Il Rasoio di Occam ed altre storie profetiche

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Il Rasoio di Occam ed altre storie profetiche

qualche riflessione e sedici racconti di

Guglielmo Poccardi


MUSICA!

Orbo era Re dei Ciechi. La sua, tuttavia, era la vita regale più noiosa e triste fra tutte. Niente cinema né libri né album di fotografie, con tanto di bei ricordi intrappolati al volo su carta Kodak. Non c'era proprio nessuno con cui discutere del colore d'un pomodoro maturo, oppure delle striature d'un tramonto autunnale che incendia le nubi, laggiù sull'oceano. Nessuno a cui scrivere in bello stile una lettera d'amore e nemmeno un fumetto pornografico da sfogliare sulla tazza del cesso. Orbo vedeva un mondo piatto e senza prospettiva attraverso il suo unico occhio funzionante, ma non c'era confronto con quel suo popolo di strane talpe, sempre intento a brancolare a tentoni, simile ad un via vai di gentili zombi pieni di indaffarate premure. E Orbo piangeva spesso dal suo occhio buono, finendo spesso per non vederci più niente pure lui, finché arrivava a liberarlo la sempliciotta ironia del dirsi fra sé "massì, chiudiamo un occhio, per questa volta...". Ma non ne rideva. Poi tornavano le spine e i crucci: cosa potevano sognare i suoi sudditi? Che razza di forme astratte e incolori possono popolare i sonni di chi non ha mai conosciuto luce o colore? Qualche volta si ritirava davanti all'unico specchio di tutto il Regno, sapendo che nessuno avrebbe mai potuto dirgli se lo trovava bello oppure brutto, concetti ignoti al suo popolo. E alla fine non ne poté più. Una sera d'ottobre, seduto sulla sdraio sotto la veranda inghirlandata da fronde ormai rossastre, si spense la Marlboro nell'occhio buono. Non provò alcun dolore. Come quando si spegne 38


la TV dopo un film barboso. D'un tratto si sentì finalmente Uguale, come i suoi sudditi fedeli e operosi. Si sentì proprio uno di loro. Seppe che anche il ricordo delle forme e delle tinte avrebbe prima o poi finito per sbiadire, evaporando un po' per volta come l’acqua di uno stagno inutile incalzata dal sole d'agosto. Lanciò con un sorriso l'inutile, invisibile corona d'oro e gemme nella discarica comunale, ascoltandola rimbalzare fra scaldabagno arrugginiti e vecchi barattoli di fagioli formato famiglia. Annunciò al popolo, radunato nella piazza del Reame, la fine della sua monarchia. La gente fu felice di accoglierlo, perché sempre lo aveva amato da sovrano ed ancor più ora, da Uguale, apparve a tutti il migliore fra loro. Perché aveva scelto l'uguaglianza di sua volontà. Così, come premio straordinario all'ex-Re Orbo e al suo sereno popolo di Ciechi, il Gran Mago Merlino fece un dono senza precedenti: la Musica. Per la prima volta vibrarono nell'aria del limpido autunno armoniche intrecciate fra loro e nacquero le note e da esse gli accordi. In un angolo del cielo, fra i monti, si dissolse nel vento leggero la melodia del primo arcobaleno d'una nuova, entusiasmante stagione. E tutti applaudivano. E ridevano. E poi cantavano. Perché nessuno aveva mai conosciuto colori più belli d'una tavolozza di suoni. Perché, in fin dei conti, se tutti sono ciechi, che motivo c'è di vedere?

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LA SOLUZIONE D’UN ENIGMA

Questa questione di dover entrare in acqua per partorire i figlioletti stava dando un po' in testa a Vera, un Arxetryp in pieno Triassico Medio. Fintanto che la sua specie aveva vissuto in acqua, non c'erano stati problemi. Ma ora, che lo sviluppo degli arti aveva reso gli Arxetryp animali anche terrestri, l'evoluzione li aveva beffati costringendoli a proseguire la loro riproduzione nell'acqua. La bestiola, grande come un'anatra, di fatto un pro-rettile, non avrebbe avuto successo estetico ai giorni nostri, per via dei lunghi bargigli verdi, gli occhi strabuzzati, il becco acuminato e il rigido cespuglio giallo infilzato sul cranio. Vera tribolava in continuazione in mezzo a decine di difficoltà, come tutti i suoi simili. Solo che lei era Vera, sentiva di avere qualcosa in più dell’istinto. A parte la continua necessità di schivare l'attacco dei predatori di terra e d’acqua, la faccenda più grave risultava essere il destino dei suoi piccoli neonati, che venivano regolarmente divorati dalle creature dello stagno: la stessa cosa capitava anche alle altre sue amiche. Di questo passo l'estinzione era dietro l'angolo. Cosa ci potevano fare loro stessi se gli Arxetryp appena partoriti uscivano dalla mamma dentro un pallino di grasso e finivano direttamente in bocca ad abitatori dello stagno già in pole position? Vera aveva a suo modo un certo grado di riflessività e coscienza. Quei tempi erano ben duri. L'aria era pesante e certe volte si poteva sentire un sottofondo sulfureo o ammoniacale. Intorno alla foresta i vulcani non si davano pace e sparavano al cielo bluastro tonnellate di terra e di tizzoni, destinati ad uccidere i margini del bosco, se non ad accendere un vero e proprio 82


