Numero 5 - dicembre 2019
Numero 5 - dicembre 2019 - Anno XLVII - AIRC Editore - Poste Italiane spa Sped. in Abb. Postale D. L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) Art. 1 comma 1 LO/MI - ISSN 2035-4479
CONGRESSI
Clinica e ricerca sempre più appaiate nei grandi congressi di oncologia EPIDEMIOLOGIA
Il cancro è la prima causa di morte per malattia secondo l’OMS TUMORI PEDIATRICI
L’immaginazione è necessaria per trovare soluzioni efficaci
Gianni Cazzaniga, un segugio dell’ematologia
IN LABORATORIO PER I PIÙ PICCOLI
SOMMARIO
FONDAMENTALE dicembre 2019
In questo numero:
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DA RICERCATORE 04 UnVITAgenetista a caccia delle origini della leucemia 07 IRUBRICHE traguardi dei nostri ricercatori PREVENZIONE 08 Trent’anni dopo è tempo di controlli PREMIO NOBEL 10 Tutti i meccanismi che controllano l’ossigeno PREMI LASKER 12 Passi da gigante nella ricerca e nelle cure 08 FLASH 14 DalNOTIZIE mondo ESMO 2019 16 L’oncologia clinica a braccetto con la ricerca traslazionale MEMORIA 18 UnINpioniere della ricerca oncologica italiana TUMORI PEDIATRICI 19 èContro i tumori infantili, l’arma vincente la creatività SPERIMENTAZIONE ANIMALE 22 delDescritta per la prima volta l’azione 10 virus dell’epatite B IFOM 24 Designer speciali per l’oncologia di precisione 26 IEPIDEMIOLOGIA numeri del cancro nel mondo stanno cambiando RACCOLTA FONDI 28 AIRC tinge l’Italia di rosa IL MICROSCOPIO Il Nobel a chi ha sco30 L’immunoterapia del cancro tra scienza e legge perto il ruolo dell’os-
Nanovettori per migliorare la disponibilità dei farmaci nell’organismo
Dagli USA il più grande studio sugli effetti a lungo termine delle cure nei pazienti pediatrici
22
Epatite B e sistema immunitario: uno studio sui topi
sigeno nelle cellule
FONDAMENTALE
Anno XLVII - Numero 5 Dicembre 2019 - AIRC Editore DIREZIONE E REDAZIONE Fondazione AIRC Viale Isonzo, 25 - 20135 Milano tel. 02 7797.1 - airc.it - redazione@airc.it Codice fiscale 80051890152 Autorizzazione del Tribunale di Milano n° 128 del 22 marzo 1973. Stampa Rotolito S.p.A. DIRETTORE RESPONSABILE Niccolò Contucci
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EDITORIALE
Pier Giuseppe Torrani
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SEI UN’AZIENDA?
Presidente AIRC
La comunità di AIRC unita contro i tumori pediatrici
È
di nuovo Natale; la nascita del Bambino, la comunità dei pastori che lo circonda con i propri doni, rappresentati nel presepe, grande invenzione e intuizione di San Francesco. Natale è la grande gioia per la nascita del Bambino, cui partecipa la comunità che lo circonda. La rappresentazione scenica esalta la gioia per la nuova Creatura Divina e la comunità che La riceve. Nella mia infanzia il Natale è sempre stato un rito comunitario: tutta la famiglia si riuniva attorno ai nonni, ai figli e alle figlie dei nonni, ai nipoti dei nonni. La celebrazione era molto sentita al di là dei regali; la famiglia intera, la comunità base, festeggiava la venuta del Bambino. Per questo AIRC ha identificato il Natale come il momento per ricordare i tumori infantili. Di fronte al morbo è la famiglia, la comunità nella sua interezza che soffre perché si vede colpita nel suo futuro e che deve reagire. La ricerca oncologica si è molto impegnata in tutti questi anni: ormai la sopravvivenza a cinque anni dalla diagnosi è arrivata all’82 per cento per i ragazzi con meno di 14 anni e per molti tumori infantili si è trovata la cura. La speranza è che ciò possa avvenire presto per qualsiasi tipo di tumore, per ridarci la gioia della nascita e dell’accoglienza nella comunità dei suoi nuovi componenti. AIRC naturalmente sta dando il suo contributo. Solo nel 2019 sono stati destinati a questo ambito più di 6 milioni di euro per finanziare 68 diversi progetti di ricerca. Natale significa quindi anche l’impegno della comunità di AIRC, dei nostri sostenitori, dei nostri volontari e dei nostri scienziati, tutti uniti per ricordare, oltre alla festività, la gioia della vita, delle nuove vite, e per contrastare il morbo.
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Fondamentale per i tumori pediatrici
Alcuni articoli di questo numero di Fondamentale sono dedicati ai tumori pediatrici e sono riconoscibili grazie al simbolo dell’aquilone.
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VITA DA RICERCATORE Gianni Cazzaniga
Un genetista a caccia delle origini della leucemia Con i suoi studi e l’assiduo contatto con l’ematologia pediatrica, Gianni Cazzaniga spera di aiutare i medici a identificare precocemente i bambini a rischio e a individuare in modo efficace la terapia più adatta
“
UNA MALATTIA MULTIFATTORIALE
A
cavallo tra il 2009 e il 2010, a Milano furono registrati sette casi di leucemia linfoblastica acuta, di cui quattro nello stesso quartiere e tre nella stessa scuola elementare. Era all’incirca il numero di casi che di solito nel capoluogo lombardo si registra in un anno, su un totale di circa 400 nuovi casi in tutta Italia. La scuola lanciò l’allarme, venne mobilitata la ASL e la Procura aprì un’inchiesta: tutto faceva pensare che all’origine
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di questo anomalo picco di leucemia infantile ci potesse essere un qualche fattore ambientale. Cazzaniga prese parte all’indagine epidemiologica, che presto si concentrò sull’ipotesi che il fattore scatenante nei bambini predisposti – quelli che già alla nascita mostravano le anomalie osservabili nel sangue neonatale, condizione necessaria ma non sufficiente per lo sviluppo della leucemia – fosse un’infezione virale, a sua volta causa di infiammazione.
”
In particolare, i ricercatori osservarono che alcuni dei bambini colpiti erano primogeniti che non avevano frequentato né l’asilo né la scuola materna, il cui organismo era quindi in un certo senso meno “allenato” della media nel tenere a bada le banali infezioni infantili. L’ipotesi che la seconda “offesa” alle cellule fosse legata al contatto con il virus della “nuova” influenza H1N1 fu confermata dal fatto che tutti i malati presentavano gli anticorpi specifici.
In questo articolo:
ematologia pediatrica leucemia genetica
’ E
a cura di FABIO TURONE una carriera scientifica nel segno della curiosità e della perseveranza quella di Gianni Cazzaniga. Per seguirla si è ritrovato prima nel seminterrato di un ospedale a frugare in vecchi scatoloni, poi a convincere il personale della sicurezza aeroportuale come l’ingombrante bidone di metallo, che doveva imbarcare su un aereo per Londra, non potesse essere esposto ai controlli a raggi X, quindi a indagare le cause di un inspiegabile eccesso di leucemie in una scuola di Milano. Infine, più di recente, la stessa curiosità lo ha spinto ad affrontare il periplo della Valle d’Aosta su e giù per sentieri alpini, in una massacrante maratona di 340 chilometri. Biologo di formazione, Cazzaniga oggi insegna genetica medica alla Facoltà di medicina dell’Università di Milano-Bicocca e dirige a Monza un laboratorio di ematologia all’avanguardia, assicurando l’esecuzione di sofisticati test diagnostici ai reparti di ematologia pediatrica di tutta Italia e svolgendo, con la collaborazione del suo gruppo di ricerca, studi di punta sulla leucemia linfoblastica acuta.
Un legame coi pazienti Ogni mattina, per arrivare all’ascensore che lo porta al suo ufficio, attraversa un colorato salone in cui attendono di essere visitati i giovani e giovanissimi pazienti del day hospital e dell’ambulatorio di emato-oncologia pediatrica e trapianto di midollo osseo del Centro Maria Letizia Verga, gestiti dalla Fondazione Monza e Brianza per il bambino e la sua mamma. Ogni giorno rinsalda con loro un legame naturale conseguenza del desiderio che nel 1994 lo aveva spinto a lasciare, dopo cinque anni, l’Istituto Mario Negri di Milano. In quel prestigioso centro di ricerca si era formato come ricercatore portando avanti ricerche di base, non meno importanti, ma un po’ più lontane dall’applicazione clinica. Volendo puntare a un obiettivo più strettamente legato alla cura delle malattie, riuscì a trasferirsi a Monza nel momento in cui nasceva il nuovo laboratorio della Fondazione Tettamanti, che fin dagli esordi sarebbe stato orientato a tenere conto in primo luogo delle necessità cliniche dei giovani malati. Non a caso, un’ampia ramificazione di tubi della posta pneumatica lo collega agli ambulatori e all’ospedale al di là della strada, per lo smistamento immediato dei campioni da esaminare. Inizialmente Cazzaniga era stato coinvolto nelle ricerche avviate dal primario della Clinica Pediatrica dell’Università di Milano-Bicocca a Monza, Andrea Biondi (vedi Fondamentale dicembre 2017), sulla cosiddetta “malattia residua minima”, che mira a riconoscere precocemente i bambini più o meno sensibili a ciascuna delle diverse opzioni terapeutiche, per scegliere la migliore. Fu poi una curiosità clinica a fargli scendere i gradini del seminterrato della Clinica Mangiagalli di Milano, per frugare con metodo dentro gli
La biologia al servizio dei piccoli pazienti
“Questo non vuole assolutamente dire che l’influenza H1N1 è responsabile della leucemia” mette in guardia Cazzaniga, che ha ricostruito in dettaglio quella vicenda sulla rivista Leukemia. “La leucemia è una malattia la cui insorgenza è sicuramente multifattoriale, e la nostra ipotesi è che in quel caso il virus influenzale abbia scatenato una reazione immunologica e infiammatoria particolarmente forte, anche perché il sistema immunitario dei bambini era stato tenuto fino a poco prima in un ambiente molto protetto.”
scatoloni lì conservati, provenienti da tutti gli ospedali della Lombardia: voleva capire se era possibile osservare già nel sangue neonatale un segno precoce della leucemia, con qualche anno di anticipo sulla manifestazione dei sintomi che portano alla diagnosi.
