE PRIMO PASSO PER BLOCCARE LA CRESCITA DELLE CELLULE TUMORALI
In questo articolo:
— REPLICAZIONE DEL DNA
— CELLULE IPERPROLIFERATIVE
— TERAPIE PERSONALIZZATE
I ricercatori dell’Istituto guidati da Vincenzo Costanzo hanno testato l’efficacia di diversi composti nell’arrestare la replicazione del DNA. Una potenziale svolta, che andrà confermata nei successivi studi, anche in combinazione con le attuali terapie
a cura della redazione
Limitata per ora a uno studio in vitro, la scoperta è destinata a essere approfondita seguendo i successivi step della sperimentazione di un farmaco: prima nel modello animale e poi in vivo. Questo, al momento, è l’auspicio. La certezza è che la ricerca per rispondere alla comparsa di un tumore fin dalle sue origini prosegue senza sosta. Va in questa direzione il progetto portato avanti da un gruppo di scienziati di IFOM, che ha individuato un potenziale trattamento farmacologico in grado di inibire la replicazione del DNA delle cellule cancerose. Un’azione specifica, quindi non rivolta dunque alle cellule sane, e considerata essenziale per interrompere il processo di crescita (prima) e diffusione (poi) di una malattia tumorale. Ma soprattutto più radicale e tempestiva dei trattamenti oggi in uso, dal momento che l’obiettivo in questo caso è
COS’È IFOM
IFOM, l’Istituto di oncologia molecolare di AIRC, è un centro di ricerca di eccellenza internazionale dedicato allo studio della formazione e dello sviluppo dei tumori a livello molecolare, nell’ottica di un rapido trasferimento dei risultati scientifici dal laboratorio alla cura del paziente. Fondato nel 1998 a Milano da Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro, che da allora ne sostiene lo sviluppo, IFOM oggi può contare su 269 ricercatori di 25 diverse nazionalità, e si pone l’obiettivo di conoscere sempre meglio il cancro per poterlo rendere sempre più curabile.
andare all’origine del processo di crescita di una neoplasia. Per arrestarlo, almeno in prima istanza, se non per sempre (con l’auspicio di evitare recidive e metastasi).
COME INTERROMPERE LA REPLICAZIONE DELLE CELLULE TUMORALI?
Il primo obiettivo di chi fa ricerca in ambito oncologico è capire quali cause determinino la trasformazione di una cellula da normale a neoplastica, nel tentativo di evitare, o almeno meno ritardare, questo processo. Quando ciò non è possibile, però, non meno importante è poter evitare che il DNA avvii il processo di replicazione. “Parliamo di un processo essenziale per la vita, che diventa però un problema nel momento in cui riguarda le cellule tumorali” afferma Vincenzo Costanzo, alla guida del Laboratorio sul metabolismo del DNA in IFOM, professore ordinario di patologia generale all’Università degli studi di Milano e coordinatore della scoperta, descritta in uno studio pubblicato sulla rivista iScience. “Le cellule cancerose mostrano una crescita incontrollata, dal momento che la replicazione del DNA ha origine in più punti della
doppia elica. Questa alterazione comporta un’instabilità genomica, che può concorrere tanto alla formazione quanto alla crescita della malattia in una fase in cui le persone risultano asintomatiche.” Rilevare tali aspetti, e soprattutto poter intervenire con inibitori in grado di interferire con la replicazione del DNA, è considerato cruciale.
LA SCOPERTA DEL POTENZIALE
COMPOSTO ANTICANCRO
Obiettivo dello studio – finanziato da Fondazione AIRC, Fondazione Armenise-Harvard e da un grant ERC – è stato identificare delle sostanze potenzialmente in grado di inibire alcune delle proteine essenziali per avviare la macchina di replicazione del DNA. Nello specifico: CDC6 e il complesso proteico MCM2-7. “Proteine che risultano essere presenti in quantità di gran lunga superiori all’atteso nelle cellule tumorali” chiarisce Costanzo. Nella ricerca, che ha potuto contare anche sulla collaborazione del Laboratorio di experimental therapeutics program di IFOM, diretto da Ciro Mercurio, e di diversi esperti in oncologia molecolare e biochimica, sono stati utilizzati modelli in vitro per eseguire uno scree-
induce la morte delle cellule umane altamente proliferative, come quelle tumorali” spiega Costanzo. “Il momento cruciale dello studio è stato osservare che questo nuovo inibitore poteva destabilizzare specificamente CDC6, impedendo il caricamento del complesso proteico MCM sul DNA: uno step fondamentale per il processo di replicazione.”
IL FUTURO DELLA RICERCA
Il potenziale farmaco in questione sembra comportarsi come una “colla molecolare”, in grado di favorire la formazione di legami aggiuntivi tra proteine e provocare in questo modo un effetto biologico a livello cellulare. Nel caso specifico, l’arresto della replicazione delle cellule neoplastiche. Durante gli esperimenti, condotti anche su cellule di tumore del seno e del colon-retto, è emerso che il farmaco inibiva la replicazione del DNA in modo dose-dipendente, cioè proporzionale alla quantità di sostanza utilizzata, portando a citotossicità e quindi a morte cellulare. Una peculiarità che ha confermato il suo potenziale come terapia mi-
“Questa scoperta indica una possibile strada per una nuova classe di farmaci anticancro mirati alle cellule iperproliferative”
ning ad alta efficacia dei potenziali inibitori. “Siamo partiti da migliaia di composti e, dopo 4 anni, abbiamo ristretto la lista a una decina di questi, la cui efficacia è stata poi testata nel corso dello studio.” È così emerso che un principio attivo in particolare – NSC-95397, appartenente alla famiglia dei benzochinoni – è in grado di impedire l’assemblaggio dell’enzima elicasi sul DNA, legandosi proprio alla proteina CDC6 e promuovendone la degradazione. “Questo processo
rata contro il cancro. Il ricercatore conclude: “Questa scoperta indica una possibile strada per lo sviluppo di una nuova classe di farmaci anticancro mirati specificamente alle cellule iperproliferative e offre un approccio promettente alle terapie personalizzate. Nella prossima fase della ricerca bisognerà valutare l’efficacia di questo composto in contesti clinici ed esplorare il suo potenziale in combinazione con altri trattamenti oncologici.”
Lasciti testamentari
cura di Antonino Michienzi
Un inizio di vita lavorativa passato in ufficio, poi una carriera da broker di componenti informatiche. Una vita piena di sfide quella di Ivana, fino alla scelta, con la pensione, di trasferirsi al mare, in Liguria.
“La vita da pensionato però non fa per me” avverte. “Non so stare ferma, non sopporto la noia e mi tengo impegnata in mille cose: alleno il mio inglese, vado in spiaggia e poi ci sono il teatro, i concerti, gli amici. Soprattutto, tutte le volte che posso faccio un viaggio.”
Sono proprio questa grinta e determinazione che l’hanno portata a pensare al futuro e a disporre un lascito testamentario. Il suo percorso verso questa decisione, come è naturale, ha richiesto una profonda riflessione.
“Il rapporto con AIRC è iniziato un po’ come per tutti: la pubblicità, le iniziative in piazza. Rispetto ad altre organizzazioni, ho sempre avuto fiducia in AIRC, perché, nonostante il cancro non sia debellato, vedo che sono stati fatti tanti passi avanti” commenta.
Quando ha scoperto di avere dei melanomi, fortunatamente allo stadio iniziale, Ivana ha provato in prima persona l’importanza della preven-
IL LASCITO TESTAMENTARIO: UNA SCELTA CHE GUARDA AL DOMANI
Nelle parole di Ivana, il racconto di una decisione consapevole, frutto di un profondo legame con la ricerca oncologica e con il futuro di chi verrà
zione e di avere accesso a cure d’avanguardia. A influire sulla decisione del lascito è stata anche la sua situazione familiare. “Sono sposata, ma non ho figli. Ho quindi pensato che un giorno, quando non ci sarò più, sostenendo AIRC potrò continuare a dare un contributo per affrontare il cancro.”
Ci è voluto del tempo, però, perché l’idea di redigere il testamento maturasse del tutto e si concretizzasse. Ivana si è innanzitutto informata su come fare testamento al meglio, per essere certa che le sue volontà venissero rispettate. Quindi, si è presa del tempo per elaborare gli aspetti emotivi legati a questo passo, per esempio il rapporto con la morte.