incendio. Certo, quella stagione della Terra era quella della pressione ambientale, così molti animaletti e animaloni sparivano via via dalle vicinanze o si dava per scontato che fossero già estinte. Subito dopo crescevano e differenziavano altri animali molto diversi, più scafati per sopravvivere. Il turnover della natura, in quel precoce Triassico, era rapidissimo. Si sceglieva la struttura più robusta e la si faceva andare avanti, quelle meno adatte via via sparivano, come progetti falliti. Nel futuro, gli eventi che a quel tempo potevano anche essere osservati in poche decine di anni, più tardi sarebbero avvenuti in migliaia, milioni di anni, perché le specie sopravvissute erano sempre più robuste e la concorrenza molto aspra. Il problema degli Arxetryp stava per condannare la loro specie alla scomparsa. Non avevano sviluppato un modo di riprodursi che garantisse una sopravvivenza sufficiente dei neonati e quindi il procedere di tutta la specie. Prima stavano tutto il tempo nell'acqua dello stagno e la situazione era già abbastanza compromessa; con l'evolvere del tempo la specie aveva conquistato la terra, ma restava vincolata all'acqua per emettere i nuovi nati. Quindi, in tal senso, non era cambiato alcunché. A Vera, l'idea di essere uno degli ultimi esponenti d'una razza con un passato assai lungo (ricordava generazioni di parenti scampati alle prime fasi di vita) la faceva deprimere orribilmente. Si accoppiava di malumore con il maschio che pareva più robusto, poi, qualche settimana dopo andava a dar da mangiare alle brutte creature dello stagno il frutto del concepimento. In un primo tempo, aveva cercato zone profonde dello stagno, ancora oscure, più deserte possibile: niente, l'odore dei piccoli, ancora rimbambiti nel bozzolo, faceva accorrere frotte di predatori di ogni taglia, rettili, anfibi e soprattutto pesci con i denti seghettati. Pensandoci bene, talora capiva che era parte d'una specie 83


senza futuro, infatti attorno allo stagno saranno stati una decina e in acqua altri 4-5. E altrove non poteva saperlo. Il cibo era ancora spesso rappresentato da piccoli insetti dello stagno o dalla vegetazione galleggiante. Da un po' di tempo gli Arxetryp si erano avventurati per diversi metri lontano dallo stagno, trovando molte altre cose commestibili, variando la dieta e in parte diventando più robusti. Camminavano su due zampe palmate, alle spalle erano attaccati due arti molto piccoli che terminavano con tre dita. Scaglie robuste ricoprivano tutto il corpo, sia per proteggerlo, sia per amplificare il calore del sole, di cui avevano bisogno. Si dondolavano avanti e indietro, a destra e a sinistra, per osservarsi ben bene attorno. C'era da stanare del cibo e stare attenti a certi serpentoni zampati, che potevano saltare fuori dalla terra sabbiosa e farseli in un boccone. Vera pensò e ripensò. Poteva lottare contro la selezione naturale? Poteva far sopravvivere la decina di figlioletti in un luogo sicuro finché divenissero grandi abbastanza? In fin dei conti la sua generazione si era sviluppata, tutto era precipitato dopo la comparsa di lunghi pesci con i denti seghettati, che loro temevano sopra ogni cosa. Probabilmente si trattava della loro nemesi. Vera, girovagando, iniziò a trovare di suo gusto la ghiaia ad est dello stagno. Pietruzze su pietruzze, di vari colori, arrotondate dall'acqua e facilmente ingurgitabili. Non lo aveva mai fatto, ma sentiva una strana attrazione per un po' di ghiaia, anche se priva di gusto. Prese a cibarsi in modo diverso anche fuori dall'acqua, annusando bacche e inflorescenze che avevano un aroma appetitoso. Anzi, in acqua ci andava sempre meno. Preferiva scaldarsi al sole lungo le pietre che circondavano lo stagno a ovest. “Piera è andata in acqua stamattina” le disse Gina “non ne ha salvato uno”. 84