Le origini della leucemia
“Avevamo ipotizzato che la goccia di sangue raccolta di routine subito dopo la nascita, pungendo il tallone del neonato, e che viene utilizzata per la diagnosi precoce di eventuali malattie congenite, potesse fornire utili informazioni, e così andai a cercare i campioni di sei piccoli pazienti ai quali era stata appena diagnosticata la leucemia” racconta Cazzaniga. “I reperti – foglietti di carta assorbente che inglobano la goccia di sangue – erano conservati con cura ma erano suddivisi per ospedale e per anno, e ci volle un bel po’ per individuarli tutti.” La fatica fu però ripagata, perché l’ipotesi di partenza si rivelò fondata: “Fummo i primi a scoprire che sono presenti nel sangue alcune anomalie associate alla leucemia già al momento della nascita. Quindi la malattia in qualche modo sembra ini- Gianni ziare già prima” spiega. Cazzaniga Il ricercatore precisa pe- ama le pasrò subito che il risultato, seggiate in molto importante sul piano montagna scientifico, non è purtrope correre po di grande aiuto su quello nel parco clinico. “Si tratta di anomalie presenti in una quota im- di Monza portante di neonati, circa il 5 per cento del totale, e che solo in un caso su cento circa portano effettivamente alla leucemia.” Già nell’articolo che descrive i risultati della ricerca, pubblicato nel 1999 sulla rivista Lancet, veniva chiarito che ci vuole almeno un altro fattore scatenante perché compaia la malattia. DICEMBRE 2019 | FONDAMENTALE | 5
VITA DA RICERCATORE Gianni Cazzaniga
Sulle tracce della pre-leucemia
Gianni Cazzaniga insieme al suo gruppo di ricerca
Una donazione di sangue cordonale Pochi anni dopo questo primo studio, i familiari di un bimbo arrivato a Monza dopo la diagnosi di leucemia gli raccontarono di aver conservato il sangue del cordone ombelicale, congelato all’estero con la prospettiva che potesse essere utile al figlio in una situazione tragica come la malattia che lo aveva colpito. Il sangue cordonale non fu purtroppo di alcuna utilità clinica (non è mai sufficiente per le terapie, tantomeno per un autotrapianto), ma venne donato per la ricerca, e permise di approfondire, nelle cellule del sangue ombelicale integre, la conoscenza acquisita osservando il DNA nei campioni conservati su carta. Poiché i colleghi londinesi avevano una strumentazione più sofisticata di quella disponibile a Monza, Caz6 | FONDAMENTALE | DICEMBRE 2019
zaniga unì l’utile al dilettevole prendendo il volo per la capitale britannica con la moglie, la terza figlia piccola e uno strano bidoncino a rotelle: “Erano altri tempi, con controlli di sicurezza meno ossessivi, e per fortuna sono riuscito a imbarcarmi in aereo senza esporre il cordone ombelicale congelato ai raggi X” racconta. “Poi ho dovuto portare questo pesantissimo fardello su e giù per le infinite scalinate della tube, la metropolitana di Londra, prima di arrivare a destinazione e affidarlo ai colleghi dell’Institute of Cancer Research, diretti da Mel Greaves.” Grazie al cordone di quel bimbo, che è guarito e da allora ha partecipato anche lui a diffondere la consapevolezza dell’importanza della ricerca, il gruppo ha cominciato a sviscerare le caratteristiche delle cellule pre-leucemiche.
Quasi tutte le ricerche finora condotte sulla leucemia si concentrano sulla fase successiva alla diagnosi, ma è la comprensione di quello che succede prima ad affascinare Cazzaniga, che da oltre un anno ha avviato un progetto quinquennale finanziato da AIRC: “Sono partito dalla malattia per andare a esplorare le sue origini” racconta. Il suo gruppo sta raccogliendo questionari tra le famiglie dei malati e mettendo a punto numerosi modelli in vitro e in vivo per capire attraverso quali meccanismi la cellula pre-leucemica si modifica dando origine alla malattia. Persino fuori dal laboratorio, il pensiero di Cazzaniga resta legato alla ricerca, anche quando non c’è lo squillo del cellulare a segnalare che è scattato uno dei tipici allarmi per la variazione di temperatura in un frigorifero del laboratorio. È un pensiero che lo accompagna durante le prove di resistenza in alta montagna e mentre coltiva la sua passione per la corsa – che lo porta alle volte a percorrere i 20 chilometri tra casa e laboratorio attraverso il Parco di Monza e la ciclabile del Lambro –, e naturalmente lo spinge all’impegno per la raccolta di fondi e per iniziative di informazione alle famiglie e ai cittadini. Il genetista monzese si prodiga anche per far sapere quanto gravi possono essere le conseguenze della disinformazione in tema di vaccini, che in anni recenti ha portato molti a non proteggere i propri figli e, di riflesso, a esporre a gravi pericoli i piccoli malati che il vaccino non lo possono fare. “È capitato purtroppo anche da noi” ricorda con lo sguardo velato. “Uno dei bambini che incrociavo alla mattina, e che era guarito dalla leucemia, è stato stroncato dal morbillo.”
La biologia al servizio dei piccoli pazienti
I TRAGUARDI DEI NOSTRI
ERAP-1, un nuovo possibile bersaglio
Nuova formulazione per la fenretinide
L’équipe di Lucia Di Marcotullio, del Dipartimento di medicina molecolare della Sapienza, in collaborazione con il gruppo di Doriana Fruci all’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, ha recentemente chiarito i dettagli molecolari di una via di segnale intracellulare nota come Hedgehog, coinvolta in varie forme di cancro. Il gruppo ha pubblicato i suoi risultati sulla rivista Nature Communications, e ha scoperto che il gene ERAP-1, un regolatore della via il cui ruolo era già stato descritto in ambito immunitario, è un oncogene. Ciò significa che, inibendo il gene ERAP-1 (o la proteina da esso prodotta), si blocca la proliferazione delle cellule tumorali e si potenzia il sistema immunitario. I ricercatori hanno lavorato con cellule e topi di laboratorio e ora stanno cercando di identificare un inibitore di ERAP-1 che possa essere testato in clinica.
La fenretinide è un composto che in laboratorio aveva mostrato un promettente effetto antitumorale e scarsa tossicità, ma, passato alle sperimentazioni cliniche, non aveva soddisfatto le aspettative. Il gruppo di ricerca di Ann Zeuner, del Dipartimento di oncologia e medicina molecolare dell’ISS, in collaborazione con la chimica Isabella Orienti dell’Università di Bologna, sembra essere riuscito nell’intento di rendere il composto biodisponibile (cioè utilizzabile dall’organismo) tramite un processo di nanoincapsulazione, come scrivono i ricercatori in un articolo pubblicato sulla rivista Cell Death and Disease. La nanofenretinide è risultata molto efficace su vari tipi di tumori negli studi in vitro e nei modelli animali. I ricercatori sono riusciti anche a chiarire il meccanismo d’azione: sembra infatti che la molecola sia in grado di distruggere le cellule tumorali e al contempo di mantenere quiescenti quelle eventualmente sopravvissute. Ciò renderebbe di fatto il farmaco adatto per il trattamento dei tumori ad alto rischio di recidiva.
Una proteina fa girare il tumore Il carcinoma duttale in situ ha origine nel dotto mammario, dove in genere rimane confinato, ma nel 30 per cento dei casi può sviluppare una speciale fluidità che facilita la formazione di metastasi. A chiarire i meccanismi alla base di questa trasformazione è uno studio condotto dal gruppo di ricerca di Giorgio Scita presso l’IFOM di Milano, in collaborazione con quello di Roberto Cerbino, professore di fisica all’Università di Milano, pubblicato su Nature Materials. Tutto sembra dipendere da una proteina chiamata RAB5A. Quando è presente in elevati livelli, le cellule tumorali iniziano a ruotare in modo prolungato. Questo movimento genera delle vie di fuga che permettono alle cellule stesse di invadere il tessuto circostante. L’obiettivo è utilizzare le alterazioni indotte da RAB5A come marcatori per identificare le donne a maggior rischio di progressione.
... continua su: airc.it/traguardi-dei-ricercatori DICEMBRE 2019 | FONDAMENTALE | 7
PREVENZIONE Childhood Cancer Survivor Study
Trent’anni dopo è tempo di controlli
Parla il coordinatore del più grande studio epidemiologico sulle persone guarite dal cancro in età pediatrica: bisogna mettere a punto protocolli per la sorveglianza nel tempo
S
a cura di DANIELA OVADIA ono guariti da un tumore pediatrico, magari da 20, 30 o più anni, ma invecchiando alcuni sviluppano altre malattie (e talvolta altri tumori) legate alle terapie che li hanno guariti e allungato loro la vita. Questo ci dicono gli studi sui cosiddetti sopravvissuti, i pazienti a cui la medicina ha regalato una vita adulta, non senza qualche impatto sulla salute in generale. “Se oggi ci interroghiamo su come studiare e valutare gli effetti a lungo termine del-
le terapie anticancro è perché siamo riusciti a renderle efficaci” spiega Gregory Armstrong, epidemiologo del centro Epidemiology and Cancer Control del St. Jude Children’s Research Hospital di Memphis (negli Stati Uniti), coordinatore del Childhood Cancer Survivor Study (CCSS), uno degli studi più articolati sugli ex piccoli pazienti. “Il nostro studio, partito nel 1994, è un modello unico per la ricerca sugli effetti a lungo termine delle cure. Stiamo cercando di capire come dobbiamo analizzare le malattie dei sopravvissuti e quali
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aiuti e controlli dobbiamo offrire per minimizzare l’impatto potenzialmente negativo delle terapie che hanno contribuito a salvare loro la vita.” ESAMI SÌ, MA SE SERVONO C’è voluto tempo perché gli oncologi si rendessero dav-
vero conto della necessità di offrire una qualche forma di sorveglianza organizzata anche per coloro che si sono lasciati la malattia alle spalle da molti anni. Solo nel 2006, con un ampio studio i cui risultati sono stati pubblicati sul New England Journal of Medicine, gli
CCSS
LO STUDIO
I
l Childhood Cancer Survivor Study (CCSS) rappresenta ormai da oltre 20 anni una fonte insostituibile di dati che aiuta gli esperti a comprendere meglio gli effetti tardivi dei trattamenti di un tumore pediatrico, a migliorare la sopravvivenza dei piccoli pazienti e a minimizzare gli effetti negativi delle cure oncologiche sulla salute. Lo studio è partito nel 1994 arruolando oltre 15.000 sopravvissuti a un tumore pediatrico diagnosticato tra il 1970 e il 1986 e, come controlli, circa 4.000 fratelli e sorelle, ma si è evoluto per restare al passo con gli enormi cambiamenti terapeutici degli ultimi decenni: al gruppo iniziale sono stati aggiunti circa 10.000 pazienti ai quali è stato diagnosticato un tumore tra il 1987 e il 1999 e circa 1.000 controlli.
In questo articolo: survivors tumori pediatrici prevenzione
esperti hanno scoperto che a lungo termine gli effetti collaterali possono essere frequenti. E nel 2014 uno studio uscito sul Journal of Clinical Oncology calcolò che il 54 per cento dei sopravvissuti a un cancro pediatrico manifesta qualche malattia secondaria intorno ai 50 anni di età. “Quelli che osserviamo oggi sono gli effetti delle prime cure oncologiche davvero efficaci, quelle di 20 o 30 anni fa. Abbiamo già qualche indizio del fatto che le terapie usate in anni più recenti sono probabilmente meno tossiche, ma ovviamente lo sapremo solo tenendo d’occhio con attenzione gli ex pazienti” prosegue Armstrong. “E all’orizzonte vi sono altre valutazioni da fare riguardo alle nuove terapie che agiscono sul sistema immunitario e di cui non abbiamo ancora tutti i dati a lungo termine. Questo vuol dire che bisogna sviluppare modelli di studio efficaci per questi pazienti, ma anche che non possiamo fermarci ai primi dati raccolti perché lo scenario è in continuo mutamento.”
NON CERCARE ALLA CIECA Il CCSS ha già indicato che il 22 per cento dei sopravvissuti nel gruppo che ha sotto osservazione sviluppa una neoplasia secondaria nel giro di 20 anni. Ma ha anche stabilito che questa informazione è di scarsa utilità se non si sa esattamente cosa andare a cercare. “Per esempio, ci siamo accorti che l’incidenza di cancro al seno è più elevata tra le donne che hanno avuto un tumore pediatrico rispetto al resto della popolazione” spiega Armstrong. “Abbiamo fatto ulteriori analisi e scoperto che le donne trattate con antracicline, un tipo di chemioterapico, sono il gruppo maggiormente a rischio, insieme alle donne che si sono sottoposte a radioterapia del torace. Queste donne hanno un rischio analogo a quello delle portatrici di mutazioni dei geni BRCA, quindi suggeriamo di sottoporle agli stessi screening previsti per queste ultime: mammografia o, meglio, risonanza magnetica del seno ogni anno a partire dai 35 anni.”