“Alla fine, ho capito che fare testamento, da questo punto di vista, non cambia nulla. Io non mi sento vecchia, almeno mentalmente. Certo, non è che non abbia timori per il domani, ma la decisione di fare il testamento non incide su quello che mi riserverà la vita. Anzi, mi tutela.” Ivana ha quindi contattato AIRC, ha acquisito informazioni, ha riflettuto ancora sulla sua decisione. Ha avuto anche modo di visitare IFOM, il centro di ricerca fondato e finanziato da AIRC a Milano, toccando con mano come vengono impiegate le risorse
che i donatori destinano alla Fondazione.
Attraverso la sua scelta, Ivana ci ricorda come un lascito possa essere non solo un gesto di fiducia nel futuro, ma anche un modo di tutelare le proprie decisioni. Come lei stessa ci ha detto: “spero di vivere fino a 120 anni, ma ora so che quando arriverà il momento saranno rispettate le mie volontà”.
Puoi scegliere, come Ivana, di fare testamento a favore di Fondazione AIRC e intitolarlo alla tua memoria o alla memoria di una persona cara. Per ogni domanda specifica puoi contattare Anna Sarri 02 779 73 19 anna.sarri@airc.it VUOI DISPORRE
a
Pratica clinica
Disabilità e cancro
DISABILITÀ E CANCRO, UNA SFIDA CHE MERITA PIÙ ATTENZIONE
In questo articolo:
— DISABILITÀ INTELLETTIVA
— RISCHIO ONCOLOGICO
— ACCESSO ALLE CURE
Diversi studi evidenziano una maggiore incidenza di alcuni tumori e ridotte chance di guarigione per chi convive con una disabilità. Gli esperti invitano a mettere a punto programmi ad hoc per l'assistenza a questi pazienti, ispirandosi a quanto già accade quando ad ammalarsi è un bambino
a cura di Fabio Di Todaro
Le ragioni alla base sono ancora sconosciute. Quella che era una supposizione, però, oggi ha fondamenta più solide. Rispetto alla popolazione generale, le persone con una disabilità intellettiva che si ammalano di cancro hanno maggiori probabilità di perdere la vita a causa della malattia. Il dato che supporta l’affermazione emerge da uno studio canadese pubblicato sul Canadian Journal of Public Health. Focus su 3 big killer: tumore del seno, del polmone e del colon-retto. Indipendentemente dallo stadio della malattia, “chi convive con un disturbo del neurosviluppo mostra tassi di sopravvivenza inferiori rispetto a tutti gli altri”: è quanto messo nero su bianco dai ricercatori della Queen’s University (Kingston) e dell’ateneo di Manitoba.
SFORZI ANCORA INADEGUATI
Gli autori dello studio hanno analizzato i dati di oltre 330.000 persone che avevano ricevuto una diagnosi di tumore del seno, del colon-retto o polmonare in Canada tra il 2009 e il 2017. Secondo i risultati, tra i pazienti con una disabilità intellettiva che stavano facendo i conti con un tumore al seno e al colon-retto il rischio di morte era di oltre 2 volte superiore rispetto agli altri malati. Di 1,38 invece l’incremento registrato tra chi aveva sviluppato una malattia oncologica polmonare.
A fronte di una complessità del percorso di cura superiore a quella che si rileva nella popolazione generale, gli sforzi garantiti per migliorare l’assistenza alle persone con disabilità che si ammalano di cancro sembrano quindi ancora inadeguati. Gli studi che finora hanno fatto luce sulle diverse barriere che limitano l’efficacia delle cure in questa popolazione di pazienti sono stati condotti perlopiù nei Paesi anglosassoni. Eppure nessuna società scientifica nelle stesse nazioni – dal Canada al Regno Unito, per arrivare alle società americana (ASCO) ed europea (ESMO) di oncologia medica – hanno finora prodotto linee guida ad hoc per l’approccio
alla diagnosi, alla terapia e alle cure di supporto di cui necessitano questi pazienti.
IL BUON ESEMPIO CHE ARRIVA
DALL’ONCOEMATOLOGIA PEDIATRICA
Secondo Anna Reisman, direttrice del programma per l’umanizzazione delle cure all’Università di Yale, un modello a cui ispirarsi per migliorare l’assistenza ai malati oncologici con disabilità è quello che giunge dall’oncoematologia pediatrica. “Serve rapportarsi al paziente e alla sua famiglia in maniera longitudinale” scrive la specialista in un articolo pubblicato lo scorso anno sul New England Journal of Medicine, in cui vie-
ne descritto l’approccio a una donna con un disturbo dello spettro autistico, poi deceduta. “I colleghi della pediatria sono abituati a coltivare le relazioni con lo stesso impegno che dedicano all’assistenza clinica. Anche offrendo esperienze che aiutino a demistificare l’esperienza della malattia.” Ma l’assistenza ai pazienti con disabilità che sviluppano un tumore ha in realtà tanti punti di contatto anche con altri contesti in cui i bisogni sociali si legano a quelli di salute: dall’assistenza agli anziani a quella ai migranti. “Dove la conoscenza clinica non basta, occorre rispolverare l’arte della medicina per correggere le disuguaglianze” afferma la specialista.
Per migliorare l’assistenza ai malati oncologici con disabilità si potrebbe prendere esempio dagli specialisti in oncoematologia pediatrica, abituati a coltivare l’aspetto relazionale
INTELLETTIVA
Le persone con una disabilità intellettiva sono più vulnerabili anche durante il percorso terapeutico, a causa di una maggiore fragilità fisica che le espone di più agli effetti collaterali, delle difficoltà a rispettare il piano terapeutico e dei limiti nella gestione degli aspetti decisionali da condividere con il proprio oncologo. “La disabilità intellettiva rappresenta un problema nel problema” chiarisce Paola Varese, alla guida del comitato scientifico della Federazione italiana delle associazioni di volontariato in oncologia (FAVO). “Nel nostro caso, la partecipazione attiva del malato al processo decisionale è determinante, in virtù del margine di incertezza sul decorso e del rischio di tossicità. Molti pazienti con disabilità intellettiva non sono però riconosciuti tali ai fini della legge e pertanto nessuno è legittimato a decidere in loro vece.”
UN RISCHIO PIÙ ALTO
DI AMMALARSI DI CANCRO
In Italia, secondo l’ISTAT, vivono più di 3 milioni di persone con vari tipi di disabilità. Ovvero un connazionale su 20. Rispetto al dato complessivo, la metà è costituita da over 75. Questi individui possono ammalarsi più facilmente di cancro, a causa di stili di vita meno salutari (maggiore attitudine al fumo di sigaretta e alla sedentarietà), esami radiografici più frequenti (con maggiore esposizione alle radiazioni ionizzanti) e un generale processo di invecchiamento che si manifesta in anticipo rispetto alle persone senza disabilità. Se si considera la portata dei numeri e si tiene a mente che i tumori rimangono malattie peculiari della terza età, la conclusione è dunque presto tratta. Ma quanti sono i connazionali in questa situazione? Nessuno, al momento, ha questi numeri. “Parliamo di un problema che è destinato ad aumentare” avverte Elisabetta Iannelli, segretario generale della FAVO. “Se da un lato ci sono i progressi scientifici e i supporti sociali che permettono a queste persone di convivere sempre più a lungo con la propria disabilità,
dall’altro occorre considerare che l’aumento della prospettiva di vita porta con sé un rischio più elevato di sviluppare malattie quali i tumori.
Serve una pianificazione assistenziale integrata con una valutazione
multidisciplinare, per elaborare un progetto di cura individualizzato
Occorre che il sistema Paese prenda atto di questo aspetto e attui una serie di misure per rendere il sistema sanitario più inclusivo e realmente universalistico.”
TROPPI LIMITI NELL’ACCESSO AGLI
STUDI E ALLA DIAGNOSI PRECOCE
Diversi studi hanno descritto le barriere che chi convive con una disabilità quasi sempre incontra nel momento in cui si ammala di cancro. Questi pazienti sono coinvolti raramente nelle sperimentazioni cliniche. Nella valutazione delle condizioni complessive dei malati, inoltre, il peso della disabilità non viene riconosciuto ancora in maniera adeguata. Il sistema sanitario è così quasi sempre in difficoltà nell’offrire sia infrastrutture e macchinari tarati sulle esigenze di questi pazienti, sia strategie di comunicazione e supporto psicologico efficaci e rivolte tanto alle persone con disabilità quanto ai loro caregiver. Andando sugli aspetti più pratici, in un articolo pubblicato su The Lancet Oncology, Lisa Iezzoni (direttrice del Centro di ricerca sulle politiche sanitarie del Massachusetts General Hospital di Boston) aveva fissato già nel 2022 le priorità per potenziare l’assistenza alle persone con disabilità affette da un tumore: accrescere la partecipazione agli screening oncologici (diversi studi hanno evidenziato tassi di risposta inferiore per gli screening del tumore al seno e della cervice uterina, un aspetto dovuto anche all’assenza di macchinari accessibili per questi pazienti), agevolare il percorso diagnostico (la diffi-
coltà a utilizzare lettini e macchinari per l’imaging porta spesso a ritardare le diagnosi), ottimizzare l’accesso alle cure (pochi i dati disponibili sulla loro efficacia in questi pazienti) e al follow-up (si registra un ridotto accesso agli ospedali per controlli e terapie rispetto alle persone senza disabilità). Senza considerare poi la necessaria riabilitazione.