“Eppure le avevo detto come fare: prenderne un paio in bocca e aspettare che quei maledetti si allontanassero” rispose Vera. “Nelle ultime 16 lune si è salvato solo uno dei nostri piccoli, quel Bobbo che è figlio di Rita, sfuggito miracolosamente alla caccia” fece Gina. “Adesso è un bel ragazzo, la madre lo adora, tutte la invidiano”. “Già, c'è bisogno di maschi, quasi tutti i superstiti degli anni scorsi erano femmine” segnalò Vera, un po' sconsolata. Il tempo passava. Vera attirò l'attenzione di un grosso Arxetryp maschio, grandi muscoli e testa piccola. Meglio che niente. Lo vide fare il balletto rituale con le scaglie sollevate attorno al collo e con la lingua fuori dal becco. Lo trovò carino. In men che non si dica, passarono all'amplesso doloroso con il quale avveniva la fecondazione. Talmente doloroso che un maschio faceva passare un anno tra un accoppiamento e l'altro. Vera prese la cosa con rassegnazione, aspettando la tipica sensazione addominale attraverso la quale l’istinto le suggeriva di andare nello stagno. Intanto mangiava le strane cose di cui era diventata ghiotta e si riposava al sole, con un occhio chiuso ed uno aperto, come sempre. Anche se non aveva mai fatto caso a cosa disperdesse quotidianamente dalla sua cloaca, era stupita che tutta quella ghiaia ingurgitata non uscisse dalle sue interiora, quasi l'avesse digerita sul serio. Il tempo passava e invece di arrivare il momento del parto, cominciarono sensazioni molto strane nel suo addome, quasi fosse occupato da qualcosa. “Ecco dov'è finita la ghiaia!” pensò Vera. “Adesso morirò con la cloaca bloccata”. Ma non moriva e la cloaca funzionava. Però il fastidio continuava. L'epoca giusta per lo stagno e per il parto sembrava ormai superata di brutto. Fosse lei l'ultima della sua specie? Sterile, come le femmine destinate all'estinzione. Ahi! Un dolore acuto di schiena, poi di pancia e giù 85


fino all'imbocco della cloaca. Poi nulla. Di certo si era ammalata. Se ora, oltre a tutti i problemi della sua specie, si diffondeva anche un'epidemia, tombola! Si sentiva gonfia e pesante, si trascinava. Non aveva più fame e non ce la faceva a rilassarsi al sole. Se un serpentone se la pigliava con lei, non avrebbe manco tentato di fuggire. Camminava lentamente, tutte le amiche la guardavano, tenendosi un po' in disparte per timore d'una malattia contagiosa. Era isolata. L'addome era quasi una palla, ma la cosa peggiore era il bruciore che sentiva scendere giù verso la cloaca, giorno dopo giorno. Pensava di sperimentare la più orribile delle morti, meglio finire fra i denti d'un predatore! Così, svegliandosi dopo pochi momenti di sonno, al defluire della notte, iniziò a camminare con prudenza. Già ai primi passi, il bruciore parve esploderle di sotto. Ormai era insopportabile. La colse un invito naturale a spingere, spingere, spin... plop! Plop! Plop! Plop! Di colpo tutto il dolore era sparito magicamente. Si voltò e vide quattro palline bianche, non proprio perfette, ma discretamente rotonde. Ebbe un capogiro. Cosa voleva dire? Il significato lo venne a scoprire nel volgere di qualche ora, mentre tutte le sue amiche (e anche un paio di maschi) se ne stavano a guardare in cerchio le quattro cose bianche uscite da Vera. Anche lei guardava e si sentiva molto bene. Una grossa novità? Non pareva una malattia. La prima crepa su una pallina fece uscire una colata di liquido. Poi iniziarono a creparsi tutte in breve. Attorno era bagnato, ma l'attenzione era attirata da cosa emergeva fra le pareti di quelle palline: quattro mini-mini-Arxetryp, bagnati e gocciolanti, con gli occhi ancora chiusi da membrane, eppure già dritti sulle piccolissime zampe palmate. Che miracolo! Vera aveva partorito dei figli sulla terra. Il trucco era stato quello di creare attorno a ciascuno di loro un 86