Per convincere i sistemi sanitari che si tratta di un intervento efficace e sostenibile, i ricercatori del CCSS hanno sviluppato un modello computerizzato relativo agli effetti dello screening nel tempo e hanno dimostrato che questa strategia può salvare una donna su due tra quelle che sviluppano un cancro del seno legato a terapie eseguite nel passato. “Non solo: molte terapie anticancro aumentano anche il rischio di malattie cardiovascolari ed endocrine, favorendo, per esempio, l’obesità” continua l’esperto. “Si tratta di persone la cui salute è più a rischio della media per via della presenza contemporanea di diversi disturbi. È essenziale quindi fornire loro, fin da subito, un supporto per la prevenzione, per esempio tenendo sotto controllo la pressione arteriosa e aiutandole a non ingrassare con programmi specifici e consigli sugli stili di vita.”
STRATEGIA COMPLETA La potenza del Childhood Cancer Survivors Study sta proprio nel modello sperimentale che utilizza: identificare i sopravvissuti a un cancro infantile, verificare di quali patologie soffrono o hanno sofferto nel tempo, selezionare i gruppi che hanno un rischio più elevato di ammalarsi di nuovo, proporre strategie di prevenzione mirate e infine, non meno importante, dimostrare che queste strategie fanno risparmiare in termini di vite umane e costi sanitari, in modo che tutti i Paesi siano incentivati a seguirle. L’obiettivo è arrivare a proporre linee guida per la sorveglianza degli ex pazienti per almeno tutte le forme più comuni di cancro pediatrico, da aggiornare man mano che cambiano le cure a cui i piccoli pazienti vengono sottoposti. A questo scopo gli esperti combinano gli studi epidemiologici con studi di intervento (cioè con sperimentazioni classiche, in cui si verifica se un certo approccio funziona) e con studi “virtuali”, in cui si utilizza il potere predittivo dei computer per simulare ciò che potrebbe accadere in futuro. “Il nostro studio è finanziato dai National Institutes of Health statunitensi, quindi da fondi pubblici” conclude Armstrong. “Stiamo mettendo la nostra piattaforma a disposizione di tutti i ricercatori perché possano usare i dati ma anche contribuire a migliorarne l’attendibilità inserendo le storie cliniche dei propri pazienti.”
Serve un supporto per gli ex pazienti
PREMIO NOBEL Medicina e fisiologia
Tutti i meccanismi che controllano l’ossigeno La scoperta dei meccanismi con cui le cellule percepiscono e rispondono alla carenza di ossigeno, premiata con il Nobel per la medicina e la fisiologia 2019, ha aperto la strada a nuove strategie terapeutiche
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HIF E CANCRO
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e scoperte dei premi Nobel per la medicina 2019 hanno avuto molte ricadute in campo oncologico. Numerosi studi hanno infatti dimostrato che i tumori esprimono alti livelli di HIF rispetto ai tessuti sani. Ciò favorisce l’abilità del tumore di crescere e diffondersi nell’organismo. Oltre al gene dell’eritropoietina, HIF controlla infatti oltre un centinaio di altri geni, e numerosi tra questi sono coinvolti nel processo di formazione di nuovi vasi sanguigni noto come angiogenesi: il tumore si crea una rete di rifornimento di nuovi vasi per non restare senza ossigeno e nutrienti. I ricercatori stanno cercando nuove molecole capaci di bloccare HIF per poterle usare come farmaci antitumorali. Al contrario, composti in grado di attivare HIF possono essere utili per curare l’anemia (un farmaco di questo tipo è già stato approvato in alcuni Paesi) e per mitigare i danni di ictus o ischemia.
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a cura di ELENA RIBOLDI utte le cellule hanno bisogno di ossigeno per produrre energia e sopravvivere. La quantità di ossigeno che le cellule hanno a disposizione non è costante, ma varia nei diversi tessuti a seconda del flusso sanguigno e dei consumi energetici. Queste variazioni costringono la cellula ad adattare il proprio metabolismo. Come fa una cellula ad accorgersi se i livelli di ossigeno si abbassano? Grazie a una molecola che funge da sensore e che, in caso di carenza di ossigeno (ipossia), atti-
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va processi cellulari e tessutali di compenso. Il premio Nobel per la medicina 2019 è stato assegnato ai tre scienziati, William Kaelin, dell’Università di Harvard, Peter Ratcliffe, dell’Università di Oxford, e Gregg Semenza, della John Hopkins University di Baltimora, che hanno compreso questi meccanismi. L’assemblea del Nobel, rendendo pubblici i nomi dei vincitori, si è espressa in questi termini: “I premi Nobel di quest’anno hanno svelato uno dei processi di adattamento più essenziali della vita. Hanno gettato le basi per comprendere come i livelli di ossigeno influenzano il metabolismo cellulare e la fisiologia. Le loro scoperte hanno inoltre aperto la strada a nuove promettenti strategie per combattere l’anemia, il cancro e molte altre malattie”. Nel 2016, Kaelin, Ratcliffe e Semenza ave-
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Una molecola funge da sensore per la mancanza di ossigeno
In questo articolo: premio Nobel ipossia eritropoietina
vano già vinto per gli stessi meriti il premio Lasker, un prestigioso riconoscimento da alcuni definito “il Nobel americano” di cui vi parliamo nel prossimo articolo.
I vincitori erano stati premiati con il Lasker, il Nobel americano Il sensore dell’ossigeno è in tutte le cellule
Altri due scienziati in passato hanno ricevuto il premio Nobel per i loro studi sull’ossigeno: Otto Warburg, nel 1931, per avere capito come le cellule utilizzano l’ossigeno per convertire i nutrienti in energia, e Corneille Heymans, nel 1938, per avere scoperto alcuni recettori a livello delle carotidi che fanno aumentare la frequenza respiratoria se la concentrazione dell’ossigeno nel sangue scende. Nelle figure: Per aumentare la 1 Gregg Semenza quantità di ossige2 William Kaelin no di cui l’organismo 3 Peter Ratcliffe può disporre, i reni, e in misura minore fegato e cervello, producono un ormone noto come eritropoietina che stimola la produzione di globuli rossi, le cellule cioè che hanno il compito di trasportare l’ossigeno dai polmoni ai tessuti. Il nome eritropoietina (EPO) può suonare familiare perché è talvolta citato a proposito del doping sportivo: alcuni atleti assumono quest’ormone per migliorare l’ossi-
genazione dei muscoli e quindi la propria performance. L’americano Gregg Semenza e il britannico Peter Ratcliffe, studiando separatamente il gene dell’eritropoietina, hanno chiarito in che modo l’ossigeno ne controlla la sintesi e hanno capito che il sensore dell’ossigeno è presente in tutte le cellule. Semenza ha identificato alcune sequenze di DNA necessarie affinché l’eritropoietina venga sintetizzata in risposta alla carenza di ossigeno. Usando colture di cellule epatiche ha scoperto e isolato un complesso proteico che si lega a queste sequenze in modo ossigeno-dipendente, il “fattore inducibile dall’ipossia” (hypoxia-inducible factor, HIF). HIF è composto da due subunità, alfa e beta. Quando l’ossigeno si riduce, la subunità alfa si unisce alla subunità beta e il complesso lega il DNA avviando la produzione innanzitutto dell’eritropoietina, ma anche di altre proteine. Anche se solo pochi tipi di cellule producono eritropoietina, HIF “era attivo in tutte le cellule, indipendentemente dal fatto che producessero l’eritropoietina. Ciò era davvero inatteso” ha detto una volta Ratcliffe, parlando delle proprie ricerche.
Una pesca fortunata In presenza di ossigeno la subunità alfa di HIF viene degradata e questo impedisce la produzione esagerata di globuli rossi. La degradazione si verifica all’interno di un macchinario cellulare chiamato proteasoma, una sorta di trituratore per proteine. Per finire nel proteasoma le proteine devono avere una sorta di etichetta che indica il loro destino. L’etichetta della subunità alfa di HIF è un peptide chiamato ubiquitina. William Kaelin e Peter Ratcliffe hanno scoperto che ad attaccare l’ubiquitina a HIF, avviandolo alla distruzione, è la proteina di von Hippel-Lindau (VHL). Kaelin, durante i suoi studi su una sindrome ereditaria (la sindrome di von Hippel-Lindau) che si associa a un alto rischio di sviluppare alcuni
tumori, ha osservato che le cellule in cui il gene VHL è alterato esprimono alti livelli di geni regolati dall’ipossia. Ratcliffe ha poi dimostrato che VHL può interagire fisicamente con HIF ed è necessaria per la sua degradazione. I due ricercatori, lavorando in modo indipendente, hanno infine scoperto che VHL può legare HIF solo in presenza di ossigeno. “Confesso che, come molti scienziati, ho permesso a me stesso di sognare che un giorno questo sarebbe successo” ha detto William Kaelin durante una conferenza stampa dopo l’assegnazione del Nobel. “L’attività preferita di mio padre era la pesca; parte del segreto è sapere dove pescare. Una cosa che ho azzeccato è stato capire che la sindrome di von Hippel-Lindau era il posto giusto dove andare a pescare. Anche se i premi sono meravigliosi, ciò che conta è cercare di generare nuova conoscenza e fare in modo che la conoscenza aiuti i pazienti.”
“Ho permesso a me stesso di sognare che sarebbe successo”
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PREMI LASKER Linfociti e HER2
Passi da gigante nella ricerca e nelle cure I premi Lasker accendono i riflettori su scoperte fondamentali per la ricerca biomedica e su importanti progressi nelle cure. E quest’anno, ancor più che in passato, parlano di cancro
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a cura di ELENA RIBOLDI immunoterapia sta rivoluzionando l’oncologia: stimolare il sistema immunitario affinché aggredisca le cellule cancerose può fare la differenza in pazienti con alcuni tipi di tumore molto aggressivi. Questi progressi non sarebbero stati possibili se alcuni scienziati non avessero identificato con precisione le cellule del sistema immunitario e compreso come funzionano le risposte immunitarie. Quest’anno il premio Albert Lasker per la ricerca medica di base è stato assegnato a Max D. Cooper e Jacques Miller per la scoperta dei linfociti B e dei linfociti T, le cellule dell’immunità specifica. Le loro scoperte hanno aperto la strada sia agli studi sui disordini linfoproliferativi sia alla immunoterapia. Il premio LaskerDeBakey per la ricerca clinica è andato invece a Michael Shepard, Dennis Slamon e Axel Ullrich, i primi a sviluppare un anticorpo in grado di bloccare una proteina responsabile della crescita di alcuni tumori della mammella.
sarne la distruzione. I linfociti B producono gli anticorpi che si legano al bersaglio rendendolo inoffensivo o facendo in modo che venga distrutto dalle cellule dell’immunità innata. I linfociti T aiutano i linfociti B ad attivarsi e uccidono direttamente le cellule infettate o anomale. Max D. Cooper, un pediatra affascinato dall’immunologia, ha il merito di avere dimostrato l’esistenza di questi due tipi distinti di linfociti. Cooper aveva notato che alcuni bambini particolarmente suscettibili alle infezioni non producevano anticorpi, ma erano comunque in grado di avere alcune risposte immunitarie. Viceversa, bambini con problemi al timo, organo in cui vengono prodotti i linfociti T, producevano anticorpi. Cooper ipotizzò quindi che esistessero due distinte branche dell’immunità specifica. Per dimostrare questa ipotesi in modo sperimentale, scelse di utilizzare i polli. “Il pollo era il modello giusto perché possiede il timo e un organo chiamato borsa di Fabrizio” ha spiegato lo scienziato in occasione dell’assegnazione dei premi. “Pensavamo che avremmo potuto chiarire la funzione del timo e della borsa di Fabrizio rimuovendo uno dei due organi e osservando quali capacità del sistema immunitario avrebbero
Premiati i linfociti e l’oncogene HER2
Dai bambini ai polli L’immunità specifica, o immunità acquisita, è in grado di riconoscere i microbi e le cellule tumorali e di cau12 | FONDAMENTALE | DICEMBRE 2019
sviluppato (o perso) gli animali. È stato il punto di partenza per scoprire che esistono due linee di cellule linfocitarie, una timo-dipendente (i linfociti T) e una borsa-dipendente (i linfociti B).” In seguito, Cooper e i suoi colleghi hanno dimostrato che nei mammiferi, incluso l’uomo, i linfociti B vengono generati nel fegato durante la vita fetale e prodotti nel midollo osseo dopo la nascita.