UN’ASSISTENZA UNICA PER PAZIENTI SPECIALI
A rendere particolarmente complessa l’assistenza a una persona con disabilità è infine l’eterogeneità del quadro. Nella definizione confluiscono categorie di pazienti molto diverse tra loro. Per una valutazione corretta ed esaustiva, occorre considerare diversi fattori: “Il tipo di disabilità, le limitazioni correlate, la proporzione tra beneficio atteso e probabilità di effetti collaterali di un trattamento, l’interferenza delle cure oncologiche con quelle per la malattia preesistente, l’aspettativa di vita, i desiderata di un paziente e la presenza di un caregiver o di un amministratore di sostegno” conclude Varese, che dirige il Reparto di medicina interna a indirizzo oncologico del presidio ospedaliero di Ovada (Alessandria). “Questa elevata complessità si traduce spesso in ridotte opportunità di cura a causa della mancata integrazione tra i servizi. Mai come in questo contesto è necessaria una pianificazione assistenziale integrata, con una valutazione multidisciplinare reale che consenta di elaborare un progetto di cura individualizzato.”
/ Pratica clinica / Disabilità e cancro
I TRAGUARDI DEI NOSTRI
RICERCATORI
In questo articolo:
— INSTABILITÀ GENOMICA
— NEOPLASIE MIELOPROLIFERATIVE
— TUMORE AL PANCREAS
a
UNA PROTEINA DIETRO IL CAOS CELLULARE DEI TUMORI
Un gruppo di ricercatori sostenuti da AIRC ha individuato una proteina che promuove la crescita dei tumori caratterizzati da instabilità cromosomica, come quelli dell’ovaio e del seno. La scoperta potrebbe aiutare i medici a predire l’andamento della malattia nei pazienti
UN PODCAST FONDAMENTALE
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Per la prima volta è stato riconosciuto il possibile ruolo della proteina p62 nella crescita neoplastica in alcuni tipi di cancro, da alcuni ricercatori guidati da Stefano Santaguida dell’Istituto europeo di oncologia (IEO) e dell’Università degli studi di Milano. In futuro questa molecola potrebbe diventare un marcatore prognostico, cioè aiutare a prevedere l’andamento della malattia in singoli pazienti oncologici. I risultati, ottenuti grazie al sostegno di AIRC e a una fitta rete di collaborazioni sia nazionali sia internazionali, sono stati pubblicati sulla rivista Science. Gran parte delle cellule tumorali è caratterizzata
da instabilità genomica, un fenomeno che porta all’aumento della frequenza di mutazioni e altre alterazioni nel materiale genetico delle cellule e si osserva soprattutto durante il processo di divisione di una unità in due cellule figlie. Da queste anomalie deriva la tendenza delle cellule neoplastiche a dare origine ai cosiddetti micronuclei, strutture anomale che contengono parte del materiale genetico e si trovano al di fuori del nucleo principale della cellula. L’elevata fragilità del rivestimento dei micronuclei favorisce il rilascio nell’ambiente cellulare del loro contenuto e contribuisce allo sviluppo canceroso. “È così che queste strutture diventano potenti catalizzatori
cura di Camilla Fiz e Jolanda Serena Pisano
del caos cellulare tipico dei tumori” racconta Santaguida. “Prima del nostro studio non sapevamo perché ci fossero dei problemi nel riparare il fragile rivestimento dei micronuclei. Ora abbiamo capito che le funzioni e la concentrazione della proteina p62 sono responsabili del suo collasso.”
Lo studio è partito dall’osservazione che il nucleo primario rimane intatto, mentre il micronucleo è difettoso e fragile. “Abbiamo ipotizzato che nelle due strutture operassero processi e proteine diverse” spiega Santaguida. “Dopo aver separato nucleo e micronucleo con complesse tecniche di biologia cellulare e aver svolto la spettrometria di massa, abbiamo visto che p62 era tra le proteine più arricchite nei micronuclei.” Gli esperimenti sono poi continuati in diversi tipi di cellule tumorali in coltura: “Abbiamo osservato che i tumori con un’alta instabilità cromosomica ed elevati livelli di p62 tendono ad avere una peggiore prognosi” commenta il ricercatore.
Date queste caratteristiche, p62 potrebbe essere utilizzata in futuro per aiutare i medici a prevedere e gestire al meglio il percorso clinico di pazienti con tumori caratterizzati da alta instabilità dei cromosomi, come quelli del sistema gastroin-
testinale, dell’ovaio e della mammella. Tuttavia, ciò sarà possibile solo dopo aver confrontato i livelli della proteina con l’andamento della malattia in pazienti con questi tipi di tumore. “Dobbiamo però essere cauti nel pensare a un risvolto terapeutico di questa scoperta” commenta Santaguida, riferendosi al fatto che p62 non regola soltanto l’integrità del rivestimento dei micronuclei nelle cellule tumorali, ma è anche responsabile di processi fisiologici in quelle sane. Quindi, aggiunge, “una nuova cura non può semplicemente bloccare l’attività di p62, ma deve cercare di separare le funzioni di p62 nel micronucleo da quelle svolte in altri compartimenti cellulari e capire come modulare la sua espressione nei tumori”. Al momento, il gruppo di ricerca è concentrato sull’avviare un nuovo progetto che valuti il potere prognostico della proteina p62. “Mi piacerebbe raccogliere diversi campioni tumorali, stratificati per alti e bassi livelli di p62, e confrontarli con la storia clinica dei pazienti. Così potremmo studiare meglio i casi con un’elevata espressione di p62 e capire come questa proteina sia collegata a una prognosi sfavorevole” conclude Santaguida.
UN FARMACO ANTIASMATICO PER LA CURA DEL TUMORE AL PANCREAS?
Il cancro al pancreas è spesso molto aggressivo e difficile da trattare. Ma una nuova terapia per curarlo potrebbe venire dal budesonide, un antinfiammatorio che è tra i farmaci oggi più usati per prevenire l’asma cronico. È quanto emerge da un recente studio sostenuto da AIRC del gruppo di ricerca di Gabriella Minchiotti, dell’Istituto di genetica e biofisica A. Buzzati-Traverso del Con-
siglio nazionale delle ricerche (CNR) di Napoli. Nei loro esperimenti di laboratorio il budesonide sembra avere ridotto la crescita delle cellule di tumore al pancreas con un’efficacia paragonabile a quella della gemcitabina, il chemioterapico più utilizzato per il trattamento di questo tipo di cancro. I risultati della ricerca dovranno essere confermati anche nei pazienti.
SCOPERTA UN’ANOMALIA GENETICA CHE FAVORISCE ALCUNI
TUMORI DEL SANGUE
Conoscere meglio la genetica delle neoplasie può aiutare a individuare potenziali bersagli di terapie innovative. Una possibile speranza in questo senso viene da una scoperta del gruppo di ricerca di Rossella Manfredini presso il Centro interdipartimentale di cellule staminali e medicina rigenerativa dell’Università di Modena e Reggio Emilia (Unimore). I ricercatori, nell’ambito del programma AIRC 5 per mille coordinato da Alessandro Vannucchi, hanno scoperto una nuova alterazione del DNA responsabile di una forma aggressiva di neoplasia
mieloproliferativa – un cancro che colpisce le cellule staminali del sangue e per il quale a oggi non esiste una cura definitiva. Spesso questi tumori sono caratterizzati da mutazioni a carico del gene JAK2, ma i ricercatori hanno scoperto che in alcuni casi c’è anche un’amplificazione del cromosoma 9, cioè un numero di copie dei suoi geni superiore al normale. Questa alterazione sembra inibire l’attivazione del sistema immunitario e stimolare la proliferazione delle cellule staminali da cui il cancro si origina e si propaga.