contenitore d'acqua, che li faceva sopravvivere fino alla maturazione, come fossero rimasti nello stagno. I piccoli, di quei tempi, non restavano inetti a lungo. Vera si abituò a camminare con il piccolo seguito di figli in fase di crescita. Due maschi e due femmine. Ottimo. Le amiche di Vera si misero di buzzo buono a ingozzarsi di ghiaia, che evidentemente era importantissima nella costruzione delle palline. In senso lato Vera giunse alla conclusione che il nome più adatto era “uova”, visto che già diversi rettili usavano questo curioso stratagemma. Purtroppo la mutazione genetica acquisita da Vera si mostrò presente in sole altre 4 compagne. In quei tempi i raggi cosmici e le radiazioni solari elettromagnetiche impazzavano sul pianeta e colpendo gli esseri viventi provocavano danni del loro DNA, mutazioni più o meno puntiformi. Talora danni mortali che conducevano alla fine di una specie o di un individuo; più raramente i danni scompaginavano i geni e ne sortiva una mutazione favorevole alla specie. Vera e le sue amiche Gina, Pappa, Fusi, Giusi erano un esempio di quest’ultima. La mutazione sarebbe stata trasmessa alle generazioni successive, mentre le femmine non toccate dalla mutazione avrebbero avuto una progenie ridotta al lumicino e probabilmente erano destinate ad estinguersi. Alcune delle femmine meno fortunate, si provocarono danni intestinali con la ghiaia, poi proseguirono con i parti nello stagno. Le femmine del gruppo di Vera, invece, ebbero molte gravidanze a terra, con piccoli sviluppati dentro alle uova e sorvegliati a vista da tutto il gruppo. Questi crescevano, diventavano adulti con perdite molto limitate (non dimentichiamo che anche sulla terra i predatori si davano da fare). La specie Arxetryp non si estinse. Con altre mutazioni scaglionate nelle lunghe ere geologiche, fece da precursore ai Teropodi celurosauri, nel lungo periodo dominato in terra dai dino87


sauri. Queste specie giunsero sino alla fine del Cretaceo, quando avvenne la grande estinzione di massa di quasi il 70% delle specie terresti e marine. I discendenti di Arxetryp diedero pian piano origine al Caudipteryx, poi al Cryptovolans esibendo le piume e le penne come il famoso Arhaeopteryx. Questi lontani parenti superstiti della specie Arxetryp proseguirono il loro cammino fra le ere geologiche giungendo sino a noi, dopo quasi 200 milioni di anni. Si pensi che una sequenza di DNA di Arxetryp è ben rintracciabile nel genoma dell’attuale Gallus gallus domesticus, cioè di galli e galline. La storia di Vera non è solo un esempio delle tante evoluzioni faunistiche attraverso i milioni di anni delle lunghe ere geologiche, ma è anche la risposta ad un quesito umano ripetuto per secoli come esempio di impossibilità: viene prima l’uovo o la gallina? Vera ci dice che viene prima la gallina e su questo non ci sono dubbi.

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LE URLA

Un’Increspatura dello spazio-tempo non è percepibile se non ci si trova dentro. Queste zone non hanno riflesso sul loro esterno, non strappano il continuum, restano dove sono. Tutto quello che la Fisica ha conquistato da Newton ad Einstein, da Planck a Bohr, diventa palpabile come sabbia perdendo i connotati cui l’umanità è ormai abituata fin dalla sua presa di coscienza. Qui i rapporti spazio-temporali si possono accartocciare e ridispiegarsi senza una via di uscita. I concetti fondamentali della Fisica Classica, della Relatività Generale e della Meccanica Quantistica è come se perdessero gran parte dei loro significati, mescolandosi tra loro e con altri concetti fisici che non appartengono ancora alle conoscenze della nostra specie. L’Increspatura era ipotizzabile come fenomeno relativistico, ma puramente teorico. Il tessuto dell’universo, confinato in una zona molto piccola, perde i connotati dei rapporti fra spazio e tempo. Non vi sono regole prevedibili, né conseguenze, che possono passare dal nulla al tutto. Ogni fenomenologia può seguire evoluzioni bizzarre o terrificanti, del tutto in contrasto con l’esperienza umana comune e scientifica. Fra tutte le sorprese dell’universo, questa è decisamente oltre le capacità umane di comprensione e di controllo, nella remotissima ipotesi che il nostro sistema solare, o parte di esso, si trovasse ingabbiato in una bolla increspata di spazio-tempo. Talmente è remoto pensare ad una Increspatura dello spazio-tempo, che diviene impossibile immaginare di poterne diventare preda. Per questo ci volle tempo a interpretare le progressive anomalie evidenziate dagli acceleratori di particelle di tutto il pia127


neta. Erano solo avvisaglie ancora misurabili dello sfilacciamento della trama verso il quale si stava andando. Le notizie, in termini scientifici, erano talmente inesplicabili che ci furono videoconferenze mondiali del tutto segrete, per tentare di spiegare cosa potesse stare accadendo. I maggiori conoscitori della micro e macro Fisica non avevano neppure riscontri analoghi sui loro sistemi di verifica sperimentale. Fu ad un certo punto che il Prof. Hastings del MIT cedette le armi del razionale per suggerire che “forse stiamo lambendo un’Increspatura”. Prove dirette non potevano essercene. Nessun sistema sperimentale poteva adattarsi ad una sorta di caos, che aveva dato le sue evidenze con anomalie delle particelle ad alta e bassa energia. Ed era già straordinario che nulla stesse ancora turbando i consueti meccanismi fisici macroscopici della Terra. Le Autorità, invero senza afferrare il significato della situazione straordinaria, furono però tutte d’accordo sul tenere la bocca ben chiusa e non far trapelare quanto stava accadendo, anche perché in effetti non lo si poteva neppure prevedere o spiegare. Ci si preparò a dare risposte alle più assurde o clamorose domande che la popolazione avrebbe potuto avanzare ai sistemi di sicurezza. Però tempo non ce ne sarebbe stato ancora molto, non si poteva organizzare qualcosa prescindendo dal conoscere l’oggetto del pericolo. Quando le comunicazioni iniziarono ad alterarsi fu chiaro che ci sarebbe voluto poco per scatenare dio sa che reazione popolare. Verosimilmente la ionosfera non supportava più trasmissioni radio TV, come sempre. Certamente sarebbe venuta la volta delle trasmissioni Wi-Fi e presto sarebbe venuto meno qualsiasi modo per trasmettere o ricevere informazioni. Al MIT, ad Harvard, tutte le sofisticate apparecchiature di studio, di analisi, di trasmissione avrebbero cessato di acquisire 128