Inutile o forse no? I linfociti T maturano nel timo, un piccolo organo situato nel torace, davanti alla trachea. Prima della metà del secolo scorso si riteneva che il timo fosse del tutto inutile, fosse cioè una parte del corpo che aveva perso ogni utilità durante l’evoluzione. A scoprire che il timo ha in realtà una funzione importante è stato l’immunologo Jacques Miller. “Il timo è coinvolto in un tipo di leucemia del topo che io ero interessato a studiare” ha raccontato Miller. “Durante i miei studi osservai che i topolini nati senza timo non erano in grado di rigettare il trapianto di cute donata da un altro topo. Questo significava che il loro sistema immunitario non si era sviluppato correttamente e conclusi che il timo era essenziale per lo sviluppo dell’immunità.” Miller ha stabilito anche che l’interazione tra i linfociti T e i linfociti B è cruciale perché queste cellule funzionino in modo adeguato. “I linfociti B non riescono a produrre l’anticorpo corretto senza i linfociti T. Infatti i linfociti T secernono fattori che agiscono sui linfociti B; inoltre i due tipi di linfociti (T e B) entrano in contatto diretto ed espongono delle molecole che rafforzano tale correlazione. Grazie a questo legame e alle molecole
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premi Lasker immunità anticorpi
Un anticorpo salvavita Ed è un anticorpo sintetico prodotto in laboratorio, trastuzumab, che ha consentito a Michael Shepard, Dennis Slamon e Axel Ullrich di vincere l’ambito premio Lasker-DeBakey per la ricerca clinica. A metà degli anni Settanta, infatti, vennero scoperti gli oncogeni, cioè quella categoria di geni che, se mutati, favoriscono la crescita dei tumori. Il passo successivo della ricerca fu utilizzare anticorpi creati in laboratorio per cercare di bloccare gli oncogeni o le proteine che da essi vengono codificate con lo scopo di contrastare la proliferazione delle cellule tumorali. Per esempio la proteina HER2, prodotta dall’oncogene omonimo, è presente ad alti livelli (in gergo si parla di overespressione) in circa un quarto dei tumori della mammella. “Ci siamo sorpresi ed entusiasmati quando abbiamo scoperto che, mettendo uno dei nostri anticorpi prodotti in laboratorio a contatto con cellule tumorali che esprimevano HER2 in eccesso, queste diventavano vulnerabili all’azione del sistema immunitario” racconta Michael Shepard. L’anticorpo monoclonale anti-HER2 chiamato trastuzumab è stato approvato dall’agenzia americana per i farmaci nel 1998 ed è diventato una terapia salvavita per tante donne colpite da tumore al seno in tutto il mondo. Il premio Lasker-DeBakey viene assegnato solo a chi ha contribuito a “un grande progresso che ha migliorato la vita di migliaia di persone”. A oggi sono ben 2,3 milioni nel mondo le persone che sono state trattate con trastuzumab.
UNA PALADINA DELLA RICERCA
ary Woodard Lasker (19011994) credeva fermamente nel fatto che i fondi pubblici destinati alla ricerca dovessero essere aumentati. Per decenni si spese senza sosta per convincere gli americani che gli investimenti nella ricerca medica avrebbero portato benefici inestimabili per
In questo articolo:
prodotte dai linfociti T (chiamate interleuchine), i linfociti B attivano la loro capacità di produrre anticorpi.”
Nelle foto della pagina a fianco, dall’alto verso il basso: Jacques Miller; Max D. Cooper; H. Michael Shepard; Dennis J. Slamon; Axel Ullrich
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la salute di tutti. Il suo monito era: “Se pensate che la ricerca sia costosa, provate la malattia!”. Anche grazie alla sua opera di sensibilizzazione, i fondi a disposizione dei National Institutes of Health (NIH), il più famoso ente di ricerca pubblico degli Stati Uniti, aumentarono considerevolmente.
Assieme al marito Albert Davis Lasker (1880-1952), un pioniere della comunicazione pubblicitaria, creò la Fondazione Lasker, che dal 1946 assegna i prestigiosi premi. In molti casi chi ha ricevuto un premio Lasker ha poi ottenuto il premio Nobel. L’unico scienziato italiano che ha condotto le sue ricerche in parte in Italia e ha vinto un premio Lasker è stata Rita Levi Montalcini.
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NOTIZIE FLASH
Dal Mondo
Immunoterapia nel tumore al seno triplo negativo
Medicine complementari nel cancro della prostata Nell’ambito di un ampio studio americano, poco più della metà degli uomini con carcinoma prostatico ha riferito di utilizzare medicine complementari e alternative, soprattutto multivitaminici e supplementi di omega-3. Il loro utilizzo, sottolineano i ricercatori in questo studio condotto su oltre 8.000 uomini i cui risultati sono stati pubblicati sul Journal of Urology, è aumentato considerevolmente negli ultimi 20 anni. I risultati di questo studio non solo mostrano che l’utilizzo di medicine complementari e alternative è ormai diventato una pratica comune, ma “sottolineano l’importanza di comprendere perché questi pazienti ne facciano uso, per incoraggiare anche un dialogo aperto e collaborativo che li possa riconciliare con la medicina convenzionale”.
Nuove speranze dall’immunoterapia per i pazienti con carcinoma mammario triplo negativo (TNBC), forma tumorale che rappresenta il 15 per cento dei casi di cancro al seno. L’aggiunta di immunoterapia alla chemioterapia nelle prime fasi del trattamento di pazienti con TNBC aumenta considerevolmente la possibilità che non vi sia più malattia residua nel momento in cui si interviene chirurgicamente. I risultati provengono da uno studio di fase 3 (ovvero la fase in cui si valuta quanto un nuovo trattamento dia risultati migliori rispetto a un trattamento standard esistente) condotto da Peter Schmid, del St Bartholomew’s Breast Cancer Centre, Barts Health NHS Trust di Londra: nello studio è stato aggiunto, alla canonica chemioterapia, un farmaco immun o te ra pico, cioè l’inibitore di checkpoint noto come pembrolizumab.
Flavonoidi per il cuore Il consumo di prodotti ricchi di flavonoidi come cioccolato nero e tè sembra proteggere dal rischio di sviluppare tumori e malattie cardiache, in particolare nei fumatori e nei forti bevitori. È quanto emerso da un’analisi condotta su dati danesi. Gli studiosi hanno scoperto che chi consuma abitualmente moderate o alte dosi di cibi ricchi di flavonoidi ha meno probabilità di morire di cancro o per problemi cardiovascolari. L’effetto protettivo sembrerebbe ancora maggiore in soggetti molto a rischio come i fumatori e coloro che bevono più di due unità alcoliche standard al giorno (corrispondenti a 10 grammi di alcol l’una). È importante notare che il consumo di flavonoidi non contrasta tutti i danni causati dal fumo e dall’elevato consumo di alcol. La strategia migliore per la propria salute rimane quella di smettere di fumare e ridurre l’apporto di alcolici.
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L’esercizio fisico fa bene al cancro del colon
I pazienti con carcinoma del colon-retto metastatico che praticano un moderato esercizio fisico durante la chemioterapia tendono ad avere una progressione più lenta della malattia e un minor numero di effetti collaterali gravi causati dal trattamento. È quanto emerge da uno studio condotto dai ricercatori del Dana-Faber Cancer Institute e del Brigham and Women’s Hospital di Boston, i cui risultati sono stati pubblicati sul Journal of Clinical Oncology. Nel dettaglio, sembra che anche esercizi a bassa intensità, per esempio camminare almeno 4 ore alla settimana, siano associati a una riduzione nella progressione del tumore del 20 per cento. “I pazienti fisicamente attivi tolleravano meglio la chemioterapia” dice Brendan Guercio, a capo del gruppo di ricerca. “Muoversi per 30 o più minuti al giorno è associato a una riduzione del 27 per cento degli effetti collaterali legati al trattamento.”
Le bevande zuccherate e il rischio di mortalità
Una linea guida per la gestione del dolore
Chi beve due o più bicchieri di bevande zuccherate o addolcite artificialmente al giorno ha un rischio maggiore di mortalità rispetto a chi ne beve meno di un bicchiere al mese. Questi i risultati di una ricerca dell’International Agency for Research on Cancer (IARC) pubblicata sulla rivista JAMA Internal Medicine. I ricercatori hanno analizzato più di 450.000 persone reclutate nell’ambito dello studio epidemiologico EPIC, iniziato negli anni Novanta e che ancora oggi viene aggiornato ed è fonte di scoperte soprattutto per quanto riguarda le associazioni tra alimentazione e cancro. In quest’ultimo articolo, gli autori hanno inoltre evidenziato come il consumo di due o più bicchieri al giorno di bevande zuccherate o addolcite artificialmente sia associato a morte per malattia cardiovascolare, mentre il consumo di uno o più bicchieri risulti associato a morte per malattie a carico del sistema digerente.
Come molti pazienti purtroppo sanno, il dolore è uno dei sintomi più frequenti con cui ci si scontra durante i trattamenti, e può essere causato sia dal tumore stesso, sia dalle terapie. ESMO, la European Society for Medical Oncology, ha pubblicato alcune linee guida per i pazienti dedicate al controllo del dolore oncologico. Gli esperti di ESMO si augurano che le raccomandazioni siano lette anche dai medici curanti, per permettere un migliore dialogo tra medico e paziente. Tra le raccomandazioni principali, quella di avere chiaro il quadro di insieme del percorso terapeutico: in questa maniera, nel caso in cui non dovesse funzionare uno specifico trattamento, il paziente sarebbe già a conoscenza di eventuali altre possibilità. Essendo pensato per il malato, il manuale contiene anche un glossario che facilita la comprensione dei termini più tecnici. È scaricabile gratuitamente dal sito di ESMO, anche se per ora è disponibile solo in lingua inglese.
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ESMO 2019 Novità dai congressi
L’oncologia clinica a braccetto con la ricerca traslazionale Spazio alla ricerca di base, specie se ben integrata con la cura dei pazienti: al congresso di Barcellona le due anime della cura del cancro si parlano a beneficio dei malati
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a cura di DANIELA OVADIA on circa 30.000 medici e quasi 50.000 partecipanti tra pazienti, espositori, esperti di salute pubblica e operatori del settore, il congresso della European Society for Medical Oncology (ESMO) è un importante appuntamento di aggiornamento per tutti coloro che sono coinvolti nella cura del cancro. Quest’anno si è tenuto a Barcellona e, per la prima volta, ha suddiviso presentazioni e sessioni educative in due filoni distinti: quello classico, più clinico – in cui si è discusso di nuove terapie, approcci alla cura e aspetti epidemiologici e politici – e quello traslazionale, che ha dato spazio anche alla ricerca di base, purché già pronta, o quasi pronta, per arrivare al letto del paziente.
Un dialogo necessario “È ormai chiaro che la ricerca di base è all’origine della maggior parte delle innovazioni nella cura dei tumori” spiega Anton Berns, direttore della ricerca dell’Istituto olandese per il can-
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ATTENZIONE AL SOCIALE
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on si può fare ricerca sul cancro né curare il cancro se non si tengono in considerazione anche gli aspetti sociali ed epidemiologici della malattia” ha ribadito Solange Peters, oncologa e ricercatrice del CHUV
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di Losanna (Svizzera) e presidente entrante di ESMO. Per esempio, è necessario fare più attenzione all’epidemiologia, una disciplina che fornisce i dati essenziali per programmare strategie di ricerca e investimenti in sanità pubblica.