Psiconcologia
Dialogo medico-paziente
INFORMAZIONI PIÙ CHIARE E MAGGIORE EMPATIA: COSA CHIEDONO AI MEDICI I PAZIENTI CON TUMORI DELL’APPARATO GENITALE MASCHILE
In questo articolo:
— EFFETTI COLLATERALI
— TUMORE DELLA PROSTATA
— TUMORE DEL TESTICOLO
Un’indagine condotta in 6
Paesi europei, tra cui l’Italia, sui pazienti con tumore della prostata ha svelato i limiti che contraddistinguono la comunicazione tra i camici bianchi e i loro assistiti
a cura della redazione
Se sul piano della cura molto è già stato fatto, più lungo e articolato è il percorso da compiere per quel che riguarda la comunicazione e l’empatia nel rapporto tra medico e paziente, nel momento in cui quest’ultimo è alle prese con un tumore della prostata. Ancora in troppi casi, infatti, chi è chiamato a fare i conti con la malattia è attore non protagonista del proprio percorso di cura. Ciò vuol dire che le indicazioni e le prescrizioni che riceve dallo specialista di riferimento – urologo, oncologo o radioterapista – nella maggior parte dei casi continuano a essere il frutto di un rapporto unidirezionale. Sempre più spesso sarebbe invece necessario un confronto. Per il tumore della prostata, infatti, in particolare per quanto riguarda le forme a basso rischio di evoluzione, abbiamo ormai a
disposizione addirittura un ampio ventaglio di opportunità terapeutiche, dalla chirurgia alla radioterapia fino alla sorveglianza attiva, con un impatto che può essere decisamente diverso sulla qualità della vita degli uomini dopo la malattia.
COME MIGLIORARE IL RAPPORTO
TRA MEDICI E PAZIENTI?
Di fronte a uno scenario così eterogeneo, la condivisione tra specialisti e pazienti dovrebbe rappresentare la regola. Così però evidentemente ancora non è, se si leggono le con-
Oltre un paziente con tumore alla prostata su due ha ritenuto di aver avuto poche o nulle opportunità per esprimere le proprie emozioni
clusioni di uno studio i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista European Urology Open Science. Interrogando 372 pazienti che stavano affrontando il percorso diagnostico o terapeutico, gli autori della ricerca hanno voluto indagare la qualità del rapporto con i rispettivi specialisti. Un lavoro condotto in 6 nazioni (Italia, Germania, Olanda, Francia, Spagna e Regno Unito) al fine di avere un quadro eterogeneo e attendibile nel continente che per primo ha puntato sul valore dell’umanizzazione delle cure.
Nel complesso, la maggior parte dei partecipanti ha riferito “esperienze positive”. Ma l’istantanea scattata è in chiaroscuro, come confermano le conclusioni del lavoro: “Sono state identificate importanti opportunità per migliorare la comunicazione tra specialisti e uomini alle prese con un tumore della prostata”. Scorrendo le risposte fornite dai pazienti, emerge che oltre 1 su 2 ha ritenuto “di aver avuto poche o nulle opportunità per esprimere le proprie emozioni”. Nel 40 per cento dei casi, poi, i malati hanno segnalato “di non aver potuto contare, se non in maniera occasionale, su momenti di confronto” con il proprio medico. Un problema rilevato in maniera trasversale, indipendentemente dallo step del percorso: dalla diagnosi al trattamento, fino al follow-up. Non meno rilevante è la considerazione espressa da oltre un terzo degli uomini (37 per cento), secondo cui “il rapporto con lo specialista è condizionato da poca fiducia reciproca”. Lo stesso dicasi per chi ha dichiarato di avere sperimentato “una scarsa condivisione delle informazioni riguardanti la
malattia e il percorso di trattamento”, un pensiero espresso da quasi la metà degli intervistati (41 per cento). Senza tralasciare che una quota analoga di pazienti non ha “avuto modo di discutere apertamente delle proprie preoccupazioni”, in una quota considerevole di casi (quasi 1 su 3) “nemmeno riconosciute dal nostro interlocutore”.
IL VALORE DELLE PAROLE
Inevitabile che, a fronte di questi dati, 4 uomini su 10 abbiano dichiarato di essere “poco o per nulla soddisfatti della comunicazione con il professionista di riferimento”: urologo, oncologo o radioterapista. “Ci sono degli aspetti che vanno migliorati: dall’attenzione alla componente emotiva di ogni paziente alla verifica della comprensione delle informazioni fornitegli, soprattutto quando ci si rende conto di avere di fronte persone con una ridotta alfabetizzazione sanitaria” ammette Alberto Briganti, direttore del programma di chirurgia robotica del Dipartimento di urologia dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano e tra gli autori della ricerca. “Tutto ciò deve passare dal ricorso a un linguaggio semplice, che aiuti a comprendere alcuni aspetti chiave della gestione di questa malattia.” Per esempio, “quando si parla di sorveglianza attiva, dobbiamo essere chiari nel far capire che lasciare il tumore in sede non impatta sulla prospettiva di vita. Ma, anzi, permette di evitare almeno inizialmente la comparsa degli effetti collaterali legati al trattamento.” Anche in questo caso, i veli non servono. “Un uomo alle prese con un cancro della prostata” aggiunge l’esperto “deve aver
ben chiaro cosa voglia dire soffrire di incontinenza urinaria. Per essere sicuri, occorre spiegargli che potrebbe perdere qualche goccia di urina quando porta la spesa a casa, si alza dalla sedia o prende in braccio un nipotino. È il modo più chiaro per evitare incomprensioni. Lo stesso discorso vale per la disfunzione erettile: va sempre chiarito che si tratta dell’incapacità di avere un’erezione in grado di consentire un rapporto sessuale completo.”
PIÙ EMPATIA NELL’ERA DELLA
MEDICINA DI PRECISIONE
La fotografia scattata dagli specialisti europei rappresenta dunque un punto di partenza per migliorare l’assistenza sanitaria da garantire a questi pazienti. “Il tumore della prostata è il più diffuso tra gli uomini, eppure ci sono alcuni luoghi comuni ancora difficili da sfatare” precisa Briganti, che è anche ordinario di urologia all’Università Vita-Salute San Raffaele. “I progressi registrati negli ultimi decenni portano molte persone a pensare che questa forma di cancro sia meno grave di tante altre, ma la realtà è diversa. Il modello a cui ispirarci è quello da anni coltivato dagli specialisti che si occupano di tumore del seno. Oggi conosciamo le tante possibili facce di questa malattia, che di conseguenza rendono molto eterogeneo il panorama dei pazienti.
Tocca a noi rendere loro comprensibile questa complessità.” Una sfida più articolata nell’epoca della medicina di precisione, che richiede competenze specifiche e una gestione multidisciplinare. “Chi ha a che fare con le persone alle prese con questa malattia deve essere esperto nella gestione del tumore della prostata. L’elevata competenza, del medico come dell’infermiere o dello psicologo, rappresenta il punto di partenza per fornire risposte chiare alle domande più difficili dei pazienti.”
QUALI SONO I BISOGNI DI CHI HA UN TUMORE DEL TESTICOLO E DEL PENE?
Sebbene ancora meno indagato, il ruolo della comunicazione è cruciale anche nella gestione di altre due forme di cancro che possono interessare l’apparato urogenitale maschile: il tumore del testicolo
(2.400 nuovi casi all’anno in Italia) e quello del pene (500). “Nel primo caso” chiarisce Briganti “ci troviamo di fronte a pazienti giovani che come prima preoccupazione hanno la guarigione. A seguire, chiedono lumi sull’impatto della malattia sulla fertilità e sulle conseguenze estetiche della chirurgia. Fortunatamente siamo in grado di dare loro molte speranze, grazie alla possibilità di congelare il seme e di ricorrere alle protesi.” Discorso diverso per chi invece sviluppa un tumore del pene. “Nonostante la chirurgia in questi casi sia demolitiva, i pazienti chiedono soprattutto chiarezza circa le possibilità che hanno di superare la malattia. Inevitabile che sia così, nel momento in cui gli individui colpiti sono generalmente adulti o anziani e con una prognosi peggiore rispetto a chi sviluppa un cancro della prostata e del testicolo.”