ed elaborare dati. Le grida raccapriccianti salivano lungo i muri, i lampioni, i tronchi degli alberi, andando a soffocarsi nelle nuvole, debole arancione su sfondo notturno, nero. La continua uscita di sgradevoli accordi vocali, tempestava le teste innocenti nelle abitazioni e lungo le strade. Le urla sembravano multi tonali, come emesse da un gran numero di gole differenti. Parevano urla di terrore, di odio, di ferocia, di rabbia. Una saetta accecante fra le nubi, poi un tuono potentissimo fece sobbalzare chiunque non se l’aspettasse, lasciando un riverbero di suono cupo. Coperte dal tuono, le grida fecero il loro ritorno subito dopo. E iniziarono a cadere gocce salate, lacrime che il cielo piangeva quasi in risposta alle urla. Jim camminava lesto con le mani in tasca e il cappuccio della felpa blu calato sugli occhi, anche se non era certo funzionale a non bagnarsi. Si ricordava di un esperimento che aveva provato: che correre sotto la pioggia equivaleva a bagnarsi di più che camminare di buon passo. Le strade erano popolate dalle auto con le luci rosse dei freni sempre più accese in vista dei semafori. Non c'era anima viva a piedi. Anche i negozi erano già stati chiusi. Il grido continuo stava quasi per diventare come muto, ci si stava abituando. Il temporale di lacrime era una cosa mai vista, ma non tutti realizzavano subito la situazione, soprattutto perché rintanati in casa. Doveva raggiungere l’abitazione della sua fidanzata, a due isolati di distanza. Saette più piccole e tuoni sempre più lontani da loro, facevano capire che il temporale stava andandosene. Però grosse gocce battevano ancora dovunque, creando quasi subito pozzanghere e ingorghi d'auto per la visibilità crollata. I lampioni sembravano coperti da uno spesso velo d'acqua, le grondaie si misero a gettare in strada fiotti d'acqua ad ogni angolo. 129


A Jim si accodarono tre grossi cani, al trotto, anch'essi completamente sgocciolanti. Ad una fermata di bus con la tettoia trasparente, del tutto deserta, si infilò per tirare un po' il fiato. Anche i cani finirono per seguirlo, mettendoglisi di fronte. Non erano di razze riconoscibili, ma erano molto scuri con il pelo bagnato, senza collare. Mentre li osservava, i cani osservavano lui. Ad un certo punto, in sincronia cominciarono a ringhiare esponendo le dentature da bocche grondanti spessa saliva. Non c'era motivo di comportarsi a quel modo. Jim conosceva bene i cani, non si spaventò, ma non si avvicinò. Continuavano a ringhiare anche se ora l'acqua non li bagnava più. In qualche modo ce l'avevano con lui, forse perché si era fermato? Senza preavviso comparse sotto la tettoia un ragazzo in giacca a vento, cappuccio ovviamente in testa, perlomeno impermeabile. Scambiò uno sguardo con Jim. “Ehi, deve essere l'unica pensilina con il tetto!”, disse Greg guardando in alto le gocce che si schiantavano sul plexiglass trasparente. “E questa pioggia deve essere l'unica salata”, aggiunse Jim. La sua osservazione riportò l'attenzione alle urla che salivano al cielo, facendo turbinose gimcane fra le gocce di pioggia, prima di scomparire ottundendosi fra le spesse nuvole. “Dio mio, sono tre giorni che questa storia va avanti...oggi il temporale...salato”, fece Greg che si era assaggiato la mano bagnata. “Credo che...” iniziò Jim, nello stesso istante in cui i tre cani gli saltavano al collo strappandogli le carotidi. Cadde in un mare di sangue, che scendendo il gradino, al di là della pensilina, si mescolava all'acqua fino a sparire in vortici attorno ai tombini. Era morto all'istante. ǤǤǤǤǤǤǤǤǤ

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PROVVIDENZA PER GLI SPROVVEDUTI