“Dobbiamo supportare l’epidemiologia perché senza proiezioni sul futuro, e senza una corretta fotografia di quello che sta accadendo in termini numerici, non possiamo scegliere con oculatezza in quali campi investire denaro e sforzi.” Sul piano sociale, la stessa Peters si è fatta promotrice di discussioni, anche molto accese, sul ruolo
In questo articolo: ESMO immunoterapia pazienti
Immunoterapia in pole position
cro e condirettore scientifico del programma del congresso. “Il problema è far parlare le due realtà: è necessario che i ricercatori di base vengano ai congressi clinici come ESMO per capire quali sono le domande ancora senza risposta nella pratica clinica. D’altro canto, i clinici devono imparare a gestire terapie che richiedono sempre più conoscenze di base e nozioni di biologia molecolare. La scelta delle terapie più avanzate dipende, oggi, da test genetici e valutazioni complesse e non tutti i medici sono sufficientemente aggiornati. Per questo è essenziale far parlare il laboratorio e l’ospedale.” Anche tra i clinici, però, non sono mancate le discussioni sul ruolo della ricerca di base e, soprattutto, sull’accessibilità alle nuove cure. “Abbiamo cercato di fare un congresso il più inclusivo possibile” spiega Jean-Yves Blay, direttore del Centro Léon Bérard di Lione, in Francia, e condirettore del programma scientifico per la parte più clinica. “Abbiamo partecipanti da tutto il mondo, medici che lavorano in sistemi sanitari molto diversi tra loro. Spesso presentiamo i risultati degli ultimi studi traslazionali e clinici, ma sappiamo che per la stragrande maggioranza dei medici presenti i farmaci oggetto di sperimentazione non sono accessibili, per ragioni economiche o per i tempi delle autorizzazioni nei vari Paesi. Ecco perché non dobbiamo tralasciare l’aggiornamento sulla realtà della pratica clinica: la maggior parte dei tumori viene curata ancora con farmaci e protocolli vecchi ma non per questo inefficaci e spesso migliorabili, grazie anche alla condivisione delle esperienze.”
Esattamente come accade ormai da qualche anno, la grande protagonista delle innovazioni terapeutiche nel cancro è stata, anche a ESMO, l’immunoterapia, con l’introduzione, spesso in combinazione con la chemioterapia classica, di farmaci mirati. Alcune sperimentazioni cliniche hanno dimostrato, per esempio, che le donne con cancro al seno positivo per i recettori per gli estrogeni ma negativo per HER2 (un gene bersaglio di specifiche terapie) hanno un’aspettativa di vita più lunga quando vengono sottoposte a una terapia che associ farmaci della classe degli inibitori di CDK 4/6 (una categoria che agisce a livello del DNA inibendo la replicazione cellulare). Per le donne con cancro al seno triplo negativo (cioè privo dei tre più comuni bersagli molecolari e quindi più complicato da curare) arrivano invece dati positivi dall’utilizzo dei farmaci anti-PD-L1, una categoria di sostanze che risveglia e potenzia la risposta immunitaria dell’organismo contro il tumore. Risultati importanti con gli anti-PD-L1 sono stati riscontrati anche nella terapia del carcinoma ovarico, così come ci sono conferme sull’utilità degli inibitori di PARP, farmaci mirati che hanno cambiato, in alcuni casi, la prognosi di questo tumore. Si tratta di studi di fase III, ovvero ancora sperimentali, ma molto vicini all’autorizzazione all’uso nella pratica
delle donne come ricercatrici e oncologhe. Senza un loro maggiore coinvolgimento ai vertici delle società scientifiche – è stato detto ad ESMO presentando alcuni dati sulle “quote rosa” nei gruppi dirigenti –, non si possono raggiungere gli obiettivi di qualità nelle cure. Infine, il congresso ha definiti-
vamente contribuito a valorizzare il ruolo dei pazienti anche nelle fasi di ricerca, per raccogliere dati e informazioni preziose. I rappresentanti delle associazioni, infatti, non erano più relegati in sessioni a loro riservate ma spesso partecipavano a pieno titolo come esperti alle sessioni scientifiche.
clinica di tutti i giorni. Gli anti-PD-L1 sono stati usati con successo anche in altri tumori, in particolare in quelli genitourinari: i dati presentati documentano che, se associati alla chemioterapia, migliorano la sopravvivenza nel cancro uroteliale metastatico, un tumore che nel 90 per cento dei casi è di origine vescicale. L’immunoterapia sembra utile anche nel trattamento del mesotelioma. Lo studio PROMISE-meso, presentato a Barcellona, ha cercato di capire perché solo alcuni pazienti rispondono bene ai cosiddetti inibitori di checkpoint, farmaci che agiscono sul sistema immunitario. La possibilità di comprendere meglio quali gruppi di pazienti rispondono ai nuovi trattamenti è un tema comune a molte delle sperimentazioni cliniche presentate e costituisce anche il collegamento tra ricerca di base e ricerca clinica, dato che la soluzione spesso si trova nelle caratteristiche molecolari e genetiche del tumore o del paziente. Infine l’immunoterapia è oggetto di studio anche nella cura del tumore al polmone non a piccole cellule in stadio avanzato. Due studi presentati a ESMO mostrano un piccolo aumento del tasso di sopravvivenza se si utilizzano due farmaci immunoterapici (nivolumab e ipilimumab) invece della chemioterapia. DICEMBRE 2019 | FONDAMENTALE | 17
IN MEMORIA Giancarlo Vecchio
Un pioniere della ricerca oncologica italiana Negli anni in cui nasceva l’idea che i tumori potessero essere causati anche da virus, creò la cattedra di virologia oncologica all’Università di Napoli. Sempre a fianco dei ricercatori più giovani, anche negli ultimi mesi di vita, Vecchio ha contribuito al consolidamento di AIRC FRANCESCO PERRONE, direttore dell’Unità sperimentazioni cliniche dell’Istituto Pascale di Napoli, ha voluto ricordare la figura di scienziato di Giancarlo Vecchio e il contributo dato alla ricerca oncologica. on posso tecnicamente definirmi un allievo di Giancarlo Vecchio, ma è lui il primo ricercatore con cui sono entrato in contatto, 35 anni fa, quando solo vagamente immaginavo di dedicarmi all’oncologia. Se oggi scrivo queste righe per ricordarlo su Fondamentale, è chiaro quanto quell’incontro sia stato cruciale nella mia vita. È stato, ed era già allora, uno scienziato di fama internazionale. Lo testimoniano molti passaggi del suo percorso, come l’essere stato tra i primi italiani accolti in posizioni di rilievo nei laboratori dell’NIH di Bethesda, e presidente della European Thyroid Association, che nel 1999 gli conferisce il premio Henning. Ma è stato un ricercatore importante anche – se non di più – per il contributo dato alla crescita della ricerca oncologica, affiancando in varie forme AIRC a partire dagli anni eroici in cui, insieme a pochi altri visionari scienziati, consolidava le basi della Fondazione che oggi rappresenta il più importante supporto per la ricerca sul cancro in Italia. Meritati, quindi, i premi; per esempio quelli ricevuti dall’Accademia dei Lincei nel 1975 (premio Longhi) e nel 1999 (premio Feltrinelli). Nel frat-
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tempo, la gloriosa carriera all’Università Federico II di Napoli, con la cattedra di virologia oncologica dal 1975 (a quel tempo pochi credevano che i virus potessero causare alcuni tipi di cancro, e vedevano lontano) e la direzione del Dipartimento di biologia e patologia cellulare e molecolare, della Scuola di specializzazione in oncologia, e del Dottorato di ricerca internazionale in oncologia ed endocrinologia molecolare. E poi le pubblicazioni sulle più importanti riviste scientifiche del mondo, quelle che per molti di noi sono un sogno, come Nature, Science o Cell, negli anni in cui iniziavano le scoperte sugli errori del DNA che causano il cancro, e oggi sono in qualche caso i bersagli dei farmaci che usiamo per curare i nostri pazienti. Giancarlo Vecchio era lì, e la cura per alcune forme di tumore della tiroide la si deve alla capacità sua e dei suoi allievi. Mi raccontano che negli ultimi mesi lavorava ancora al banco di laboratorio, con lo stile e la signorilità che gli erano propri, senza invadere i territori dei ricercatori più giovani, sicuramente fungendo da esempio e mentore per quanti gli erano intorno. Io lo incontravo ogni tanto in una rosticceria a metà strada tra i nostri istituti, luogo per lo spuntino di tanti ricercatori, e, poco prima o poco dopo, in una sala d’aspetto per combattere i malanni, con infinita dignità e sempre accompagnato dalla dolcissima e innamoratissima moglie. A me mancheranno gli incontri occasionali e le ore spese insieme negli eventi AIRC. Ma ancor più, Giancarlo Vecchio mancherà alla comunità scientifica, napoletana, italiana e internazionale.
TUMORI PEDIATRICI Le novità della ricerca
Contro i tumori infantili l’arma vincente è la creatività Alcuni tipi di tumore che colpiscono i bambini sono difficili da curare. Occorre allora trovare nuove strategie utilizzando farmaci già esistenti o approcci all’avanguardia
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a cura di ELENA RIBOLDI razie ai progressi nelle cure, oggi tre persone su quattro che si ammalano di cancro riescono a guarire. Per alcuni tumori del sangue, i più frequenti nella fascia di età 0-14 anni, la percentuale di guarigione raggiunge anche il 90 per cento. Esistono però situa-
zioni, specie nel caso dei tumori solidi, in cui la prognosi resta ancora largamente insoddisfacente. Le condizioni più problematiche sono quelle in cui il tumore si è diffuso nell’organismo formando metastasi o si presenta in una forma particolarmente aggressiva oppure riemerge a distanza di tempo (recidiva). Per curare queste difficili situazioni cli-
niche è necessario inventarsi qualcosa di nuovo. PENSARE IN MODO DIVERSO Per ottenere risultati importanti non serve necessariamente un farmaco nuovo di zecca. “Si parla molto di nuovi farmaci, ma è bene capire che a volte è possibile usare meglio terapie che già esistono, utilizzando un po’ di creatività” spiega Andrea Ferrari, oncologo pediatra dell’Istituto nazionale dei tumori (INT) di Milano, che cita, come esempio di approccio creativo, il nuovo protocollo di cura per il rabdomiosarcoma ad alto rischio di recidiva basato su farmaci noti, ma mai usati per quest’indicazione e
in questa modalità. Il rabdomiosarcoma è il sarcoma dei tessuti molli più comune in età pediatrica e adolescenziale. I sarcomi dei tessuti molli complessivamente comprendono oltre 50 tipi diversi di tumore che hanno origine da cellule dei tessuti connettivi, ovvero i tessuti che sostengono e circondano gli organi. Il rabdomiosarcoma deriva dalle cellule muscolari striate ed è un tumore molto aggressivo. In genere risponde bene alla chemioterapia rispetto ai sarcomi dell’adulto, ma i pazienti che hanno già metastasi al momento della diagnosi e quelli che hanno una ricaduta dopo il trattamento iniziale hanno una probabilità più bassa degli altri di guarire.