“Il tumore alla prostata ha tante facce, che di conseguenza rendono molto eterogeno il panorama dei pazienti. Tocca a noi rendere loro comprensibile questa complessità”
AIRC for Young Scientists
AIRC PER I GIOVANI RICERCATORI
In questo articolo:
— GIOVANI SCIENZIATI
— PROGETTI DI RICERCA
— PROGRESSI SCIENTIFICI
Da quasi 60 anni la Fondazione supporta gli scienziati che stanno tracciando percorsi di eccellenza nella ricerca oncologica. Le testimonianze di alcuni giovani ricercatori AIRC a cura di Jolanda Serena Pisano
L’impegno che Fondazione AIRC dedica ai giovani ricercatori è sempre maggiore. Lo mostrano, per esempio, la recente istituzione di nuovi bandi riservati a loro e l’evento AIRC for Young Scientists, il primo meeting scientifico per i giovani scienziati sostenuti dalla Fondazione. Il congresso, tenutosi il 22 e il 23 aprile 2024, ha consentito a oltre 100 di loro di partecipare a sessioni sui progressi della ricerca e sulla comunicazione della scienza, esporre i risultati del proprio lavoro, confrontarsi con i colleghi e stringere rapporti con altri giovani scienziati dalla formazione diversa. I congressi scientifici sono infatti fondamentali per il progresso della scienza perché consentono
Federica Sodano, assegnataria di un southern italy scholars grant.
di discutere sulle ricerche in corso, individuandone punti di forza e di debolezza, e di sviluppare nuove collaborazioni. Ma di cosa si occupano i giovani ricercatori AIRC?
VERSO UN LABORATORIO
INDIPENDENTE CON IL MY FIRST AIRC GRANT
“Quando avevo 7 anni chiesi un microscopio a Babbo Natale” racconta Piera Tocci, che ha poi approfondito la passione per la scienza specializzandosi in biologia molecolare e ha mosso i primi passi nell’ambito della ricerca oncologica presso l’Istituto nazionale tumori Regina Elena di Roma, occupandosi di cancro all’ovaio. Dopodiché, ha trascorso un anno presso il Weizmann Institute of Science, in Israele, rientrando in Italia grazie a un Grant AIRC triennale. Oggi lavora presso l’IRCCS Istituto nazionale tumori Regina Elena (IFO) di Roma, sostenuta da un My First AIRC Grant, il finanziamento AIRC che offre ai giovani scienziati la possibilità di costruire un nuovo team per sviluppare un progetto di ricerca indipendente. “Il mio progetto è incentrato sul carcinoma ovarico sieroso di alto grado, il tipo
di cancro dell’ovaio più aggressivo e resistente alle terapie. In particolare, studio come i recettori dell’endotelina, coinvolti nella comunicazione tra le cellule del cancro e il microambiente tumorale, contribuiscono alla resistenza di questa malattia ai trattamenti” spiega Tocci. Queste indagini potrebbero aiutare a individuare vulnerabilità del tumore da sfruttare per sviluppare strategie terapeutiche per combattere questa neoplasia. “Valuterò anche l’efficacia di nuove combinazioni di farmaci antitumorali” conclude la ricercatrice.
PROGRESSI DELLA RICERCA
PER LA PRATICA CLINICA
“Sin da quando studiavo medicina, a Napoli, ho cercato di combinare l’attività clinica e quella di ricerca. Poi, durante la specializzazione in chirurgia, mi sono occupata con passione di tumore della mammella, che purtroppo già conoscevo per motivi familiari, e ho pianificato un percorso per diventare esperta del tema.” Così, Rosa Di Micco ha visitato diversi centri oncologici prestigiosi, da New York a Londra, e ha conseguito un master sulla chirurgia del seno. “Ho mosso i primi passi da ricerca-
trice con un dottorato nella struttura in cui lavoro ancora oggi, l’IRCCS Ospedale San Raffaele, in particolare nel gruppo di Oreste Gentilini” racconta. Il progetto era sulla PET-RM, macchina che consente di effettuare una scansione PET e una risonanza magnetica insieme. Di Micco ha svolto ulteriori ricerche sulle tecniche di imaging preoperatorio fino a meritare un Next Gen Clinician Scientist Grant, nuovo bando AIRC che sostiene progetti quinquennali di ricerca indipendente di giovani medici-ricercatori, con l’obiettivo di ottimizzare la pratica clinica. Di Micco spiega: “Il fluoroestradiolo è un tracciante, una molecola che aiuta a evidenziare alcuni tipi di cancro nelle immagini che si ricavano con la PET. Vogliamo verificare se, con la PET-RM, possa aiutare a valutare meglio lo stadio di alcuni tipi di tumore al seno che oggi non è possibile visualizzare bene con le tecniche di imaging standard, così da poterli trattare in modo personalizzato”.
SVOLGERE RICERCA AL SUD
“Mi sono formata fra Napoli e Torino, con un breve periodo presso l’Università di Nottingham, in Inghilterra, ma mi sono candidata al grant Southern Italy Scholars per poter lavorare a Napoli. Per me è stata un’infusione di fiducia vedermi approvato questo grant” racconta Federica Sodano, che oggi svolge le sue ricerche presso il Dipartimento di farmacia dell’Università degli studi di Napoli Federico II proprio con il supporto di un grant Southern Italy Scholars. Istituito da AIRC negli ultimi anni, supporta scienziati indipendenti che vogliano svolgere ricerca in Italia meridionale e insulare, promuovendo la collaborazione con gruppi di ricerca nel resto d’Italia o all’estero.
Specializzata in chimica e tecnologie farmaceutiche, Sodano si occupa di identificare e sviluppare nuovi farmaci che possano superare la capacità dei tumori di resistere all’immunoterapia. “Sappiamo che l’immunoresistenza di alcuni pazienti potrebbe essere dovuta alla presenza di un enzima, l’arginasi-2. Con il mio lavoro punto a sintetizzare molecole
che inibiscano tale enzima, per poter rendere l’immunoterapia efficace anche per queste persone” spiega. Ma Sodano è legata ad AIRC a doppio filo: spesso fa volontariato in piazza, aiutando a distribuire le Arance della Salute, le Azalee della Ricerca o i Cioccolatini della Ricerca. “Per me è fondamentale che nei banchetti ci sia un ricercatore che ci mette la faccia.”
DIVENTANDO RICERCATORI
SENIOR: IL BRIDGE GRANT
Anche Teresa Manzo si occupa di immunoterapia, ma lavora sulle CAR-T, terapia di cui abbiamo parlato a pagina 11 di questo numero di Fondamentale. Come anticipato, le CAR-T hanno rivoluzionato il trattamento di molti tumori del sangue, ma si sta ancora indagando su come renderle efficaci anche nei tumori solidi. Proprio in questo senso, Manzo è al lavoro per arrivare a capire come far sopravvivere a lungo queste cellule ingegnerizzate nell’organismo. L’obiettivo è indurle a colpire neoplasie che non rispondono alle CAR-T oggi utilizzate, come il cancro del pancreas. “Amo l’ambito dell’immunoterapia e lo studio da sempre – dal dottorato, che ho svolto fra Milano e l’Università di Harvard, negli Stati
SOSTENERE I
GIOVANI
RICERCATORI
Pietro e Franca sono Grandi
Donatori di AIRC. Spinti dal desiderio di sostenere i giovani ricercatori e promuovere l’eccellenza nel nostro Paese, da anni scelgono di destinare le loro generose donazioni ai ricercatori Start-Up: “Il nostro pensiero e il nostro augurio è che possano riuscire nel loro intento, cosa che sarebbe utile alla comunità e pregna di soddisfazione professionale per
Uniti, ai due post-dottorati, il primo allo University College di Londra e il secondo a Houston, fino a oggi.” Dopo il Texas, Manzo è tornata in Italia per fondare un gruppo di ricerca all’Istituto europeo di oncologia, e ora è assistant professor all’Università degli studi di Torino, dove dirige un gruppo di ricerca grazie a un Bridge Grant, nuovo bando AIRC della durata di un anno che permette di completare le ricerche avviate nell’ambito di un My First AIRC Grant o uno Start-Up Grant e mettere le basi per un laboratorio indipendente. “Mi piace contribuire a dare speranza ai pazienti” afferma Manzo, e aggiunge: “I risultati dei nostri studi sono molto promettenti, e stiamo lavorando per traslarli in tempi brevi nella pratica clinica”.
IL RITORNO IN ITALIA GRAZIE A UNO START-UP GRANT
Dopo una laurea in biotecnologie all’Università degli studi di Ferrara e un dottorato in biomedicina molecolare all’Università degli studi di Trieste, Giovanni Sorrentino ha lavorato per 3 anni presso la Scuola politecnica federale di Losanna (EPFL), in Svizzera. È tornato a lavorare in Italia nel 2020 grazie a uno Start-Up
i ricercatori. Per questo occorre che, oltre che alla loro capacità e impegno, non venga a mancare il sostegno da parte di quelle persone ed enti che hanno dimostrato e dimostrano di condividerne la buona riuscita con il loro contributo. Tra questi ci siamo anche noi”.