Guido osservava la scena nella penombra. Un uomo riverso sulla scrivania in una pozza di sangue nero, in cui giaceva con una guancia. Era sconvolto. Si guardò e vide macchie da spruzzi neri, sangue al buio, che gli comparivano sui pantaloni, sulla giacca e sulla camicia. Soprattutto guardò il tagliacarte gocciolante che teneva in pugno nella mano destra. Cosa era successo? Il suo cervello entrò in una specie di paralisi mnemonica. Lui era Guido, biondastro, molto ben messo fisicamente, calciatore fino a 18 anni, che aveva preso la maturità classica passando per tutti i 5 anni senza alcun problema. Dal momento che aveva saltato la 4a elementare era avanti di un anno sui suoi compagni. Il tempo successivo era stato non di meno successo, laureandosi a Milano presso la Bocconi in economia e commercio, inclusi 4 master di perfezionamento, il tutto in 4 anni. Sempre fra i primi 2-3 di ogni corso. Non appena trovato lavoro si era sposato, anche con l'intenzione di riprodursi. Il punto inatteso era però stato il lavoro. Una società di consulenze aziendali per rimettere in piedi situazioni che provocavano disfunzioni e soprattutto perdite di denaro. In sé il lavoro gli piaceva, era ben retribuito, però aveva trovato duro collaborare con il suo direttore Altamura, un uomo incapace di ridere o anche di sorridere, sempre applicato al lavoro senza soluzioni di continuità, certamente esperto e degno di rispetto. Altamura, con il cranio quasi del tutto privo di capelli e la mandibola dura (ricordava quella di un noto uomo politico degli anni 30-40) aveva il compito di controllare i risultati ottenuti da Gui144


do e dai suoi colleghi. Non ci volle molto prima che si incendiasse il rapporto fra Guido e il direttore, soprattutto per divergenze di veduta, calcoli strutturali, interventi sulle aziende. Per via della posizione entro l'azienda Altamura aveva la meglio su tutto e progressivamente sembrava scocciato di brutto. Guido, con il suo background di studi e di successi si sentiva in dovere di segnalargli le discrepanze fra realtĂ e teoria. Questo non gli fece del bene. Ad un certo momento sembrava che Altamura ce l'avesse selettivamente con lui, che controllasse i suoi lavori e si esprimesse sempre con critiche negative. Dopo un anno la situazione non era stata contenuta, anzi peggiorata. Fu convocato dal titolare dell'azienda che gli fece domande strane (che cosa si aspettava dal futuro, se aveva concepito di poter lavorare anche in libera professione, eccetera). CapĂŹ che Altamura lo aveva segnalato in alto. Il secondo anno vide prevaricazioni che gli fecero pensare ad un'azione di mobbing contro di lui, per cui teneva pronta una denuncia. Il suo avvocato, un amico, gli fece presente che una denuncia di quel tipo avrebbe avuto probabile successo, ma gli avrebbe tagliato le gambe in qualsiasi luogo di lavoro alternativo, di quel settore. Guido non cedette alla tentazione e non fece denuncia. Da quello che osservava nella penombra, aveva la risposta su quanto sarebbe accaduto. Durante una ennesima discussione fuori dai denti, i nervi gli avevano ceduto portandolo all'estrema conseguenza di uccidere Altamura. Di certo sarebbe stato meglio procedere in giudizio per mobbing, ma il suo sistema nervoso giĂ provato all'estremo, aveva ceduto di colpo. Su quell'attimo non aveva memoria, come spesso accade a chi compie qualche azione in preda ad un crollo psicotico. Si mosse con cautela avvicinandosi al corpo esanime di Altamura, riverso sulla scrivania, ancora seduto sulla sua poltron145


cina girevole. Guardò il tagliacarte e lo riconobbe, lo aveva preso dalla scrivania del direttore. Ebbe un brivido di sgomento. E ora che fare? Non poteva fare altro che costituirsi. Tutto l'ufficio e le varie stanze di lavoro erano deserte vista l'ora serotina. Ne approfittò per mitigare una sua curiosità, aprendo i cassetti della scrivania. L'ultimo, quello centrale non si poteva raggiungere perché sopra poggiava il torace di Altamura. A quel punto non aveva qualcosa da perdere. Tirò indietro il cadavere sullo schienale della scrivania e aprì il cassettone. Pieno di fogli, foglietti e d'un classificatore alfanumerico. Il computer era spento, ma da quella lista forse avrebbe trovato qualche giustificazione alla sua follia. C'erano scritti tutti i nomi dei suoi colleghi di ogni ordine e grado, fino al suo. Lo sollevò cliccando sul pulsante della lampada da tavolo. Era proprio la sua scheda personale scritta da Altamura in bella grafia. Guido era seguito dal suo status sociale e dai vari passaggi del suo studio, nonché punteggi ottenuti e corsi di specializzazione. Sulla quarta pagina Altamura aveva scritto le sue osservazioni. “Guido è di certo l'elemento migliore dello studio, come ho detto al titolare, però non è pronto a prendersi responsabilità difficili verso i suoi colleghi. Preferisce contestarmi e sto facendo il possibile per metterlo in difficoltà e vedere come ne esce. Ho sempre seguito i suoi consigli operativi senza dirglielo, ottenendo immancabilmente il 100% del risultato finale. Il ragazzo non è un carrierista, si sente superiore alla media ma non gli importa, pensa che il merito individuale lo possa portare in alto. Cosa assai difficile, sfortunatamente. Non compete con i colleghi, non elabora strategie diverse per far passare i suoi consigli: definisce tutto in modo nudo e crudo, come una sintesi che fa seguito ad un'accurata analisi. Se non fossimo in questo mondo, avrebbe già preso le redini di tutto l'ufficio, ma invece ci siamo dentro. Rischia di vanificare le sue possibilità lasciando che colleghi e 146