Si può usare meglio un farmaco vecchio
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TUMORI PEDIATRICI Le novità della ricerca COMBINAZIONI INEDITE Fino a ora il trattamento standard per il rabdomiosarcoma consisteva in 9 cicli di chemioterapia. Uno studio del Gruppo europeo per i sarcomi dei tessuti molli (European Paediatric Soft Tissue Sarcoma Study Group, EpSSG), coordinato dall’Italia e i cui risultati sono stati recentemente pubblicati sulla rivista medica Lancet Oncology in un articolo di cui Ferrari è co-autore, ha dimostrato che l’aggiunta di sei mesi di terapia di mantenimento con basse dosi di due farmaci già noti, la vinorelbina e la ciclofosfamide, aumenta del 13 per cento la probabilità di sopravvivenza. È importante sottolineare che, facendo ricorso a dosi ridotte di farmaci, la tossicità della terapia di mantenimento è bassissima. Questo studio assume un grande significato se si pen-
sa che da oltre 30 anni nessuno studio internazionale randomizzato sul rabdomiosarcoma infantile ad alto rischio aveva mai mostrato un miglioramento della sopravvivenza con una nuova terapia. Gli studi randomizzati sono studi clinici in cui i pazienti sono assegnati in modo casuale (random in inglese) a diversi gruppi nell’ambito della sperimentazione. Confrontando i risultati ottenuti da chi ha ricevuto la nuova terapia con i risultati di chi ne ha ricevuta una standard, si può valutare se il nuovo trattamento sia più efficace. Gli oncologi pediatri hanno stabilito che il protocollo che include la fase di mantenimento è il nuovo “gold standard”, cioè il miglior trattamento possibile per questi pazienti. Il nuovo protocollo, utilizzato oggi in tutto il mondo, è stato ideato a Milano, dove
Basse dosi vuol dire meno tossicità
CAR-T
I FARMACI VIVENTI
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hirurgia, chemioterapia e radioterapia sono i tre pilastri delle terapie anticancro. La maggior parte dei bambini che si ammalano viene curata grazie a protocolli clinici basati su questi approcci. Se i tumori resistono alle terapie standard o si riformano, la strategia va cambiata. Una modalità di cura originale consiste nell’utilizzare come farmaci le cellule e non le molecole. La terapia cellulare di cui si sente parlare più spesso è la CAR-T (Chimeric Antigen Receptor T cell therapy). Si stratta di una cura in cui si usano i i linfociti T del paziente ingegnerizzati in laboratorio in modo che sulla loro superficie siano presenti i “recettori chimerici per l’antigene”. Grazie a questi recettori, le cellule CAR-T reintrodotte nel paziente riconoscono le cellule tumorali e le uccidono. Carl June dell’Università della Pennsylvania, pioniere di questa terapia, ha definito le CAR-T “il primo vero farmaco vivente”.
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nel 2002 Michela Casanova, medico dell’Oncologia pediatrica dell’INT e attuale coordinatrice del gruppo di lavoro sui nuovi farmaci dell’Associazione italiana ematologia e oncologia pediatrica (AIEOP), ha condotto uno studio pilota su una quindicina di pazienti. Sulla base dei risultati positivi ottenuti è stato successivamente avviato lo studio europeo. BERSAGLI MOLECOLARI La possibilità di trovare nuove terapie per i tumori solidi dell’infanzia è complicata dal fatto che si tratta di tumori rari. “Non sarebbe possibile riuscire a condurre studi randomizzati, gli unici capaci di ottenere risultati, se i pediatri non avessero capito che è fondamentale lavorare in gruppi cooperativi” afferma Ferrari, che aggiunge: “La chiave del successo nell’oncologia pediatrica sono gli studi multicentrici internazionali, di cui quello dell’Ep-
SSG, un’organizzazione che comprende 150 centri di oltre 15 nazioni, è un esempio.” Numerose terapie sviluppate negli ultimi anni per la cura dei tumori solidi dell’adulto e delle leucemie fanno parte delle cosiddette terapie a bersaglio molecolare (targeted therapies). “Per trovare farmaci che abbiano come bersaglio le alterazioni molecolari della cellula tumorale, bisogna conoscere queste alterazioni” sottolinea Ferrari. “Da questo punto di vista, gli studi sui tumori solidi infantili sono in ritardo rispetto a quelli dell’adulto (la maggior parte degli studi farmacologici sono supportati dalle case farmaceutiche che hanno meno interesse a concentrarsi sui tumori rari rispetto ai big killer), ma anche rispetto alle leucemie infantili (più frequenti e globalmente più facili da studiare). Quando si arriva a conoscere il bersaglio molecolare bisogna poi avere un farmaco che agisca contro
Le CAR-T hanno dato risultati importanti in pazienti con forme di leucemia e di linfoma non Hodgkin in cui tutte le altre opzioni terapeutiche avevano fallito. Nel 2018, l’Unione Europea ha autorizzato l’uso di alcune terapie CAR-T per il trattamento di alcuni tumori del sangue. Sono cure costosissime, e tuttavia nel 2019 l’Agenzia italiana del farmaco ha dato il via libera alla rimborsabilità di una terapia CAR-T per pazienti adulti con linfoma diffuso a grandi cellule B resistente o recidivato e per pazienti fino a 25 anni di età con leucemia linfoblastica acuta a cellule B. La terapia viene effettuata solo in centri autorizzati e qualificati. Infatti le terapie CAR-T presentano rischi di effetti collaterali anche gravi, tra cui una condizione infiammatoria nota come “sindrome da rilascio di citochine” e tossicità a carico del cervello. I ricercatori stanno esplorando la possibilità di usare le CAR-T per curare i tumori solidi, ma incontrano numerose difficoltà. Innanzitutto, è indispensabile che esista e venga identificato un antigene bersaglio espresso dalle cellule
In questo articolo:
oncologia pediatrica sarcomi CAR-T
quel bersaglio. Comunque, rispetto a cinque anni fa, quando praticamente non si parlava di terapie a bersaglio molecolare per i tumori solidi del bambino, qualche terapia nuova sta ora emergendo ed è in sperimentazione.” Un esempio è quello delle alterazioni dei geni NTRK. “Queste alterazioni sono state evidenziate nel fibrosarcoma infantile, un tumore che risponde bene alle terapie classiche (che però possono comportare tossicità rilevanti). Gli inibitori di NTRK si stanno dimostrando molto attivi in questa malattia. È inoltre importante sottolineare che alterazioni genetiche di NTRK si trovano anche in altre neoplasie più difficili da curare, come alcuni tumori cerebrali.” Un farmaco che funziona nel fibrosarcoma potrebbe perciò essere utilizzato presto per altre forme di cancro come i gliomi ad alto grado di malignità, per cui oggi non esistono cure efficaci. tumorali ma non dalle cellule sane. Inoltre i tumori solidi sono eterogenei: un certo antigene potrebbe non essere presente su tutte le cellule tumorali, in tal caso le cellule prive dell’antigene riconosciuto dalle CAR-T non verrebbero uccise e potrebbero far ripartire il tumore. In secondo luogo, è necessario che i linfociti raggiungano il tumore e vi entrino: bisognerebbe fornire alle CAR-T una sorta di “navigatore” che gli permetta di trovare il bersaglio. Infine, l’interno del tumore è ostile ai linfociti: occorrono dunque strategie aggiuntive per contrastare le molecole e le cellule che interferiscono con l’attività tumoricida delle cellule CAR-T. A oggi sono stati avviati alcuni studi pilota sull’uso delle CAR-T in forme avanzate di tumori solidi infantili come il neuroblastoma. La sperimentazione è strettamente regolamentata e controllata perché si tratta di terapie avanzate somministrate a bambini, organismi in crescita in cui eventuali effetti collaterali potrebbero manifestarsi sulla lunga distanza.
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SPERIMENTAZIONE ANIMALE Epatite B
Descritta per la prima volta l’azione del virus dell’epatite B Un gruppo di ricerca, sostenuto da AIRC, ha utilizzato topi di laboratorio per scoprire alcuni meccanismi molecolari che rendono poco efficace la risposta immunitaria contro il virus responsabile della malattia, tra i primi fattori di rischio di cancro al fegato
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a cura della REDAZIONE iattivare le difese immunitarie contro il virus dell’epatite B in forma cronica: è quanto è riuscito a fare, almeno nei topi, il gruppo di ricerca guidato da Matteo Iannacone dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano, con un lavoro molto importante se si considera che la malattia, che rappresenta uno dei primi fattori di rischio per il cancro del fegato, colpisce nel mondo più di 250 milioni di persone, soprattutto in Paesi a basso e medio reddito. I risultati dello studio, sostenuto da AIRC, sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista Nature. E l’uso dei topi, in questo studio, è stato essenziale e non sostituibile, a riprova dell’importanza di poter continuare a fare ricerca, quando strettamente necessario, anche sul modello animale.
Individuare il guasto Il primo passo per far ripartire un sistema immunitario inefficiente è capire che cosa non funziona in una determinata situazione. I ricercatori del gruppo di Iannacone hanno concentrato la loro attenzione su un tipo particolare di cellule del sistema immunitario – i linfociti T di tipo CD8 – perché sono le cellule che dovrebbero attaccare e distruggere il virus dell’epatite B. “A volte l’attacco funziona e l’infezione viene debellata, mentre altre volte non sortisce effetti e l’infezione diventa cronica” spiega Iannacone. “La conseguenza è uno stato di infiammazione costante, responsabile dell’evoluzione della malattia verso cirrosi e cancro.” Due gli approcci principali utilizzati nello studio condotto con i topi di laboratorio: anzitutto la microscopia intravitale, una tecnica messa a punto dallo stesso Iannacone che permette di seguire singole cellule in azione in tempo reale. “Così abbiamo scoperto che nell’epatite B cronica i linfociti T funzionano male fin dal loro primo contatto con le cellule infette del fegato.”
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sperimentazione animale epatite B petizione
Inoltre, attraverso l’analisi dell’espressione genica di questi linfociti, messi a confronto con linfociti T CD8 ancora bene funzionanti, i ricercatori sono riusciti a tracciare un identikit molecolare molto dettagliato della loro alterazione. Identikit che, tra l’altro, si è rivelato diverso rispetto a quello dei linfociti T inefficienti nel combattere infezioni di altri virus o di tumori: in sostanza ogni agente infettivo o malattia induce una inefficienza del sistema immunitario specifica e non generalizzabile. Questa scoperta ha anche ovvi riflessi sulla possibile cura, perché ciò che funziona in un caso potrebbe non funzionare in un altro.
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Passare alla cura Matteo Iannacone e i suoi collaboratori hanno cominciato a testare una serie di molecole per individuare quale possa essere in grado di risvegliare i linfociti T CD8 inefficienti, interferendo con le vie molecolari associate alla disfunzione. “Siamo solo all’inizio, ma abbiamo scoperto che molecole già usate per il trattamento di alcuni tumori, come gli inibitori dei checkpoint immunitari, non sono efficaci nel contesto
L’obiettivo è risvegliare i linfociti T inefficienti
UNA PETIZIONE PER SALVARE LA RICERCA BIOMEDICA ITALIANA
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reoccupati per l’avvicinarsi della scadenza della moratoria concessa ai ricercatori italiani per continuare a usare la sperimentazione animale, sempre e solo nei casi in cui è strettamente necessaria, il consorzio di enti di ricerca, charity e università Research4Life (di cui Fondazione AIRC è membro) ha lanciato una petizione per chiedere “al presidente del Consiglio dei ministri, al ministro della salute, al ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca e al Parlamento tutto di adottare ogni iniziativa utile per permettere al nostro Paese di adeguarsi alla normativa europea in tema di sperimentazione animale (Direttiva 63/2010), per un maggiore equilibrio tra le esigenze della ricerca scientifica e quelle della protezione degli animali”. La Direttiva europea (nata da un lungo lavoro di mediazione tra istituzioni scientifiche, politiche e associazioni animaliste) è stata infatti recepita in Italia con il Decreto legislativo 26/2014 aggiungendo
dell’epatite B cronica, diversamente da una molecola, chiamata interleuchina 2, che si è rivelata in grado di riattivare il sistema immunitario contro il virus sia nei topi sia in colture cellulari umane” conclude il ricercatore che sta portando avanti la sua ipotesi. Anche la fase di individuazione di una possibile terapia avrà bisogno del modello animale, perché solo la presenza di un organismo completo consente di effettuare i test necessari e di verificare l’efficacia di una possibile cura, nonché l’assenza di fenomeni tossici.