I giovani ricercatori, come Giovanni Sorrentino, sono i futuri leader della ricerca sul cancro; per questo AIRC si impegna a supportare le loro idee e accompagnarli nel loro percorso.
Se anche tu desideri farlo, puoi destinare una donazione a partire da 5.000 € al Programma Start-Up. Con il tuo contributo
Grant AIRC, un bando assegnato a ricercatori con un’esperienza di ricerca all’estero per consentire loro di avviare un laboratorio indipendente in Italia insieme a due collaboratori. “AIRC ha scommesso su di me finanziando il mio rientro in Italia e supportando la mia ricerca” racconta Sorrentino, che si occupa di cancro al fegato. In particolare, studia alcuni meccanismi con cui questo tumore può svilupparsi a partire da una fibrosi epatica, un accumulo di fibre di collagene causato da un danno epatico cronico che deriva dalla steatoepatite non alcolica, un’evoluzione irreversibile del cosiddetto “fegato grasso”. Come spiega Sorrentino, questi studi potrebbero avere risvolti importanti: “Oggi non è chiaro come avvenga questa evoluzione da fibrosi a tumore. Nel mio gruppo di ricerca stiamo studiando il ruolo di alcuni segnali meccanici che si generano nel fegato in risposta all’eccessiva quantità di fibre di collagene. Conoscerlo potrebbe consentire di sviluppare un farmaco capace di evitare tale progressione, che al momento non esiste”.
sosterrai i giovani ricercatori che desiderano rientrare in Italia dopo un’esperienza all’estero, per avviare qui il loro laboratorio, portando con sé le competenze apprese e le loro idee innovative.
Se lo desideri, potrai inoltre legare la tua donazione al nome di una persona cara.
Per maggiori informazioni su come sostenere i giovani ricercatori del Programma StartUp, contatta Eleonora Bahadour dell’Ufficio Grandi Donatori:
Tel: 02 7797 318
E-mail: eleonora.bahadour@airc.it
Pratica clinica
Resistenza antimicrobica e cancro
LA RESISTENZA AGLI ANTIBIOTICI È UN PROBLEMA ANCHE PER IL CANCRO
In questo articolo: — RESISTENZA ANTIMICROBICA
Questa condizione può avere ripercussioni sia per i pazienti oncologici sia per chi non si è ancora ammalato. Farmaci più mirati sono il primo strumento per affrontarla, ferma restando l’importanza di non assumere antibiotici senza prescrizione
a cura della redazione
La resistenza antimicrobica (AMR) mette a rischio molti progressi della medicina moderna. Quando anche il più potente degli antibiotici non funziona per l’insorgenza della resistenza, per le persone più fragili diventa un grosso problema. Questo fenomeno ha due tipi di impatti sul cancro. Il primo è la difficoltà di curare infezioni resistenti nei malati oncologici, che aumenta sensibilmente i tassi di mortalità in pazienti il cui tumore poteva essere trattato. Il secondo tema riguarda il nesso vero e proprio fra un elevato consumo di antibiotici e lo sviluppo del cancro. Diversa letteratura scientifica ha evidenziato una correlazione fra un uso prolungato di antibiotici e la formazione di tumori, in particolare nel tratto gastro-intestinale.
DIAGNOSI, DIAGNOSI, DIAGNOSI
Chi segue una terapia oncologica è quasi sempre immunodepresso: per queste persone sarebbe cruciale non entrare in contatto con patogeni, ma purtroppo ciò è di fatto molto difficile, soprattutto in ambiente ospedaliero. Una volta che si contrae un’infezione, è poi importante diagnosticarla rapidamente e curarla con l’antibiotico giusto. La regola generale sarebbe prescrivere meno antibiotici ad ampio spettro e più farmaci mirati per evitare l’insorgenza delle resistenze. “L’unica strada per affrontare questo problema emergente è puntare sulla diagnosi precoce per iniziare da subito il trattamento appropriato, che per il paziente oncologico è spesso un salvavita” spiega Daniela Maria Cirillo, capo dell’Unità patogeni batterici emergenti dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano. “Nuovi antibiotici stanno entrando sul mercato, frutto della ricerca in questo campo, in grado di dribblare la resistenza per diversi patogeni. Purtroppo, però, spesso mancano i diagnostici rapidi in grado di guidare i clinici nell’uso corretto di queste molecole.” Il risultato è che questi nuovi farmaci vengono usati in modo talvolta non appropriato, favorendo lo sviluppo di ulteriore resistenza in poco tempo, anche se sono già disponibili dei test molecolari che consentono di avere una diagnosi rapida prima di somministrare un antibiotico ad ampio spettro sono già disponibili. È responsabilità del medico anzitutto eseguire un test prima di suggerire qualsiasi antibiotico, anche il meno specifico.
L’ABUSO DI ANTIBIOTICI E L’INSORGENZA DI TUMORI
La ricerca sul microbiota, che sta procedendo a grande velocità negli ultimi anni, sta aggiungendo tasselli importanti nella comprensione di come si originano certi tumori e sul perché alcune persone rispondono meglio o peggio alle terapie. Una revisione pubblicata su Cell nel 2024 conclude proprio definendo l’esplorazione delle interazioni metaboliche tra il microbiota intestinale dell’ospite e i tumori
È responsabilità del medico anzitutto eseguire un test prima di suggerire qualsiasi antibiotico, anche il meno specifico
gastrointestinali come una frontiera promettente nella battaglia in corso contro queste malattie.
Non vi è ancora un parere unanime all’interno della comunità scientifica, ma sono diversi gli studi ampi e pubblicati su riviste scientifiche quotate che sembrano confermare la correlazione fra l’abuso antibiotici e l’insorgenza di molti tipi di tumori del tratto gastrointestinale e del pancreas. “Questo aspetto potrebbe essere legato all’effetto dell’antibiotico” continua Cirillo “che per quanto mirato non uccide solo i batteri patogeni ma danneggia il microbiota, generando disbiosi, cioè disequilibrio tra i patogeni dannosi e quelli invece importanti per l’organismo.” Al centro di tutto c’è il comprovato legame fra infiammazione e cancro. “Sappiamo che il microbiota ha un ruolo fondamentale nel mantenere un’omeostasi corretta, cioè un’autoregolazione delle cellule, che si traduce in un bilanciamento corretto dei meccanismi di interrelazione tra batteri, cellule epiteliali e infiammazione. Un microbiota danneggiato può quindi essere una causa di infiammazione cronica, condizione che a sua volta aumenta il rischio di sviluppo del cancro.”
LA SOLUZIONE NON È SINTETIZZARE NUOVI
ANTIBIOTICI
Abbiamo poche nuove molecole in via di sviluppo con potenziale di diventare farmaci utili contro le infezioni resistenti agli antibiotici oggi disponibili, e sappiamo già in partenza che solo una minima parte di loro supereranno positivamente tutte le fasi della ricerca e andrà in commercio. La resistenza dei batteri invece evolve molto più velocemente. “Produrre antibiotici è oggi poco reddi-
tizio per le aziende farmaceutiche rispetto a investire su altre classi di farmaci: la ricerca per introdurli sul mercato è onerosa, molti finiscono per essere scartati, e i guadagni finali non sono elevati perché sono farmaci che sul mercato costano relativamente poco o hanno un mercato limitato” spiega Cirillo.
“Non è semplice, perché non tutti i Paesi del mondo prevedono la medesima regolamentazione nell’uso di antibiotici e anche perché non è facile capire, nello sviluppo di resistenza, quanto pesi la dieta, quanto l’aver fatto un uso eccessivo di antibiotici, quanto l’esposizione ambientale. A livello mondiale esistono aziende produttrici di antibiotici che dislocano le fabbriche per la produzione in Paesi dove non vi sono criteri di controllo sull’emissione delle scorie, e quindi parte di queste molecole ancora hanno la possibilità di entrare nella catena alimentare” continua Cirillo.
Lo stesso vale per la carne e i prodotti che importiamo dagli allevamenti intensivi. In veterinaria in Italia l’uso di antibiotici è regolamentato in modo ferreo, il che significa che l’animale viene macellato dopo che l’antibiotico è stato smaltito. “Resta il fatto che esistono molecole molto simili agli antibiotici che però non sono classificate come tali, ma come integratori, il cui uso non è dunque regolamentato neanche a livello della comunità europea” aggiunge Cirillo, che poi conclude con una raccomandazione: “La terapia antibiotica deve essere utilizzata solo quando prescritta dal medico e seguendone strettamente le indicazioni - dosaggio, intervalli di somministrazione e durata”.