colleghe si diano da fare per superarsi a vicenda”. Staccò gli occhi dalla scheda come rintronato, confuso e spaesato. Abbassò gli occhi di nuovo. “Lo sto trattando male per farmi trattare male, almeno compete con me e non rischia di trovarsi buggerato, soprattutto dalle colleghe che sono davvero delle iene; so di portarlo all'estremo, ma ad un certo punto lo convocherò e gli spiegherò tutto: sono sicuro che una persona così intelligente mi capirà. Gli chiederò scusa, in fin dei conti sarebbe stato per il suo bene. Lo segnalerò l'anno prossimo quando andrò in pensione, come l'unico che possa sostituirmi”. A Guido uscì un vero singhiozzo dalla gola. Mio dio, aveva ucciso la persona che lo stimava più di tutti! Non aveva capito un bel niente, nonostante vari indizi che gli pareva d'aver raccolto e che subito aveva smentito. Era verissimo che il suo difetto più grave era l'incapacità di competere con gli altri di pari grado, sentendosi in una botte di ferro datagli dal suo merito. Altamura sapeva che non era così che andavano le cose, lo aveva provocato intenzionalmente per fargli tirare fuori gli attributi. Inoltre aveva sempre seguito i suoi suggerimenti di lavoro, che a voce considerava pessimi. Guardò il corpo esanime, poi il tagliacarte che non gocciolava più. Osservò come gli avesse inciso la carotide destra e sinistra con un solo colpo, poi si era avventato con furia su tutto il corpo, da cui avevano sanguinato decine di ferite. Meritava di morire. Cosa poteva fare se non suicidarsi? Un ergastolo non lo avrebbe tollerato. Pianse, pianse a dirotto, nascondendo il viso sul gomito destro piegato, mentre il tagliacarte cadeva a terra con suono metallico. Non riusciva più a pensare, non capiva più nulla se non all'esito del suo gesto. Piangeva ancora, quando percepì che la luce del soffitto si era accesa. Addio, era stato scoperto. Tirò fuori il viso tutto ba147


gnato di lacrime. E restò un'altra volta stupito. La scrivania era in ordine, non c'era traccia di Altamura, anche perché Altamura stesso stava entrando nel suo studio. “Ehi là Guido, ti ho detto di venire nel mio studio alle 18, sei in anticipo di qualche minuto!”

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UN’ALTRA OCCASIONE

Il tutto iniziò con una specie di terremoto; le pareti si stringevano e si rilasciavano come un cuore pulsante. Non sembrava cosa di poco conto. I movimenti quasi sincronizzati finirono per capottarlo e lui si ritrovò a testa in giù, senza più spazio per raddrizzarsi. Come in un incubo. Batteva manate, pugni e calci per farsi sentire, ma nessuno era lì a capire la sua situazione improvvisa. Mancò rapidamente l'acqua e non poté neppure più nuotare, con grave disturbo respiratorio. Che fosse la fine? Per quello che poteva vedere, sconquassato com'era, tutto intorno si sollevavano increspature che lo facevano sentire come spinto verso il basso. Si accertò che il lungo cavo non fosse messo in difficoltà. Ma non era utile cercare di tirarlo, perché scendeva con lui. L'ambiente divenne ancor più cupo quando iniziarono grida e lamenti incomprensibili, attenuando ogni altra sensazione. Fu inevitabile farsi prendere dal panico. Voleva gridare anche lui, ma s'accorse di non esserne capace; restava con la bocca aperta silenziosa, come nel peggiore dei brutti sogni. Ormai chiaro: stava succedendo un cataclisma e lui non era in condizioni di salvarsi. Ma il peggio doveva ancora venire, purtroppo. Le spinte sul suo corpo diventavano sempre più energiche, Gli fu impossibile evitare di vomitare e di avere una sensazione di malessere violento sull'addome. Poi fu peggio. Sentì la sua testa impegnarsi in una strettoia dolorosa, che quasi bloccava tutti i suoi movimenti. Questo passaggio non fu rapido e le urla disperate, ora sempre più forti, gli bucavano i 179