”
restrizioni che non sono previste nel testo originale e che metterebbero in seria difficoltà la ricerca biomedica italiana. Anche i precedenti governi si sono accorti delle difficoltà introdotte dalla normativa italiana e hanno concesso una moratoria (ovvero un periodo di sospensione dell’applicazione della legge) che scade però all’inizio del 2020. “Il progresso della ricerca biomedica per trovare rimedi alle malattie, nuovi farmaci e vaccini, nonché per fornire le basi del sapere medico e veterinario richiede, in molti ambiti, di ricorrere alla sperimentazione animale” recita la petizione. “Ben 97 su 109 premi Nobel per la medicina e la fisiologia (e tutti quelli degli ultimi 30 anni) sono stati assegnati per scoperte che hanno richiesto l’impiego di animali. […] Inoltre, la sperimentazione animale ha reso possibili progressi medici rivoluzionari come gli antibiotici, i trapianti d’organo, la terapia di malattie come diabete, il Parkinson, la depressione, le paralisi da lesioni
spinali, patologie cardio-vascolari e molte altre. […] Infine, è indispensabile che tutti i nuovi farmaci siano testati su modelli animali prima che sull’uomo, affinché soltanto quelli risultati più sicuri e promettenti possano essere sperimentati sui pazienti.” Il testo completo della petizione (alla quale si può ancora aderire firmando online) è disponibile all’indirizzo https://www.research4life. it/salviamo-la-ricerca-biomedicaitaliana/
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IFOM – ISTITUTO FIRC DI ONCOLOGIA MOLECOLARE Silvia Marsoni
Designer speciali per l’oncologia di precisione Nell’era della medicina di precisione e dei farmaci intelligenti, servono una nuova mentalità e un cambiamento culturale per trasformare protocolli in uso da oltre 50 anni e disegnare studi preclinici e clinici di successo
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a cura di CRISTINA FERRARIO a conoscenza profonda della malattia, dei meccanismi che la sostengono e delle sue interazioni con l’ambiente che la circonda sono le fondamenta sulle quali costruire qualsiasi studio – traslazionale o clinico – che abbia l’ambizione di portare a risultati importanti nella cura del cancro. Ne è convinta Silvia Marsoni, medico di formazione con una specializzazione in farmacologia clinica, che oggi dirige l’Unità di oncologia di precisione presso l’IFOM di Milano, fornendo un supporto ai ricercatori che si occupano di ricerca di base per far arrivare i loro progetti fino al letto del paziente. L’obiettivo della medicina
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di precisione è offrire i trattamenti più efficaci al momento giusto alla persona giusta. Ma per la ricercatrice milanese è anche la strada verso una reale comprensione della malattia, che vada oltre la scoperta del singolo bersaglio molecolare. “In un certo senso l’oncologia di precisione è come un giocoliere che deve far roteare diverse palline senza lasciarle cadere” dice Marsoni. “Solo allargando lo sguardo per valutare e tenere in equilibrio diversi aspetti della malattia – le palline del giocoliere – si può sperare in un risultato concreto e utile per il paziente” spiega la ricercatrice, una moderna designer di protocolli di ricerca. MEDICINA COMPLESSA Quella che oggi chiamiamo oncologia di precisione nasce a cavallo del secolo quando, per la prima volta, si osservò nella leucemia mieloide cronica l’effetto di imatinib, un farmaco capace di
In questo articolo:
oncologia di precisione sperimentazioni cliniche farmaci
bloccare una specifica anomalia del DNA presente nei pazienti, garantendo una enorme specificità d’azione e una tossicità molto bassa. “Purtroppo ci siamo dovuti presto rendere conto che il caso di imatinib era l’eccezione e non la regola” spiega Marsoni. Infatti, il bersaglio molecolare del farmaco, ovvero la traslocazione BCR-ABL, non è normalmente presente nelle cellule sane, mentre la maggior parte degli altri bersagli oggi identificati per le terapie intelligenti (molecole come EGFR o RAS) sono presenti anche nella cellula normale e vengono utilizzati dal tumore in modo “perverso”. Colpire questi bersagli senza fare danni non è quindi così semplice. “Non dimentichiamoci che il tumore si evolve col passare del tempo e per effetto delle terapie, per cui fare un’analisi molecolare, seppur precisa, non basta. Si scatta una fotografia, ma a noi serve lavorare in cinematografia, per osservare i cambiamenti nel corso del tempo” aggiunge l’esperta, che cita l’eterogeneità
del tumore e i diversi meccanismi coinvolti nella malattia tra i fattori che rendono particolarmente complessa la medicina di precisione. UNIRE I PUNTINI Disegnare uno studio oggi significa tener conto di queste premesse, affinché il protocollo finale abbia tutte le componenti necessarie a spiegare i risultati osservati nel corso della ricerca. L’approccio deve essere multidisciplinare, perché solo con un gruppo di esperti in vari settori è possibile avere una visione più completa dei diversi aspetti della malattia. Si tratta di “unire i puntini” per svelare il disegno finale. “Mi preme sottolineare che il punto di partenza di uno studio deve sempre essere la clinica: si parte cioè da una domanda ben precisa, una di quelle che gli inglesi chiamano unmet need, ovvero una importante necessità non soddisfatta” spiega Marsoni, che si definisce anche “traduttrice”, impegnata a fare da interprete
tra i clinici e i ricercatori che si occupano di ricerca di base e traslazionale. “La comunicazione è fondamentale per comprendere come oggi la ricerca faccia un percorso circolare che parte dalla clinica e in clinica ritorna, per il bene del paziente, passando dal laboratorio” aggiunge. Una circolarità che è anche temporale: al disegno di uno studio preclinico, infatti, si accompagna quasi sempre quello di uno studio clinico. “Anche per questo è importante che i ricercatori traslazionali capiscano che è necessario usare i giusti modelli e trattamenti poi attuabili anche nell’uomo” spiega l’esperta.
Informazioni preziose sulla storia della malattia
UNA DISPENSA DI INFORMAZIONI Ma quali sono i giusti modelli per uno studio di medicina di precisione? Secondo Marsoni i pazienti stessi devono essere alla base delle ricerche, e anche da questa idea ha preso il via la Piattaforma alfa omega, una vera e pro-
pria banca di campioni biologici e di informazioni su pazienti con tumore del colonretto, che permette di seguire l’evoluzione della malattia nel tempo da diversi punti di vista. Si raccolgono campioni di sangue in diversi momenti, biopsie del tumore, immagini radiologiche che si collegano a informazioni di tipo clinico. “Questo materiale viene raccolto secondo protocolli ben specificati e comuni a tutti i centri che partecipano al progetto e ci permettono di avere a disposizione, in caso servissero, preziose informazioni sulla storia della malattia” precisa l’esperta, ricordando che all’interno del progetto c’è spazio anche per modifiche, legate per esempio alle evoluzioni tecnologiche. Su questa piattaforma si sono già inseriti numerosi studi che guardano agli aspetti molecolari del tumore (genomica, proteomica eccetera), alle caratteristiche immunitarie e al microbioma. “Fondamentale è il coinvolgimento dei pazienti, che oggi, anche grazie ad app e nuove tecnologie, può essere davvero completo e profondo” spiega Marsoni. “Fare medicina di precisione non significa creare un farmaco per un bersaglio, ma significa piuttosto disegnare un vestito su misura, qualunque esso sia (chirurgia, terapia molecolare o altro), per il tumore del paziente e per l’interazione del paziente con il suo tumore.”
IFOM, l’Istituto di oncologia molecolare che svolge attività scientifica d’avanguardia a beneficio dei pazienti oncologici, è sostenuto dalla FIRC.
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EPIDEMIOLOGIA Cause di mortalità
In questo articolo:
I numeri del cancro nel mondo stanno cambiando
Dimmi in che paese vivi…
numeri del cancro malattie cardiovascolari accesso alle cure
Per la prima volta nei Paesi ricchi i tumori superano le malattie cardiovascolari nella classifica delle più comuni cause di mortalità, ma i numeri italiani raccontano una storia diversa
L
a cura di CRISTINA FERRARIO e malattie cardiovascolari rappresentano ancora oggi la prima causa di morte a livello mondiale e l’Italia non fa eccezione, ma guardando un po’ più in dettaglio i dati disponibili si nota che in alcuni Paesi e in alcune fasce di età si muore di più a causa dei tumori che per le patologie di cuore e vasi. In realtà, i più recenti dati italiani sui numeri del cancro, presenta-
“
In Italia funziona l’accesso alle cure
I NUMERI (POSITIVI) DEL CANCRO IN ITALIA
I
ti al Ministero della salute a fine settembre, possono sembrare a prima vista in controtendenza. Da diversi anni infatti i decessi legati ai tumori stanno diminuendo in maniera significativa, sia per gli uomini sia per le donne, e nel 2016 (ultimo anno disponibile) sono stati poco meno di 180.000. Come sempre però è importante leggere e interpretare in modo corretto i risultati degli studi per evitare di cadere in facili entusiasmi o in inutili preoccupazioni.
”
l rapporto I numeri del cancro, frutto della collaborazione tra diverse società scientifiche e gruppi italiani, tra i quali l’Associazione italiana di oncologia medica (AIOM), non parla
solo di mortalità, ma ci dice anche che in Italia si sopravvive sempre più a lungo al cancro. Sono infatti 3,5 milioni le persone che vivono dopo la malattia. Almeno un paziente su quattro (quasi un milione di persone) può considerarsi guarito: 5 anni dopo la diagnosi il 63 per cento delle donne e il 54 per cento degli uomini è ancora vivo, con picchi del 61 per cento per gli uomini in Valle d’Aosta e del 65 per cento per le donne in Toscana ed Emilia Romagna.
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La salute non è uguale in tutto il mondo. Non è certo una novità, ma i risultati dello studio PURE, recentemente pubblicati sulla rivista Lancet, evidenziano come le malattie maggiormente responsabili dei decessi variano anche a seconda del reddito del Paese. Se nei Paesi più poveri le malattie cardiovascolari rimangono i “big killer”, in quelli a reddito elevato sono i tumori a detenere il primato di malattia più letale. Gli autori della ricerca hanno analizzato i dati di oltre 162.000 persone di età compresa tra 35 e 70 anni provenienti da 12 Paesi nei 5 continenti (l’Italia non era compresa) e sono giunti alla conclusione che nelle nazioni a reddito alto i decessi legati ai tumori sono 2,5 volte più frequenti rispetto a quelli legati a problemi cardiovascolari. Di contro, nei Paesi più poveri i numeri si invertono e il numero di decessi cardiovascolari è il triplo rispetto al numero dei decessi per motivi oncologici. Del resto il “sorpasso” dei tumori come causa di morte era già stato segnalato dagli esperti dell’Institute for Health Metrics and Evaluation (IHME) che coordinano regolarmente la preparazione dello studio Global Burden of Disease (GBD). Secondo i loro dati, infatti, nel 2017 la principale causa di decesso nei Paesi più ricchi, e tra la popolazione adulta
3,5 milioni
tra i 50 e i 69 anni, era rappresentata proprio dai tumori.
Transizioni epidemiologiche
“Questi dati devono essere interpretati con cautela e non è detto che sia possibile generalizzarli a tutti i Paesi” spiegano gli autori dell’articolo sopracitato, ricordando la necessità di allargare il numero di nazioni analizzate e di confermare i risultati in contesti più ampi. Una volta presa coscienza di questi limiti è però fondamentale comprendere l’importanza generale di questo grande cambiamento a livello di epidemiologia sanitaria, la disciplina che studia come le malattie sono distribuite e con quale frequenza si presentano. Conoscere le differenze e i numeri delle diverse malattie è infatti necessario per capire meglio come agire per migliorare la salute di tutti. Negli ultimi anni abbiamo assistito a diverse importanti transizioni che hanno contribuito a determinare lo scenario attuale, nel quale i tumori sono le malattie più letali in alcuni Paesi. Il primo grande cambiamento ha riguardato le malattie infettive, per le quali oggi si muore molto meno che in passato; in seguito si è osservato un grande sforzo per conoscere e prevenire le malattie cardiovascolari che ha portato come conse-
54 Tasso di sopravvivenza guenza finale anche a una riduin Italia 5 anni dopo zione dei decessi la diagnosi di cancro a esse collegati. “I nostri risultati sembrano indicare una nuova transizione epidemiologica in corso, che sta spostando gli equilibri tra le malattie non infettive come patologie cardiovascolari e tumori” precisano gli autori della ricerca pubblicata su Lancet.