Vite per la ricerca
Stewart F. Alexander
L'INVENZIONE DELLA CHEMIOTERAPIA
In questo articolo:
— CHEMIOTERAPIA
— SCOPERTE SERENDIPICHE
— IPRITE
Un trattamento che ancora oggi è considerato in molti casi determinante per la cura dei tumori fu messo a punto grazie a un’intuizione del medico Stewart F. Alexander, in seguito a un terribile evento bellico nel porto di Bari
a cura di Massimo Temporelli
La chemioterapia è un pilastro fondamentale nella lotta contro il cancro e la sua invenzione ha una storia davvero sorprendente, piena di scoperte e intuizioni brillanti, che affonda le sue radici negli anni della Seconda guerra mondiale.
Prima di raccontarla, facciamo un passo indietro per riassumere cosa si intende di preciso con chemioterapia. Questo trattamento utilizza farmaci specifici per combattere le cellule tumorali presenti nel corpo. I farmaci sono noti come agenti chemioterapici e agiscono interferendo con il processo di divisione e crescita delle cellule, danneggiando il loro DNA o impedendo loro di completare il processo di replicazione. L’obiettivo è distruggere le cellule cancerose o impedirne la proliferazione, riducendo così la massa tumorale e prevenendo la diffusio-
ne del cancro ad altre parti del corpo.
Tuttavia, poiché la chemioterapia agisce su tutte le cellule in rapida divisione, può anche influenzare le cellule sane, come quelle del midollo osseo, dei follicoli piliferi e del tratto digestivo. Questo può portare a effetti collaterali come anemia, perdita di capelli e disturbi gastrointestinali.
su quelle sane. È importante ricordare comunque che la chemioterapia è solo uno dei pilastri della cura contro il cancro. Infatti, spesso viene utilizzata in combinazione con altri trattamenti, come la chirurgia e la radioterapia, per aumentare le possibilità di successo terapeutico.
La storia di questo protocollo cui accennavamo all’inizio cominciò quando un incidente con armi chimiche, in realtà bandite dagli accordi di Ginevra del 1925, portò alcuni medici a notare che i soldati esposti a queste sostanze presentavano una drastica riduzione dei globuli bianchi nel sangue. Questa tragica osservazione piantò il seme per future e benefiche ricerche mediche.
Era il 2 dicembre 1943, nel pieno del conflitto mondiale. Il porto di Bari fu colpito da un violento attacco aereo tedesco. Tra le navi affondate c’era la statunitense John Harvey, che trasportava segretamente 2.000 bombe contenenti iprite, nota come “gas mostarda” per il suo intenso odore di senape.
Dopo l'affondamento, l’iprite liquida si mescolò al carburante fuoriuscito, creando una chiazza tossica nell’acqua del porto pugliese. I marinai, cercando di salvarsi, si gettarono in mare, entrando inconsapevolmente in contatto con la miscela letale. In poche ore, si manifestarono terribili sintomi: vesciche, cecità e, per mol-
Grazie a Stewart F. Alexander, la tragica esperienza di Bari si è trasformata in un progresso medico fondamentale
I protocolli chemioterapici sono attentamente studiati per massimizzare l’efficacia contro le cellule tumorali riducendo al minimo l’impatto
ti, la morte. Dei 600 marinai esposti, circa un centinaio non sopravvisse. Il panico si diffuse, alimentato dall’ignoranza su cosa stesse accadendo.
Infatti, il carico di iprite era segreto anche per gli Alleati, poiché come detto l’uso di armi chimiche era vietato dal Protocollo di Ginevra del 1925. Nessuno doveva sapere cosa era successo a Bari.
Fu in questo caos che entrò in scena il dottor Stewart F. Alexander, medico militare statunitense esperto di armi chimiche. Chiamato urgentemente nel capoluogo pugliese, iniziò a studiare gli strani sintomi dei marinai e collegò subito le lesioni all’iprite, nonostante le autorità fossero riluttanti ad ammettere l’uso della sostanza proibita.
Alexander scoprì che l’iprite aveva distrutto i globuli bianchi dei marinai, compromettendo il loro sistema immunitario. Questa intuizione fu cruciale: se il gas mostarda poteva sopprimere i globuli bianchi, forse poteva essere utilizzato per trattare malattie caratterizzate da una proliferazione anomala di queste cellule, come i linfomi.
Nonostante il segreto militare, Alexander riuscì a far pervenire queste informazioni alla comunità scientifica. Le sue osservazioni ispirarono in particolare i ricercatori Alfred Gilman e Louis Goodman, negli Stati Uniti, che iniziarono a sperimentare dei derivati dell’iprite come agenti antitumorali. Nel 1946 pubblicarono i primi risultati positivi sull’uso delle mostarde azotate nel trattamento dei linfomi, segnando così l’inizio della chemioterapia moderna.
Oggi sono tantissime le cure basate su questo tipo di approccio e spesso questi trattamenti risultano cruciali per salvare vite umane.
Insomma, non tutti i mali vengono per nuocere: grazie alla competenza e alla determinazione di Stewart F. Alexander, seguiti poi da un impegno costante e competente della comunità scientifica, la tragica esperienza di Bari si è trasformata in un progresso medico fondamentale. E grazie a questo abbiamo un’importante arma in più per combattere i tumori. Viva la scienza!
Alimentazione
Bevande vegetali
LE BEVANDE VEGETALI POSSONO SOSTITUIRE IL LATTE?
a cura di Riccardo Di Deo
Bevande di soia, mandorla, avena, riso e cocco hanno caratteristiche nutrizionali diverse tra loro e anche rispetto al latte. Esiste davvero una scelta migliore tra questi prodotti?
L’essere umano è l’unica specie che continua a bere latte dopo lo svezzamento e negli ultimi anni è cresciuto il dibattito sulla reale necessità di farlo. Chi è contrario al consumo di latte spesso adduce questioni di salute e motivazioni etiche, o aderisce a tendenze alimentari dettate dalle mode del momento. In questo contesto, si sono diffuse le bevande vegetali, proposte come alternative al latte vaccino. Ma possono davvero sostituirlo? È bene chiarire che non ci sono ragioni di salute per non bere il latte, se non per chi è intollerante al lattosio o allergico alle proteine del latte. Per quanto riguarda i rischi correlati allo sviluppo di tumori, infatti, l’analisi della letteratura scientifica non ha evidenziato a oggi una correlazione tra sviluppo di cancro e consumo di latte e latticini. Anzi, questi prodotti sembrano avere un effetto protettivo contro alcuni tumori, come quello
del colon-retto. Per questo motivo le linee guida italiane per una sana alimentazione raccomandano il consumo di 3 porzioni giornaliere di latte o yogurt (una porzione corrisponde a 125 millilitri di latte o 125 grammi di yogurt).
Ma qual è la definizione di latte? Si tratta di un prodotto ottenuto dalla mungitura regolare, ininterrotta e completa di animali in buono stato di salute e nutrizione. Se non diversamente specificato, quando si parla di latte si intende quello vaccino, ma in commercio esistono anche varianti di pecora, di capra o di asina. Le bevande vegetali si ottengono, invece, dalla lavorazione di cereali, legumi, frutta o frutta a guscio, a cui viene aggiunta acqua. Per evitare confusione, la normativa europea impone che queste bevande vengano etichettate con la dicitura “bevanda vegetale”, specificando la materia prima da cui derivano.
Dal punto di vista nutrizionale, il latte intero ha un contenuto calorico generalmente superiore rispetto alle bevande vegetali, a meno che queste ultime non contengano zuccheri aggiunti. Il latte vaccino, inoltre, è una fonte importante di proteine ad alto valore biologico. Contiene infatti tutti gli aminoacidi essenziali per l’organismo, ed è una delle principali fonti di calcio nella dieta, un minerale fondamentale per la salute delle ossa.
Chi preferisce le bevande vegetali potrebbe farlo per diverse ragioni: intolleranze o allergie, come specificato sopra, ma anche preferenze di gusto o considerazioni di natura etica o ambientale. Tra le varie bevande vegetali, quella a base di soia si avvicina di più al latte per quanto riguarda il contenuto proteico, con circa 3 grammi di proteine per 100 millilitri. Un altro aspetto che distingue il latte dalle bevande vegetali è il contenuto di zuccheri: il principale zucchero presente nel latte vaccino è il lattosio, mentre le bevande vegetali non lo contengono, rendendole quindi adatte per chi soffre di intolleranza a questo zucchero. Tra le bevande vegetali, quelle a base di mandorle e soia contengono pochissimi zuccheri
Le bevande vegetali possono far parte di una dieta sana ed equilibrata, tenendo conto delle loro specifiche caratteristiche nutrizionali
semplici, mentre le bevande a base di cereali, come riso o avena, ne contengono di più, pur rimanendo a livelli accettabili. Il consiglio è di preferire sempre bevande vegetali senza zuccheri aggiunti.