timpani. Ad un certo punto sentì la testa fredda e il corpo ancora caldo. Ombre veloci turbinavano attorno a lui, senza pietà. E qui si sentì soffocare. Non c'era tempo da perdere. Riprovò a urlare con tutto ciò che aveva in corpo, ma ne uscì un triste rumore di bolle bagnate. S'impegnò ancora. Finalmente riuscì a farsi sentire, emettendo un urlo atroce. Capì che poteva riuscirci solo aspirando aria il più possibile. Una volta capito il meccanismo non volle più fermarsi. Sentiva il petto gonfiarsi poi grida disperate che seguivano l'aria in uscita. Invece le urla che provenivano da fuori andarono scemando sino a concludersi. A quel punto, con la testa al freddo, seguì tutto il corpo. Dal tepore al grigio freddo. Gli veniva proprio bene gridare e gridare. L'incredibile maltrattamento subito dal suo corpo lo costringeva a muoversi a scatti, senza contare che d'acqua non ce n'era più, non si poteva galleggiare. Appena riuscì ad aprire un occhio, vide appannata la dura realtà. Un gruppo di grandi mostri lo circondava fingendo entusiasmo (o erano felici d'averlo acchiappato). Purtroppo le torture non erano finite: uno dei mostri, brandendo un coltello, gli tagliò il cavo del suo sostentamento e ne seguì un senso di rivoltamento interiore mai provato, come la perdita d’uno stato di salute. Il cavo fu annodato su se stesso, così sarebbe rimasto bloccato in quel mondo orribile. Per aggiunta si sentì bagnare tutto da un'acqua fredda mai provata, strofinato, poi asciugato. No, non avrebbe smesso di urlare. Come ciliegina sulla torta fu preso come un fuscello e piazzato accanto ad uno dei mostri, che stranamente rideva e piangeva. Un mostro pazzo. Quello che lo stupì fu l'odore. Quel mostro era impregnato dell'odore della sua felice precedente casa, di certo un trucco per rabbonirlo. D'altronde dopo aver tanto urlato dovette riposarsi un momento, vicino a quel profumo d'un ambiente amato. Così si addormentò. 180


Non fu un sonno sereno, neppure lungo. Si riebbe mentre un mostro orrendo lo stava portando da qualche parte. Proprio ora che aveva riassaporato un po’ d’aria di casa. La sua destinazione non era lontana, una scatola. Venne deposto in una scatola trasparente sopra una specie di stoffa. Gli misero un cartellino al polso (più prigioniero di così…). Il tempo passava veloce. Quasi un momento dopo la sua “inscatolazione” percepì un fastidio mai provato al petto, poi diffuso a tutta la pancia e persino alla gola e alla bocca. Un’altra tortura programmata, ne era certo. Ma questo fastidio cresceva e rischiava di divenire insopportabile. Così cominciò di nuovo a urlare a squarciagola, qualcosa sarebbe successo. Bè in effetti venne qualche mostro a guardarlo, ma era passato tempo sufficiente a sfinirlo. Fu di nuovo sollevato e gli sembrò di rifare il percorso al contrario. Lo aveva azzeccato. Tornò dal mostro che odorava di casa, che ora non piangeva più, ma gli faceva grandi sorrisi. Lui stava malissimo e non sapeva cosa poter fare. Fu messo accanto al mostro “di casa”, che in breve finì per infilargli in bocca una piccolo pomello tenero. Stupefacente! Quella cosa sgocciolava un liquido dolce e buono, lo capiva anche se era la prima volta che sentiva un gusto. In ogni caso ci diede dentro a cercare di succhiare tutto quello che gli riusciva, prima che glielo togliessero. Infatti si erano avvicinati altri grandi mostri che interloquivano fra loro con suoni gutturali, ridevano (una presa in giro, di certo) e qualcuno si azzardò persino a toccargli la testa con una carezza (che atteggiamento ipocrita!). Fu come non fu, ma dopo un periodo di tempo che non riuscì a misurare, sentì di poter mollare quel nettare, che quasi gli usciva dalle orecchie. Guardò meglio che poteva quel mostro che sapeva di casa. Quello non era cattivo, lo sentiva. Gli aveva fatto passare quel dolore disagevole. Lo misero in su, con la testa sulla spalla del mostro buono, che gli batteva piano piano la schiena. Difatti poco dopo sentì qualcosa di estraneo crescere 181


dentro la sua gola e con quei colpetti gli venne bene di espellerlo con uno strano suono. Tutti ora ridevano, battevano le mani e il mostro buono gli poggiò un bacio sulla guanciaǤ Almeno di qualcuno poteva fidarsi.

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