Cause, effetti e rimedi Perché nei Paesi ricchi si muore più frequentemente di cancro che di malattie cardiovascolari, mentre in quelli poveri la situazione è capovolta? Sono tanti i fattori coinvolti, ma senza dubbio gli strumenti di prevenzione e la possibilità di curarsi – il cosiddetto accesso alle cure – giocano un ruolo di primo piano. Nei Paesi ricchi, infatti, le malattie cardiovascolari hanno ormai pochi segreti per i medici e da molti anni vengono messe in campo strategie di prevenzione, di screening e di cura molto efficaci. Queste stesse strategie non sono
63 così diffuse nei Paesi più poveri dove, di conseguenza, si muore ancora di patologie più facilmente curabili in altri contesti. Per i tumori la situazione è un po’ diversa, soprattutto perché, sotto certi aspetti, alcune tipologie di cancro e i fattori di rischio che le determinano sono ancora poco noti. Ridurre la mortalità legata ai tumori però non è un miraggio, e in molti casi è già realtà: grazie a trattamenti sempre più efficaci, per esempio, alcuni tumori un tempo incurabili oggi fanno molta meno paura, mentre gli screening hanno contribuito alla diagnosi della malattia nelle sue fasi più iniziali, quando è più probabile che la cura abbia successo. E non dimentichiamo gli stili di vita, che possono influenzare la mortalità legata al tumore. Nella popolazione italiana in particolare, circa il 40 per cento dei decessi oncologici è legato proprio a fattori sui quali possiamo agire ogni giorno, come fumo, alcol, dieta e attività fisica.
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RACCOLTA FONDI Eventi e partnership aziende
AIRC tinge l’Italia di rosa
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a cura della REDAZIONE irenze, Bologna, Torino, Cosenza, Angera, Crotone, Pordenone, Trebisacce, Montesilvano… centinaia di comuni grandi e piccoli, da Nord a Sud si sono tinti di rosa grazie alla partnership fra AIRC e ANCI, Associazione nazionale Comuni italiani. Un’iniziativa che ha avuto il via con Ponte Vecchio a Firenze, illuminato insieme a The Estée Lauder
Companies Italia, main partner della Campagna Nastro Rosa AIRC. Un gesto simbolico di grande effetto, che si ripete da 27 anni, per ricordare l’importanza della prevenzione e sostenere la ricerca sul cancro al seno. AIRC è sempre più presente su tutto il territorio nazionale anche con iniziative di sensibilizzazione e raccolta fondi nelle farmacie italiane, e con l’organizzazione per tutto il mese di ottobre di eventi sportivi e di
PER I VOSTRI REGALI DI NATALE
Su airc.it, per i vostri regali di Natale, si possono ancora trovare i prodotti esclusivi Nastro Rosa: tazze, grembiuli da cucina e magliette Pinked-up, una macchia rosa per tingersi simbolicamente di rosa e sostenere la ricerca sul tumore al seno.
intrattenimento, dalla Venice Marathon alla corsa Run for AIRC a Forte dei Marmi, fino alle regate dell’equipaggio delle Falchette. I campioni e lo staff tecnico dell’Olimpia Milano invece, in occasione della partita di Lega Basket Serie A contro il Brindisi, hanno colorato il Forum di Assago scendendo in campo con un’inedita t-shirt di colore rosa per coinvolgere gli appassionati a sostenere i ricercatori AIRC.
Nelle foto, in alto: Ponte Vecchio a Firenze; in basso: la Woman’s sailing academy in occasione del 15° raduno Vele Storiche Viareggio, il lungofiume di Cosenza, la Mole Antonelliana a Torino; alla pagina a fianco, in basso: la rocca di Angera, partecipanti alla Run for AIRC, la squadra dell’Olimpia Milano, il Palazzo del Podestà a Bologna
L’OLIO CHE FA DOPPIAMENTE BENE
Una partnership all’insegna della salute, quella tra Italia Olivicola e AIRC, con l’obiettivo di finanziare la ricerca oncologica e diffondere informazioni sul protagonista della dieta mediterranea: l’olio extravergine di oliva. Ricco di acido oleico, una sostanza in grado di regolare la proliferazione cellulare, l’olio EVO consumato quotidianamente ripristina la fisiologia intestinale, riduce l’infiammazione e protegge dalla formazione dei tumori. La scoperta è del gruppo di ricerca di Antonio Moschetta dell’Università degli Studi di Bari, grazie a uno studio sostenuto da AIRC. La collaborazione con Italia Olivicola vedrà la realizzazione di iniziative presso le scuole e le cooperative di produttori locali, con l’obiettivo di favorire una corretta conoscenza su uno dei prodotti alimentari più utilizzati dalle famiglie italiane. Attraverso il sito airc.it è già possibile scegliere la bottiglia di olio EVO Terre Del Sole 100 per cento italiano come regalo di Natale, una scelta di grande valore a favore della ricerca oncologica.
LA MIGLIORE IMPRENDITORIA ITALIANA, UNITA IN UNA GRANDE IMPRESA: IFOM.
Il progetto “Impresa contro il cancro” sostiene IFOM – Istituto FIRC di Oncologia Molecolare, dove centinaia di ricercatori stanno affrontando la più grande sfida della nostra epoca: quella contro il cancro. Per vincerla è fondamentale che tutti i protagonisti della società civile uniscano le forze, a partire dagli imprenditori, che con la loro energia e il loro coraggio sono il cuore pulsante del nostro Paese. Sostenere IFOM significa sostenere l’eccellenza di un centro d’avanguardia, nel quale lavorano 263 giovani ricercatori di 20 nazionalità diverse, e investire sulla conoscenza, il primo strumento di cura per comprendere i meccanismi fisiologici e patologici che possono indurre la nascita e lo sviluppo dei tumori. Per informazioni e per aderire al progetto: impresacontroilcancro@airc.it oppure 800.777.222
BANCO BPM E AIRC, IL VALORE DI UN INCONTRO!
La partnership con Banco BPM è per AIRC un’iniezione di fiducia, oltre che di sostegno concreto alla Ricerca oncologica. In meno di un anno dalla sottoscrizione dell’accordo la Banca ha messo in campo molte e diverse attività, registrando una entusiastica partecipazione di tutta la rete. In occasione dei Giorni della Ricerca, la straordinaria mobilitazione dei dipendenti di Banco BPM ha permesso di distribuire circa 67.000 scatole di Cioccolatini della Ricerca in oltre 1700 filiali e di facilitare l’opportunità di donare, attraverso gli strumenti Banco BPM come l’Home Banking e gli sportelli Bancomat. Inoltre come “Partner Istituzionale AIRC” anche nella divulgazione scientifica, Banco BPM ha coinvolto il suo territorio con un ciclo di conferenze scientifiche, supportando la nostra fondazione nella realizzazione di grandi spettacoli teatrali e charity dinner di raccolta fondi.
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IL MICROSCOPIO
Federico Caligaris Cappio Direttore scientifico AIRC
L’immunoterapia del cancro tra scienza e legge
ATTENTI ALLE TRUFFE AIRC non effettua la raccolta fondi “porta a porta”, con incaricati che vanno di casa in casa. Nel caso dovesse succedere, stanno tentando di truffarvi. Denunciate subito la truffa chiamando il numero unico per le emergenze 112.
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nsegnare al sistema immunitario a riconoscere ed eliminare le cellule tumorali: questo è il ruolo dell’immunoterapia del cancro che, negli anni recenti, ha offerto nuove concrete opportunità per la terapia di numerosi tipi di tumore. Come riesce il sistema immunitario a distinguere le cellule sane da quelle anomale e quali sono i meccanismi utilizzati dalle cellule tumorali per non essere scoperte? Il sistema impiega specifici meccanismi molecolari che funzionano da veri e propri posti di blocco (in gergo checkpoint), che le cellule normali superano indenni, mentre quelle anomale vengono riconosciute e distrutte. Il problema è che le cellule tumorali sviluppano astute strategie per rendersi invisibili ai checkpoint e crescere come se questi non esistessero. La scoperta dei checkpoint ha portato alla assegnazione del premio Nobel per la medicina 2018 agli scienziati James Allison e Tasuku Honjo (vedi Microscopio gennaio 2019) e ha permesso di realizzare nuovi farmaci, gli inibitori dei checkpoint che, forzando il blocco, permettono di attivare il sistema immunitario in senso anti-tumorale. Purtroppo nessun progresso è assoluto e valido in tutti i casi: alcuni tumori, come il melanoma, rispondono particolarmente bene al trattamento con questi farmaci, altri rispondono modestamente, altri ancora non rispondono affatto. Un recente articolo pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature dimostra le ragioni scientifiche di questa variabilità. Il lavoro parte dal concetto che alcune cellule del sistema immunitario – i macrofagi – quando incontrano
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una cellula tumorale la riconoscono e la inglobano, letteralmente divorandola. Le cellule tumorali possono però lanciare segnali che dicono ai macrofagi “Non mi mangiare!” in modo da crescere indisturbate. L’articolo di Nature dimostra l’esistenza di una nuova famiglia di checkpoint che sfruttano il segnale “Non mi mangiare!” e sono operativi in tumori che non rispondono alla maggior parte delle terapie, come il tumore mammario triplo negativo e il carcinoma ovarico. La scoperta spiega perché la risposta clinica ai classici inibitori dei checkpoint è variabile e dimostra che i checkpoint sono un complesso mosaico di molecole usate in modo eterogeneo da tumori diversi con il fine comune di proteggersi dal sistema immunitario. Non esiste ancora un’applicazione clinica di questa scoperta, ma essa pone le basi per sviluppare nuovi farmaci allo scopo di trattare tumori attualmente difficili da curare. Accanto ai nuovi dati scientifici, nelle ultime settimane si è registrata in Italia un’importante evoluzione normativa in favore dell’immunoterapia. L’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) ha dato il via libera alla rimborsabilità del primo trattamento a base di cellule CAR-T (Chimeric Antigen Receptor T-cell) disponibile in Italia. Le cellule CAR-T (vedi Microscopio Dicembre 2018) sono un’immunoterapia di ultimissima generazione che potrà essere prescritta, presso i centri specialistici selezionati dalle Regioni secondo le indicazioni approvate dall’agenzia Europea per i medicinali (EMA), a pazienti con specifiche neoplasie ematologiche resistenti a ogni altra terapia.
Si ringrazia Loretta Goggi per la sua testimonianza.
Foto: Gianmarco Chieregato
AIUTACI A CANCELLARE IL CANCRO.
LASCIA IL TUO SEGNO. CI SONO GESTI CHE LASCIANO UN SEGNO, PERCHÉ RENDONO IL CANCRO SEMPRE PIÙ CURABILE. COME UN LASCITO A FAVORE DELLA FONDAZIONE AIRC. Un lascito testamentario a Fondazione AIRC è una scelta concreta che cambia le cose, facendo progredire la ricerca sul cancro. Finora la scienza ha fatto enormi passi avanti, ma il tuo gesto porterà a nuove scoperte. Così lascerai un segno incancellabile, perché i futuri traguardi della ricerca saranno anche merito tuo.
PER SAPERE COME FARE IL TUO LASCITO, CONTATTACI SUBITO:
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N O C O N G E S L I A I C S LA I NOSTRI REGALI!
Le nostre idee natalizie sono molto piĂš di un semplice pensiero, perchĂŠ aiutano i ricercatori impegnati contro i tumori pediatrici a colorare di speranza il futuro di tanti bambini.
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