Per quanto riguarda i grassi, le bevande vegetali ne contengono in generale una quantità inferiore, soprattutto per quanto riguarda i grassi saturi, rendendole una scelta interessante per chi desidera ridurre l’apporto di questi nutrienti nella dieta.
Dal punto di vista dei micronutrienti, molte bevande vegetali vengono addizionate con vitamine e minerali per compensare le carenze rispetto al latte vaccino. Per esempio, il calcio può essere aggiunto alle bevande vegetali, oppure essere presente naturalmente in quantità superiori, come accade
LA LASAGNA VEGETARIANA
Ingredienti per 4 persone:
• 250 g lasagne fresche all’uovo
• 250 g passata di pomodoro
• 2 carote
• 2 zucchine
• 1 peperoncino
• 1 cipolla
• 1 costa di sedano
• 3 mozzarelle
• 30 g formaggio grattugiato
• 45 g olio extravergine d'oliva
• 40 g farina
• 500 ml di bevanda vegetale a scelta
• Pepe a piacere
• Paprika a piacere
Preparazione
nelle bevande a base di mandorle. Inoltre, la bevanda di mandorle è particolarmente ricca di vitamina E, che è quasi assente nel latte vaccino, per cui con un solo bicchiere si può assumere metà del fabbisogno giornaliero di un adulto.
Alla luce delle tante differenze, non esiste una scelta migliore tra latte vaccino e bevande vegetali. Benché latte e latticini rappresentino fonti di sostanze preziose per il buon funzionamento dell’organismo, le bevande vegetali possono far parte di una dieta sana ed equilibrata e l’invito principale per inserirle nella propria alimentazione è di tener conto delle loro specifiche caratteristiche nutrizionali, avendo cura di leggere le etichette, dove tutte queste informazioni sono sempre riportate.
Tritate cipolla e sedano e soffriggeteli in padella con olio e peperoncino. Aggiungete le carote e le zucchine a cubetti, insaporite con pepe, paprika e sale e cuocete per 10-12 minuti. Preriscaldate il forno a 180 °C e tagliate le mozzarelle a cubetti, lasciandole scolare.
Preparate la besciamella scaldando 40 g di olio, aggiungete la farina e mescolate evitando la formazione di grumi. Versate gradualmente la bevanda vegetale, mescolando fino a ottenere la consistenza desiderata, quindi aggiustate di sale e noce moscata.
Componete la lasagna alternando strati di passata e besciamella, sfoglia, verdure, mozzarella e altro pomodoro e besciamella. Sull’ultimo strato spolverizzate con il formaggio grattugiato. Coprite con alluminio e infornate per 20 minuti; poi rimuovete l’alluminio e cuocete altri 5 minuti in modalità grill. Lasciate riposare prima di servire.
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Raccolta fondi
Collaborazioni
PIANTA UN ALBERO, COLTIVA LA RICERCA
TREEDOM X AIRC
Immagina di poter fare del bene due volte, con un solo gesto. Da giugno 2024, grazie alla partnership tra Fondazione AIRC e Treedom, puoi dare il tuo contributo sia alla ricerca che al nostro pianeta attraverso "Pianta un albero, coltiva la ricerca". Con questa speciale iniziativa, ogni albero piantato racconta una storia di speranza: Treedom, pioniera come prima B Corp italiana, ti permette di piantare il tuo albero, personalizzarlo con un nome e ricevere una sua foto e le sue coordinate GPS.
Fino al 31 dicembre 2024, potrai piantare il tuo albero direttamente su Treedom. net. Il 50 per cento di ogni acquisto andrà a sostenere un giovane talento della ricerca: nel 2025, infatti, questi fondi permetteranno a un ricercatore o una ricercatrice under 40 di realizzare il proprio primo progetto indipendente attraverso il bando My First AIRC Grant (MFAG). Puoi scegliere tra tre Alberi della Ricerca, ognuno con il suo significato speciale:
1. Il Cacao, dolce custode di speranza e promesse per il domani;
2. Il Mango, prezioso ambasciatore del legame tra nutrizione e benessere, ricco di vitamine;
3. La Quercia, maestosa sentinella dei paesaggi italiani, simbolo di vita lunga e prospera.
Che sia per te o per qualcuno a cui vuoi bene – basta un messaggio per regalarlo a Natale – piantare un albero è molto più di un semplice gesto: è una promessa di futuro, un seme di speranza che crescerà nel tempo.
DOLOMIA E SOLE 365, DUE AZIENDE VIRTUOSE A SOSTEGNO DELLA RICERCA
Le aziende che scelgono di sostenere una borsa di studio AIRC, nel rispetto dei propri obiettivi di sostenibilità sociale, contribuiscono non solo al grande traguardo di rendere il cancro sempre più curabile, ma anche al potenziamento economico, sociale e culturale del territorio. Perché investire nella ricerca significa generare un forte impatto in termini di sviluppo locale. Due esempi di imprese virtuose sono Dolomia e Sole 365, che hanno scelto
di sostenere i ricercatori AIRC in occasione dei Giorni della Ricerca.
Dolomia affianca AIRC in un percorso di partnership dedicato alla salute e al benessere delle donne. L’azienda ha scelto di sostenere una borsa di studio biennale sui tumori femminili e sensibilizzerà i propri clienti sull’importanza della ricerca e della prevenzione con una campagna nelle farmacie del network.
Brand leader nel mercato campano della Grande distribuzione organizzata, Sole 365 ha scelto di schierarsi al fianco di AIRC per sensibilizzare i propri clienti sull’importanza di una corretta alimentazione, un alleato fondamentale in tutte le fasi della vita, dalla prima infanzia alla terza età. Con
l’obiettivo di rendere ancora più concreto il proprio impegno su questo tema, Sole 365 ha deciso di finanziare una borsa di studio sui tumori del tratto gastrointestinale, destinata a un giovane ricercatore.
Raccolta fondi
Nastro
Rosa
NASTRO ROSA AIRC: UN SUCCESSO DI SOLIDARIETÀ E RICERCA
a cura della redazione
Il nastro rosa è universalmente riconosciuto come simbolo della prevenzione e della ricerca contro il tumore al seno. Quello di AIRC però ha una caratteristica particolare: è incompleto, a sottolineare che l’obiettivo di trovare una cura per tutte le donne non è ancora stato raggiunto. Nonostante i progressi, rimane molto da fare, e proprio per questo AIRC continua a raccogliere fondi con la campagna Nastro Rosa nel mese di ottobre, per garantire il sostegno continuo alla ricerca sul tumore più diffuso fra le donne. La campagna è stata inaugurata il primo ottobre, quando centinaia di edifici pubblici e monumenti in tutta Italia sono stati illuminati di rosa, grazie alla collaborazione con ANCI (Associazione nazionale comuni italiani). Questo gesto simbolico ha avuto l’obiettivo di richiamare l’attenzione dei cittadini sull’importanza della ricerca oncologica e della prevenzione. Inoltre, per mostrare vicinanza alle pazienti e sostenere il lavoro dei ricercatori, in più di 4.500 farmacie e punti
di distribuzione in tutta Italia sono state distribuite circa 245.000 spille con il nastro rosa di AIRC, a fronte di una donazione minima di 2 euro. Hanno contribuito al successo del Nastro Rosa anche i partner di campagna: aziende nazionali e internazionali che, con impegno e passione, collaborano alla raccolta fondi per finanziare la migliore ricerca in Italia. Oltre a sostenere i ricercatori, queste aziende aiutano AIRC ad amplificare i messaggi di prevenzione, anche attraverso prodotti speciali in rosa dedicati alla campagna. Anche La7 ha rinnovato il suo impegno come media partner, con giornaliste e giornalisti, conduttrici e conduttori che, dal 19 al 27 ottobre, hanno indossato il nastro rosa e invitato il pubblico a donare per contribuire alla ricerca sul tumore al seno. Grazie all’unione di forze tra ricercatori, pazienti, aziende, donatori e testimonial, la campagna Nastro Rosa AIRC continua a sostenere la ricerca di cure sempre più efficaci per tutte le donne colpite da questa malattia.